Dalla letteratura
In collaborazione con l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane
www.associali.it

Prima l’uovo o la gallina?
«Sostenute da sollecitazioni economiche e da conflitti di interesse, l’overdiagnosis e l’overtreatment sono ormai onnipresenti all’interno dell’assistenza sanitaria e radicate nei servizi sanitari di tutti i paesi del mondo. Hanno permeato e inquinato sia le strategie delle industrie, sia l’attività delle agenzie regolatorie, condizionando la ricerca clinica, i sistemi di rimborso delle prestazioni sanitarie e la produzione di linee-guida». L’accusa di Iona Heath, in un articolo uscito sul BMJ, è radicale ma molto ben argomentata ( Heath I. Overdiagnosis: when good intentions meet vested interests: an essay by Iona Heath. BMJ 2013; 347: f6361). La questione – solo apparentemente banale – è nella dialettica tra la pressione industriale e l’aspirazione della gente a salute e benessere senza limiti.
La spinta dell’industria – sostiene il presidente del Royal College of General Practitioners – consente al medico di indagare sempre più minuziosamente la salute delle persone, dando importanza clinica a un numero sempre maggiore di parametri biometrici. «Questi numeri sono quasi sempre normalmente distribuiti lungo un continuum, con un estremo che rappresenta un livello di anormalità che inizia a correlarsi con sintomatologia e sofferenza potenzialmente alleviati o guariti dalla terapia medica. Fin qui, tutto bene. Il problema – prosegue – è che una combinazione tossica di interessi e di buone intenzioni produce una costante pressione a che il concetto di anormalità sia progressivamente esteso, spostando la soglia nello spazio precedentemente considerato normale».
Dobbiamo rivedere la convinzione radicata in vecchi adagi come “prevenire è meglio che curare”, chiede l’autrice? La risposta è, quantomeno, nel dubbio: non si può non interrogarsi sulla deriva verso la quale si sta muovendo la medicina postmoderna…
PubMed: concorrenza sleale?
La National Library of Medicine (NLM) preannuncia un nuovo servizio: PubMed Commons. Uno spazio di commenti alla letteratura internazionale. «We hope that PubMed Commons will leverage the social power of the internet to encourage constructive criticism and high quality discussions of scientific issues that will both enhance understanding and provide new avenues of collaboration within the community».
Ottima idea? Alcuni sono entusiasti, come per esempio Victor Montori o Mona Nasser che hanno affidato a Twitter le proprie grida di compiacimento.



O come Martin Fenner, che sul blog Gobbledygook sostiene che l’attività di commento sia più opportuno si svolga su un sito istituzionale che su quello di una casa editrice. Altra voce del tutto a favore è Rob “Lasso” Tibshirani che, sul blog Statistical modeling, casual inference, and social science, scrive: «We all read a lot of papers and often have useful things to say about them, but there is no systematic way to do this. Lots of journals have commenting systems, but they’re clunky, and, most importantly, they’re scattered across thousands of sites. Journals don’t encourage critical comments from readers, and letters to the editor are difficult to publish and given too little space. If we’re ever going to develop a culture of commenting on the literature, we need to have a simple and centralized way of doing it». Voce a favore ma di parte, quella di Tibshirani, essendo tra chi ha concepito e realizzato la nuova funzionalità di PubMed. Come del resto anche Hilda Bastian, che sul blog di Scientific American ha svelato parte del percorso che ha preceduto l’avvio di questa novità.

