Libri: recensioni

La letteratura ci fa capire l’esperienza umana:
questo serve anche agli esperti di biologia e viceversa.
David Lodge

La narrazione:
bugia più vera della verità
“The Bellevue Literary Review”, edita – dal 2000 – dal Dipartimento di Medicina dell’Università di New York, è stato il primo periodico umanistico patrocinato da una Facoltà scientifica ed è andato sempre più affermandosi sia in quel bacino di lettori meno affascinato dall’onnipotenza della tecnica, sia presso autorevoli ambienti della critica indipendente. Merito del prestigio d’origine e della qualità dei contenuti, garantiti dalla competenza di Danielle Ofri, direttore e specialista dell’area.
Il quaderno di primavera 2011 ne è conferma, ospitando i contributi (poesie, racconti, saggi) che hanno vinto i Premi annuali assegnati dalla rivista (Bellevue Literary Review: Spring 2011; pp. 192. New York: NYU Langone Medical Center; doll. 9.00). Segno distintivo dell’impresa è la continuità nella tradizione e – a testimonianza – ecco, sulla copertina, la foto di un’ambulanza dell’Ospedale negli anni Trenta del secolo passato, corredata da una didascalia/commento a firma di un veterano dell’Istituzione, medico di Pronto Soccorso che al Bellevue ha dedicato l’intera vita professionale. Esempio di fedeltà e, insieme, occasione offerta ai lettori per riflettere sui fondamenti e sulle trasformazioni di quasi un secolo di medicina e sanità pubblica. Le pagine della rivista, infatti, documentano quanto e quante cose siano cambiate, ma ci ricordano anche come immutate rimangano, tra le antiche mura, le emozioni, il dolore, le speranze, la solitudine e la solidarietà delle persone – malati e medici – che vi hanno operato e sofferto. Testi ed immagini lo confermano, promuovendo a significazione universale episodi di toccante umanità. Sono testimonianze di individui in carne ed ossa colte dal vivo: il balbettio del disabile, la crudeltà di una scoliosi, le violenze nascoste dalla rispettabilità domestica, gli abusi sessuali, la solitudine degli operatori, il bambino morente, l’esclusione dell’anziano. Condizioni che invocano aiuto e inducono a riflettere anche sul retroterra di ciascun “caso”, proponendolo quale soggetto di una storia di cui tutti siamo partecipi. Proprio questi retroterra, questi “non-detto”, assurgono a ruolo di co-protagonisti, inverando la rappresentazione con intensità carnale e insieme rispettosa, anche in virtù di una prosa ben calibrata ove la realtà riesce a farsi metafora. «La narrazione, questa grande bugia più vera della verità…» (secondo la felice intuizione della Ofri), ci conduce a riflettere sul grande tema di fondo: l’irredimibile ferita dell’umana vulnerabilità. La cui declinazione – salute, malattia, sofferenza e compassione – costituisce da sempre il crocevia del nostro essere-al-mondo. A proposito dell’ascolto e della necessità di dialogo con il malato «è possibile – scrisse Noam Chomsky – che in futuro si impari più dai romanzi che dalla psicologia scientifica»: nella misura in cui – vien da pensare – la letteratura e le arti riescano a divenire strumenti di autodifesa dall’ineludibilità del limite: «l’ homo sapiens – nota un recentissimo David Lodge (“La coscienza e il romanzo”, Bompiani 2011) – vede la propria vita essenzialmente in termini narrativi, con un passato, un futuro e una fine…: e ciò può costituire una tattica di conservazione».



È una iniziativa, questa della Ofri, che, a favore del superamento delle due culture, sarebbe augurabile anche presso le Facoltà mediche del nostro paese; perché, «una alleanza profonda, reale, tendenzialmente paritaria tra medici e pazienti può costituire il perno di una resistenza vincente sulla deriva della medicina verso orizzonti disumanizzanti e tale alleanza non può che prendere avvio dalla valorizzazione di un approccio narrativo alla medicina» (Bert). Pur adottando la prudenza di Russ Kolarik del Medical Center dell’Università di Pittsburgh allorché avvertiva: «Novelle, poesie, romanzi sono, non di rado, di ausilio agli studenti di medicina per una riflessione meno fugace sui risvolti umani dell’assistenza ai malati e della tecnica professionale; tuttavia, gli effetti reali di questo ausilio non sono stati scientificamente determinati» (JAMA: 294: 499).
E dunque? Una risposta potrebbe esserci data dalla sensibilità di colui (medico o studente) che tale sintesi dovrebbe operare. Sembra essere questo il convincimento di Robby Turner, lo studente di Medicina che in “Espiazione”, il bellissimo romanzo di McEwan, vede la sua vocazione frustrata e le sue ambizioni deluse. Lo ammiriamo, infatti, immaginare «il maturo e saggio dottore che sarebbe diventato…; avrebbe avuto uno studio tetro e vastissimo… Sugli scaffali manuali di medicina, certo, ma anche le liriche del diciottesimo secolo, la sua terza edizione di Jane Austen, il suo Eliot e Lawrence… e l’opera omnia di Conrad… Perché il punto era senz’altro questo: lui sarebbe stato un medico migliore per il fatto di aver letto tanta letteratura. La sua sensibilità gli avrebbe suggerito analisi profonde della sofferenza, della follia autolesionista o della sfortuna che conducono gli esseri umani alla malattia!
Nascita, morte, e in mezzo un cammino di fragilità. Principio e fine, questi i fenomeni di cui si occupava un medico, e altrettanto faceva la letteratura» (Espiazione, pag. 99; ed ital. Einaudi, Torino).
In conclusione, conviene ribadire quanto recentemente auspicato: sarebbe bene tenere assieme queste due forme basilari di pensiero, riuscire a richiamarsi complementariamente alla medicina basata sull’evidenza e alla medicina basata sulla narrazione. La vita del medico, come quella del paziente, si nutre quotidianamente di storie: imparare a narrarle e ad ascoltarle sempre meglio aiuta ad arricchirla di senso. Come suggerisce Atul Gawande ai suoi discepoli: «Contate e raccontate».

