Libri: recensioni

Lo storico deve avere una qualche idea
del come si comportano gli uomini
che non sono storici
Edward M. Forster

Medicina, storia, società
Ogni edizione dell’Oxford handbook of the history of medicine (a cura di Mark Jackson, pagine 696, sterline 95; Oxford University Press, London-Oxford: 2011) segna – in materia – l’avvento di un’epoca nuova. Questa vocazione ad un approccio di volta in volta originale ha avuto inizio dagli anni settanta del secolo scorso: attraverso la graduale spersonalizzazione di fatti e di attori, a vantaggio dei determinanti sociali che contribuiscono ad una visione culturale della teoria e pratica della medicina. Una tale caratteristica informa ormai per intero la presente stesura ove la cronaca degli eventi clinici viene costantemente integrata dall’ottica socio-politica.
Il dovere primario del medico d’oggi è quello di fidelizzare il rispetto della persona malata ed è alla luce di tale convinzione – una pietra miliare – che si ispirano cronache e commenti dei collaboratori del Manuale.
La crescente integrazione del bagaglio tecnico mercé l’approfondimento del sapere umanistico – che è un motivo ricorrente nelle “prospettive per il futuro” poste a conclusione di ciascun capitolo – appare, oggi, un eccellente suggerimento per un aspirante storiografo alla ricerca d’una valida strategia d’indagine. Imparare le modalità di comportamento dei medici del passato è importante quanto il conoscere il livello della loro perizia clinica, così come coltivare un rapporto di dialogo con il malato ed il giudizio di quest’ultimo sulla qualità dell’alleanza terapeutica. In tale ottica olistica, ad esempio, Philip Van der Eijk non esita ad affermare che i problemi della salute e della malattia mentale nel mondo greco-romano non possono essere studiati prescindendo dai traguardi attinti dalla filosofia, dalla letteratura e dalla religione elleniche. Cultura vasta e integrata, di cui – l’Autore lo sottolinea – Ippocrate fu, sì, protagonista meritorio, ma non unico.
Questo accento sul pluralismo di agenti e di saperi è discernibile in tutta l’opera.
La seconda parte (ce ne sono tre: “Periods”, “Places and Traditions”, “Themes and Methods”) descrive e spiega i cambiamenti della storia medica correlandoli a quelli di una geografia planetaria: e si resta affascinati dalle grandi tradizioni – cinese, islamica, africana, sud-asiatica – ognuna delle quali schiude la mente dei lettori a singolari mondi di dottrina e di opere; così come vissuti umani e civili di drammatico interesse ci vengono proposti dalla collisione tra etnie e politica ai tempi dell’espansionismo coloniale o dal tumultuoso affrancamento del mondo del sottosviluppo o dal rinnovamento libertario della cultura post-comunista.
Una visuale centrata maggiormente sulla sanità pubblica e sulle politiche epidemiologiche è invece propria della medicina occidentale: la trattazione diviene dunque un excursus comparato del sistema welfare nelle varie nazioni, compresi quelli – oggi esposti all’attenzione non dei soli esperti – degli Stati Uniti e della Gran Bretagna dei quali vengono segnalati limiti ed inerzie: scarsa trasparenza, conflittualità di interessi, lobbies di potere, settarismi di casta, diseguaglianze nelle prestazioni. Una simile attenzione critica riesuma interrogativi non nuovi ma tuttora validi. Cosa possiamo imparare dal passato? O non dovremmo, piuttosto, considerare un peccato di presunzione coltivare una tale fiducia? La storia della medicina non è l’ancella della dottrina e della pratica d’oggi: ne sollecita e ne incoraggia – al contrario – il pensiero critico e ne sottolinea la complessità. Il rapido, crescente interesse dalla corporeità ha spostato il focus dell’attenzione medica ben al di là del troppo celebrato “occhio clinico” e degli enigmi – non rari – della sala settoria. Nell’era della medicina genomica si impone un ineludibile individualismo (ma, attenzione!, non isolazionista), urgono interpellanze rinnovate e/o originali: dall’assunzione della diversità (donne, cronicità, adolescenti, anziani, disabilità) c’è una sempre maggiore consapevolezza di vivere in un macrocosmo.




