Libri: recensioni

L’umorismo da scuola media
è uno dei tratti dell’ospedale
Lalla Romano

Faccia un bel respiro
«Ve n’è di libri che son fatti per esser letti al crepuscolo, vicino a una finestra, in quella tiepidezza lasciata dal sole recente, in quell’ora che si presta alle prime avvisaglie della tristezza, ai ricordi che risuscitano nell’approssimarsi della grande solennità notturna».
Son tornate alla mente queste righe di Giovanni Papini, al termine di una lettura – non mesta, non vittimistica, nutrita, al fondo, da un’ironia travagliata – ma dolente, sì, ed umanissima: Faccia un bel respiro, di Laura Grimaldi; pagine 112. Mondadori, Milano 2012; euro 10,00; ISBN 978-88-04-62041-7.
A cominciare dal titolo. «Incurante del fatto che tirate appena il fiato, il medico vi dice: “Su, faccia un bel respiro”. Chi, io? Ma questo è pazzo?».

Per quanto spossata dall’enfisema, l’Autrice – una paziente molto speciale – vede lucidamente il reparto ospedaliero come un palcoscenico su cui medici e malati, infermieri e visitatori interpretano, attori inconsapevoli, la commedia della vita. Machu Pichu, lo Sciamano, Martello Pneumatico, Miss Ceacescu, Nosferatu. Così vengono identificati alcuni dei personaggi che si muovono in queste pagine, tessendo una appassionante trama narrativa. Il racconto è un inanellarsi di piccole storie all’interno della storia più grande dei numerosi ricoveri della Grimaldi, racconto che, in virtù di un ritmo sempre sostenuto, riesce a liberare energie nuove in un ambiente che per sofferenze, abitudini, assenza di stimoli, tenderebbe a restare cristallizzato. E malgrado il dolore, lo scoramento, il senso di lutto, Laura parla di letteratura con un infermiere peruviano, scambia confidenze con gli altri degenti, fa entrare di nascosto la sua parrucchiera. E intanto osserva con sguardo penetrante tutto ciò che accade in quell’universo popolato di attesa e rassegnazione, in cui medici, infermieri e malati appaiono, di volta in volta, sodali o antagonisti, samaritani o alieni.



La Grimaldi ci fa sentire la solitudine rituale di una corsia d’ospedale: malinconia di sere deserte, ritrosia di fievoli luci, echi di voci affrancate e, costante ed ovunque, l’ansia di un conforto e d’una speranza. In virtù di una sensibilità cimentata e sodale e di una magistrale padronanza di linguaggio e scrittura, ci offre una testimonianza di vulnerabilità e di patriziato etico che è, insieme, monito e auspicio per una medicina meno lontana dalla persona.
A ben vedere, c’è in questo libro – così apparentemente diverso dalla precedente produzione – il nucleo fondante di una fervidissima scrittrice: il rapporto paradossale e tuttavia ineludibile tra la nostalgia di ordine e di assoluto (dei tanti suoi polizieschi) e la palpitante ingovernabilità dell’organismo umano, il disincanto della nostra impotenza. Il risultato è una sorta di piccolo manuale di sopravvivenza ospedaliera e insieme un dissacrante viaggio in quell’altrove in cui si sperimenta la contiguità con la morte.
«… Sdraiata sul mio letto scomodo, mi perdo nell’atmosfera che annulla lo stanzone… È come se la morte si elevasse di fronte a me e riempisse l’intero spazio che si è formato… Mi sento schiacciata, e allo stesso tempo attratta, dalla sua maestosità, dalla sua solennità quasi ecclesiale. Sento anche che non mi è nemica. È come se la perdita di peso del mio corpo mi spingesse ad accoglierla, ad andarle incontro».
Nelle ultime righe del libro, l’Autrice ci accomuna nell’attesa della “grande solennità notturna papiniana”.
«Il mio lungo, solitario viaggio verso la notte volge al termine. Me lo dice la scienza, a chiare lettere. A lettere meno chiare lo dicono anche i medici. Malgrado questo, torno di nuovo a casa. Per quante volte ancora?».

Non ci sono state altre volte. Laura Grimaldi è morta nei primi giorni della scorso luglio.

Gaia de Bouvigny