Alice Morgan
Se si comincia col dubbio
si terminerà con certezze
Ftrancesco Bacone
Ripensare l’invecchiamento, oggi
Cresce, negli Stati Uniti, il disagio di clinici, sociologi, politici, ed anche di una parte della pubblica opinione, di fronte all’ingravescente fenomeno di medicalizzazione della società. Un recente volume ce ne fornisce testimonianza (Nortin M. Hadler. Rethinking aging: growing old and living well in an overtreated society. Pagg. 288. University of North Carolina Press, Chaper Hill 2011. Doll. 28. ISBN 13-978-0-8078-3506-7). L’Autore non è nuovo nel denunciare gli eccessi della medicina contemporanea, specialmente riguardo ai soggetti anziani. L’opera si apre con due affermazioni che non lasciano adito a dubbi: «l’invecchiare e il morire non sono in se stessi malattie. Sono, piuttosto, diventati àmbiti privilegiati per un marketing di massa a vantaggio dell’industria sanitaria e, particolarmente, farmacoterapeutica». Hadler disseziona la letteratura medica relativa agli studi clinici, valutando la miriade di interventi, procedure, test di screening e impiego di farmaci. A suo giudizio, a fronte di cospicui oneri finanziarii, i risultati in termini di beneficio per la popolazione, soprattutto anziana, sono sconfortanti. Ne sono un esempio i trial sulla chirurgia delle coronarie, a proposito dei quali le sue conclusioni – testuali – sono le seguenti: «Non vi è dubbio che la cardiologia interventistica e la terapia chirurgica delle coronaropatie abbiano scritto i capitoli meno raccomandabili dell’intera storia della medicina occidentale». L’Autore continua con lo stesso passo, analizzando criticamente le procedure adottate nei grandi screening su anziani asintomatici per il tumore della prostata, per quello mammario e della tiroide e per l’osteoporosi, alla luce di un distinguo pregiudiziale tra screening su soggetti asintomatici o non, e conseguenti risultati poco attendibili. Con ulteriori effetti in termini di insicurezze, ansie, e costi superflui.
Seppure adottando prudente riserva nei confronti di una così draconiana radicalità, non si può rimanere indifferenti rispetto a denunce tanto decise, e nei lettori viene insinuato un seme di dubbio che – se e quando ben coltivato (mercé verifiche, raffronti ed esperienze più probanti) – potrebbe essere stimolo a meno massive strategie epidemiologiche. Tuttavia, un’affermazione con cui è difficile convenire è lo scetticismo dell’Autore nei riguardi dell’utilità preventiva della mammografia, specialmente – egli precisa – in soggetti ultracinquantenni. Infatti, numerosi, autorevoli studi epidemiologici e casistiche osservazionali smentiscono una sfiducia tanto anticonvenzionale quanto sospetta di preconcetto ideologico e – alla luce della medicina basata sulle prove – fortemente temeraria. A nostro parere  prese di posizione come questa esigono grande cautela e vigile senso di responsabilità, tanto che verrebbe legittimo ipotizzare, in Hadler, forse un non biasimevole intento di partenza – la critica all’onnipotenza terapeutica (“ci si ammala perché si deve morire e non viceversa”) – poi però inquinato, strada facendo, dalla fascinazione dialettica del paradosso. E l’eccesso, nel paradosso, è un trabocchetto da evitare. Vale a dire: l’abuso di medicalizzazione è fenomeno certamente da contrastare, però con argomenti ponderati, sulla scorta di dati numerosi e sicuri. Di poche settimane fa è – ad esempio – un Report, commentato da Des Spence sul BMJ (343: 7403, 2011) che pone in risalto cifre significative: in Florida, durante il 2008, malintese prescrizioni di oppioidi hanno condotto al decesso un numero di soggetti superiore a quello delle vittime di dipendenza da eroina ed alcolici, ed in tutto il Paese ben 12 mila sono le morti dovute ad abuso di farmaci: il doppio dei caduti in Irak. Queste cifre – arguisce l’Autore del commento – sono in correlazione diretta all’enorme incremento delle vendite di analgesici dal 1999 ad oggi: il 300%!