La ‘connessione Colombo’:
nel nuovo mondo
meno sifilide,
più vaiolo e influenza

L’era digitale ce ne fornisce conferma e supporto. Essa ci suggerisce, in aggiunta, che il vissuto di persone e di gruppi a suo tempo ridotti a mera entità numerica può recuperare dignità e diritti contribuendo a creare quella che un demografo ha felicemente definito «una storia della medicina basata sull’evidenza».
In conclusione, senza pretese di proclami, questo libro ci ricorda la virtù della ricerca scientifica indipendente ed il ruolo benefico di una medicina a misura d’uomo, sollecitando reciproco riconoscimento e collaborazione. In tempi di precarietà e di diseguaglianze come quelli che oggi ci troviamo a soffrire, sono valori di significativa importanza.

Analogo impegno di indagine a trecentosessanta gradi premia il lettore di un testo più specialistico ma egualmente di largo interesse, nonostante si tratti della traduzione di un’opera pubblicata in Brasile nel 2003: Storia delle epidemie, di Stefan Cunha Ujvari, traduzione di Alessia Bambini. Premessa di Eugenio Paci. Prefazione di Moacyr Scliar. Pagine 350. Editrice Odoya, Bologna 2012. Euro 20,00. ISBN 978-886288-127-2.
Esso conserva comunque il pregio di correlare, con accattivante fluire narrativo, le tante vicende della patologia infettiva – dalle catastrofi epidemiche globali ai focolai locali, non meno insidiosi – con la vita sociale ed economica, ponendo l’uomo e la comunità al centro della scena, come soggetti interagenti del loro destino, nella misura in cui assumano consapevolezza della propria fragilità. Come argutamente annota Moacyr Scliar nella prefazione: «la cosa certa è che, in determinate circostanze, sia per colpa dei germi, sia per colpa nostra, ci ammaliamo. Inoltre una malattia può disseminarsi in modo esplosivo, dando origine a ciò che l’umanità conosce e teme da molto tempo: una epidemia». La malattia nasce con l’uomo e con la malattia nascono le epidemie. Già Tucidide ci dà la tenebrosa descrizione d’una piaga che funestò Atene nel 432 a.C.: un morbo non identificato che fece migliaia di vittime. In seguito, l’inizio del Medioevo fu in linea generale scevro da epidemie. Ujvari, che sottolinea costantemente la relazione tra malattie e condizioni socio-economiche, spiega questa circostanza con il relativo isolamento in cui vivevano a quel tempo le piccole comunità umane. Ma già alla fine della stessa età medioevale si presentarono ripetuti focolai di peste bubbonica. «Si erano venuti infatti accumulando diversi fattori scatenanti: l’aumento di popolazione, soprattutto urbana; la carenza di cibo, che aveva provocato denutrizione e, quindi, maggior propensione verso le malattie; un considerevole incremento dei viaggi per mare, sulle cui navi in arrivo dall’Oriente giungevano i ratti - con le loro pulci -, il cui morso trasmetteva il bacillo causa della peste. Il risultato fu catastrofico: non ci sono cifre affidabili a riguardo, ma si calcola che un terzo della popolazione europea sia morta durante l’epidemia del 1347-1348. Dato che non si conosceva la causa della malattia, gli ebrei, classici capri espiatori, furono accusati di aver avvelenato i pozzi e furono uccisi a centinaia».
La peste trecentesca cambiò il corso della storia d’Europa. Così come il tifo petecchiale ebbe un ruolo nella definitiva estromissione dei musulmani dalla penisola iberica: più che le armi di Ferdinando II il Cattolico, poté la devastante epidemia che infierì sull’esercito arabo.
Con la modernità, un nuovo morbo apparve in Europa: la sifilide, che si suppose fosse stata importata dall’America dai primi naviganti di lungo raggio: la cosiddetta “connessione Colombo”. La disseminazione della sifilide fu facilitata dal rilassamento dei costumi e dalle guerre frequenti: «lo stupro fu un modo di colpire la popolazione nemica nella propria dignità». Il Nuovo Mondo uscì in perdita dallo scambio di malattie: gli europei possono aver portato via con sé la sifilide, raramente mortale; in compenso, però, introdussero in America altri morbi, incluso il vaiolo, che decimò le popolazioni indigene e facilitò il compito a conquistatori come Cortés e Pizarro. Fisiologicamente indifesi, morirono numerosissimi persino a causa dell’influenza.





Troppo facilmente la fede nel progesso
ha deciso di eliminare l’altro con i batteri e i virus,
imponendo ulteriore violenza su chi già soffre,
segregato sia dalla malattia
che dalla perdita dei propri diritti
Eugenio Paci

E la diminuzione degli autoctoni fu una delle ragioni dell’introduzione di schiavi africani, anche loro spesso portatori sani.
Con la crescita della popolazione – la Rivoluzione industriale aveva accelerato l’esodo dalla campagna alla città – si diffusero nuove epidemie: quella di colera, per esempio, che tra il XVIII e il XIX secolo era tanto frequente a Londra quanto a Bombay. Studiando un focolaio di colera, John Snow, medico della regina Vittoria, collegò la malattia all’acqua di consumo: uno studio pioniere per la storia dell’epidemiologia. Da qui i conseguenti, provvidenziali precetti di prevenzione: igiene personale, rifiuto di acqua a rischio di contaminazione per prossimità a fogne e discariche, bollitura di quella da bere. Ma la riprova scientifica della teoria snowiana si evidenziò nel 1854, allorché ebbe a ripetersi il diffondersi della malattia. Snow sapeva che, nell’area londinese, la distribuzione dell’acqua era competenza di due società: la Southwarck & Vauxhall, i cui impianti erano situati a valle della rete fognaria e la Lamberth Company, che li aveva a monte. Fu sufficiente una rilevazione epidemiologica delle rispettive utenze per giungere a risultati statistici decisivi: i casi di colera nelle comunità servite dalla Southwarck & Vauxhall erano 8 volte più numerosi di quelli rilevati tra gli utenti della Lamberth. In concomitanza con tale evidenza, un focolaio di colera si accese proprio nell’isolato ove era la casa di Snow. Ancora una volta, il nostro individuò l’origine dell’infezione: una fontana pubblica, la pompa di Broad Street. Si provvide a disattivarla ed il focolaio, rapidamente, si spense. Snow se ne attribuì tutto il merito, nonostante la probabilità di altre favorevoli concomitanze, e, così, il caso della pompa a Broad Street entrò negli annali dei classici della medicina.
La vicenda – prodromi e conseguenze – è dettagliata in un libro documentato e avvincente la cui lettura è parimenti godibile ed istruttiva: Cattive acque. John Snow e la vera storia del colera a Londra. A cura di Tom Jefferson. Pagine 160, ill. Il Pensiero Scientifico Editore, Roma Euro 22,00.
Fino ad allora la causa delle malattie trasmissibili continuava a essere un mistero: si parlava spesso di miasma, l’emanazione di regioni insalubri (il termine “malaria” allude proprio a questo). Poi, con Louis Pasteur e la sua rivoluzionaria ricerca, la microbiologia fece un grande salto in avanti, che avrebbe portato all’identificazione di germi, alla preparazione di sieri e vaccini e, successivamente, alla scoperta degli antibiotici. Quest’ultima fu ragione di incontenibile euforia: si credeva che da quel momento in poi la minaccia delle malattie trasmissibili fosse debellata per sempre. E invece…

E invece non è così e non è nemmeno tutto male che non lo sia. Ci ammonisce infatti, Eugenio Paci nella nobile Premessa all’edizione italiana del libro di Ujvari: «Riflettere sulle epidemie di malattie infettive offrendone una conoscenza nella prospettiva storica, come fa Ujvari, è quindi importante anche per riconsiderare la troppa facilità con cui la fede nel progresso ha pensato di eliminare l’altro, i batteri e i virus, finendo per imporre con la violenza un’ulteriore sofferenza su chi già soffre, segregato e allontanato sia dalla malattia infettiva che dalla perdita dei propri diritti umani. L’agente infettivo non deve esser affrontato con la metafora del nemico: il più delle volte esso non causa epidemie letali né mette a repentaglio la nostra esistenza; ma deve essere studiato, sorvegliato e curato usando una metafora in cui si riconosca che, è parte del mondo, e soprattutto che quando diviene aggressivo, è necessario sempre considerare l’altra faccia della questione, cioè quanto l’epidemia possa essere veicolo di sofferenza non solo per la malattia in sé, ma in quanto ragione di emarginazione.
Porre al centro dell’attenzione la dimensione sociale e comunitaria nella considerazione delle malattie infettive può portare l’uomo a riconsiderare il suo ruolo e la sua responsabilità nei confronti degli altri uomini e del mondo».