Tornando ad Hadler e della sua “campagna”, potremmo, quindi, concludere – per quanto sopra accennato – richiamando alla mente una definizione che ebbe a darci l’Einaudi: «Amante del paradosso è colui che ricerca la verità esponendola in modo da irritare l’opinione comune, costringendola a riflettere su se stessa e sulla supina accettazione di erronei comportamenti». Fare di ogni erba un fascio è sicuramente inappropriato, ma è altresì vero che, come scrisse Montaigne, «il più sapere occasiona il più dubitare».

Gaia de Bouvigny

Tutte le famiglie felici sono simili,
ma ogni famiglia infelice
è infelice a modo suo
Lev N. Tolstoj
Scienza o pratica della felicità?
Negli ultimi anni è apparsa una gran quantità di libri auspici di una scienza della felicità: tra gli altri, gli autorevoli “Happiness, growth and life cycle”, di Richard Easterlin (2010) e “Happiness: lessons from a new science”, di Richard Layard (2005). Il messaggio ed essi sottostante è quello secondo cui la felicità è per se stessa un bene che la gente – ciascuno di noi –, e dunque la politica, dovrebbe impegnarsi a perseguire e ad incrementare al massimo. Nel suo The happiness equation, Nick Powdthavee (Icon Books Publishers 2010; pagg. 250; sterline 14,99; ISBN 978-184831-166-4) si unisce al coro, riproponendo preliminarmente l’ovvio principio in virtù del quale sia in una prospettiva individuale – quella che considera la felicità quale premio ad un agire personale – e sia nell’ottica comunitaria – felicità come frutto di decisioni pubbliche – la realizzazione del risultato perfetto resta quella del massimo benessere, per ciascuno e per tutti.
In particolare, per quel che riguarda la salute, viene ricordato il test di Redelmeier e collaboratori (Pain 2003; 104: 187-94), inteso a verificare ampiezza e limite entro cui un soggetto stabilisce la minimizzazione di un’esperienza di disagio (una seppur passeggera infelicità). 682 pazienti sottoposti a colonscopia furono distribuiti in due gruppi. In uno, il colonscopio fu lasciato in sede – inattivo – per un minimo di tempo oltre quello necessario al completamento dell’indagine: con conseguente breve sensazione di fastidio, assai più lieve, tuttavia, di quella causata dal procedere della sonda durante l’intera durata dell’esame. Gli autori osservano che l’infelicità: - “il ricordo del disagio” – tendeva a livelli d’intensità minori in questo gruppo che mediamente aveva, sì, esperito una più gravosa molestia globale, ma aveva tuttavia potuto godere di una pausa finale, di un momento di sospensione, rispetto al gruppo di pazienti ai quali il colonscopio era stato rimosso di colpo, appena terminato l’iter esplorativo.



In successivi esperimenti il risultato ha ottenuto conferma: un breve, intenso attimo di gioia fa agio su una sofferenza diluita nel tempo; ma, ciononostante, possiamo noi dedurne la indefinibilità di benessere oggettivo? Quel che è certo è che esso, ad un giudizio etico, appare assai problematico. Consideriamo, ad esempio, l’immaginario caso seguente. Due malati sono in attesa di un trapianto che salverebbe loro la vita; sono in condizioni precisamente identiche, tranne che per diversità di umore caratteriale, in quanto il paziente A – a differenza di quello B – ha una tendenza naturale all’ottimismo: è cioè capace di esaltare qualsivoglia esperienza fortunata. Ed ecco arrivare l’organo da trapiantare: è uno e costituisce, dunque, la salvezza di uno solo dei due candidati. Di quale? Se il programma sanitario fosse quello di massimizzare la felicità, la scelta sarebbe obbligata verso il paziente A. Ma un simile criterio selettivo non è legittimato da alcuna norma né giuridica né morale; nella nostra società valgono altri valori di elezione: in primo luogo il rispetto dell’uguale diritto alla vita da parte di tutti, prescindendo dall’apprezzamento che ciascuno riservi a tale prerogativa. Non vige un termometro della felicità. Così come – sottolinea Powdthavee – non è consigliabile privilegiare il concetto di una determinazione genetica alla felicità, condizione invece sostenuta autorevolmente dal Layard (op. cit.). Piuttosto, perché non considerare alcuni, tutt’altro che trascurabili, succedanei della felicità? Per esempio, suggerisce l’Autore, esser fedeli alle promesse, mantenersi coerenti con i propri ideali, incisivi nel lavoro prescelto, sinceri e leali in famiglia e nelle amicizie. Non sono, forse, questi altrettanti valori, fervidi di serenità e soddisfazione, motivi di benessere fisico e spirituale? In buona sostanza, Powdthavee ci riporta con i piedi in terra: piuttosto che arrovellarci su definizioni astratte di felicità ci esorta a costruire giorno per giorno, con buon senso e rispetto solidale, la nostra – seppur non massima – felicità; senza dimenticare – impegno parallelo e costante – di contribuire a quella degli altri. Lodevole pedagogia che fa onore al celebrato empirismo della terra di John Locke.

Caterina Roghi