Benedetta Marra

Credere e conoscere
In uno studio statistico pubblicato su Cognition (123; giugno 2012: 335-346) da un gruppo di psicologi dell’Università di Waterloo (Canada) è stata documentata una correlazione inversa tra credenza religiosa e conoscenza analitica: risulta che la maggioranza del campione preso in esame (55%) tende a non essere religiosa, non avverte il bisogno di fedi soprannaturali ed è costituita da soggetti meglio scolarizzati, più colti e abituati ad approfondire il proprio sapere. L’occasione è propizia per commentare l’uscita di un agile libretto: Credere e conoscere, di Carlo Maria Martini e Ignazio Marino (pagine 84; editore Einaudi, 2012, Torino; euro 10. ISBN 978-88-06-21264-1). Il primo Autore è Cardinale di Santa Romana Chiesa e il secondo è stimato accademico di chirurgia e parlamentare del Partito democratico. Stando ai due protagonisti ed al loro argomentare, infatti, l’esito della ricerca canadese non sembra trovar conferma, ché – anzi – su temi tanto sensibili e di così grave spessore – fecondazione assistita, cellule staminali embrionali, omosessualità, celibato sacerdotale, fine della vita – si manifesta un interesse convergente sia cognitivo che religioso, inverato (ma non esaurito) da sensibilità etica di particolare spessore in ciascun Autore e in entrambi: sensibilità nutrita da conoscenza alta e da fede vissuta nelle proprie aree: l’uno nel ministero e l’altro nella professione. Dunque intellettualità e anelito religioso – pur distinti – convivono e creano, rispettando i reciproci àmbiti. Si veda – ad esempio – come il senatore si esprime sul proprio impegno politico: «Non va confusa l’elaborazione intellettuale tra scienziati, filosofi e uomini di fede con il lavoro che devono fare i Parlamenti. Le leggi devono infatti prevedere principî giuridici che tengano conto delle conoscenze scientifiche, ma non hanno il compito di tradurre in ordinamento i principî etici». E il porporato, pastore di anime, da parte sua: «Sbagliata sarebbe l’impressione che alla Chiesa interessi sostanzialmente la questione etica. La Chiesa ha come scopo predicare il Vangelo. Senza di esso sarebbero vani gli sforzi per formulare prescrizioni etiche corrette».


Vi sono due fatti, comuni all’anima razionale, tanto a quel-
la di Dio quanto a quella d’un uomo e d’ogni animale par-
tecipe di ragione. Eccoli: il primo, è non essere impedito da
altri; il secondo, possedere il proprio bene in una ulteriore
disposizione e in una capacità d’agire conformi a giustizia
Marco Aurelio




Più avanti, a proposito di sessualità e Chiesa, Marino ricorda che l’AIDS si può in parte contrastare con l’utilizzo del profilattico. E Martini non lo demonizza, ammettendo: «Certamente l’uso del profilattico può costituire un male minore», e non esitando ad affermare: «La storia insegna come la chiusura aprioristica della Chiesa, di fronte agli inevitabili cambiamenti legati al progresso della scienza e della tecnica, non sia mai stata di grande utilità. Galileo Galilei
docet». Ma anche il laico Marino non rivendica, non polemizza; al contrario, raccoglie il testimone, aggiungendo: «Andrebbero moltiplicate le sedi e le occasioni di dialogo».
Ragione e percezioni, virtù speculativa e immaginazione, ma anche passione e ideologia, sotto la spinta dell’istanza salvifica raggiungono una sorta di temperatura di fusione che le rende tutto sommato non distinguibili.
Questa, mi pare, la prima virtù del libro: la buona volontà di venirsi incontro, il rifiuto del pregiudizio, pur nel rispetto degli inevitabili “distinguo”. Era presente, tale virtù, anche nell’analogo, precedente, incontro tra i due Autori: il Credere e curare del 2005; ma, ivi, il tema la facilitava, la incoraggiava; “il curare” (meglio che “il guarire”, si noti) rappresentandosi,  sì, quale opera di misericordia corporale, ma sublimabile con altrettanta frequenza a risorsa di solidarietà e di condivisione, non riducibile a prospettiva meramente cognitiva. È l’attitudine – sia detto per inciso – che, oggi, Vito Mancuso definisce come «conversione della religione»: l’opportunità che essa, la religione (nel caso, il Cristianesimo), torni ad essere sale della terra, cessando di configurarsi esclusivamente quale ortodossia di una fede e recuperando, piuttosto, la categoria di ortoprassi, del primato dell’agir-bene, rispetto al dogmatismo teorico della dottrina (pur consapevole – peraltro – dei rischi cui questa conversione può esporla…).
Da qui un altro pregio del volume: la comune visione beneficale degli Autori. Essi pensano che il mondo non vada solo amministrato, ma anche migliorato e reso più umano, anche se sono ben consapevoli dei propri limiti. Ed anzi, facendo anche di essi, dei rispettivi limiti e insuccessi, motivo di riflessione condivisa: una esortazione alla prudenza ed alla tolleranza. Affinché il confronto con l’altro venga condotto con onestà intellettuale, condividendo il primato della ricerca paziente, memori del monito secondo cui la pazienza genera la speranza.

Caterina Roghi