Non mancano, però, i potenziali effetti indesiderati. Per esempio quelli che sottolinea Trisha Groves in un post sul blog del BMJ: per lei, PubMed fa male a se stessa danneggiando le riviste scientifiche.
Ecco i punti deboli del progetto:
1. taking a ton of web traffic away from journals – this threatens journals’ viability. Libraries and advertisers rely heavily on journal usage data to make decisions about where to spend their money, and increasingly authors will use almetrics to decide where to submit their work;
2. launching PubMed Reader, which makes it really hard for readers to link to the original journal article – the link is deeply buried and very hard to find;
3. competing head on with open access journals and journals that send paywalled content direct to PubMed on publication without delay – why would anyone bother to go to the journal if they can get the articles immediately from PubMed?
4. providing journal-type services such as postpublication commenting, depleting journals’ ability to foster debate and engage their community. Of course, lots of debate already happens elsewhere, via blogs and social media, and that’s great. But journal postpublication debate and review can work really well, as we’ve shown at the BMJ with the 92,500 Rapid Responses we’ve posted since 1998.
Da quando Al Gore volle che il patrimonio della NLM diventasse un servizio aperto ai clinici e ai ricercatori di tutto il mondo, MedLine/PubMed è un alleato prezioso della sanità internazionale. Ma è anche partner degli editori scientifici che nutrono la banca dati con il loro lavoro. L’iniziativa è ancora ad accesso ristretto: possono commentare solo gli autori di articoli già indicizzati in MedLine.



Dichiarazione di Helsinki: l’aggiornamento è un’occasione sprecata
L’Associazione Medica Mondiale, l’ente che si occupa di sviluppare e aggiornare i principi etici che permeano e guidano la sperimentazione umana, ha recentemente rilasciato un aggiornamento della “Dichiarazione di Helsinki”. Due paragrafi sulla Registrazione e pubblicazione e diffusione dei risultati della ricerca – sottolinea Lorenzo Moja – ora includono concetti per i quali l’Associazione Alessandro Liberati ha sempre avuto attenzione.

35. Ogni studio che coinvolge soggetti umani deve essere registrato in una banca dati accessibile al pubblico prima del reclutamento del primo soggetto.

36. I ricercatori, gli autori, gli sponsor, i redattori e gli editori condividono tutti gli obblighi etici per quanto riguarda la pubblicazione e la divulgazione dei risultati della ricerca. I ricercatori hanno il dovere di rendere accessibili al pubblico i risultati della loro ricerca su soggetti umani e sono responsabili della completezza e dell’accuratezza dei loro report. Devono essere pubblicati o resi disponibili al pubblico tanto i risultati negativi e inconcludenti quanto i risultati positivi. Le fonti di finanziamento, l’appartenenza istituzionale e i conflitti di interesse devono essere dichiarati nella pubblicazione. I rapporti di ricerca non in conformità con i principi di questa dichiarazione non devono essere accettati per la pubblicazione.
Sul JAMA, in un articolo che commenta la dichiarazione – puntualizza Arabella Festa sulla Biblioteca Medica Virtuale (www.bmv.bz.it) –, si riconoscono i progressi rispetto alle versioni precedenti, ma si evidenziano anche alcuni punti deboli. Il principale è che la dichiarazione dice di rivolgersi ai medici, quando invece vi sono raccomandazioni indirizzate a operatori sanitari, comitati etici, sponsor e istituzioni governative e case editrici: «Sarebbe ora – si legge sul JAMA – che la World Medical Association si rivolgesse alla comunità medica e anche agli altri professionisti coinvolti nella ricerca».
Rincara la dose Silvio Garattini sul sito www.partecipasalute.it/ «Ci si aspettava  una modifica che potesse evitare molti abusi (sul placebo) – spiega – e manca anche qualsiasi accenno alla codanna di alcune storture degli studi clinici controllati come ad esempio il disegno di non-inferiorità anziché quello di superiorità e l’utilizzo di parametri surrogati invece di quelli terapeutici».
Trial non registrati: li pubblico lo stesso
La storia non è nuova: la base delle prove può essere condizionata in molti modi: con la pubblicazione duplicata, con la mancata pubblicazione degli studi o con una pubblicazione parziale dei risultati. Il publication bias non è un problema di oggi ma la gravità dei suoi effetti sta probabilmente aumentando. Per ridurre l’entità del problema, si raccomanda la registrazione degli studi in database aperti alla consultazione del pubblico. Se ne parla dal 1986 ma fino al 2005 la raccomandazione è stata praticamente ignorata. È di allora infatti il pronunciamento dell’International Committee of Medical Journals Editors che inserì la registrazione dei trial tra i requisiti per la pubblicazione nelle riviste associate al comitato. Qualche progresso è stato fatto ma siamo ancora lontani da risultati soddisfacenti: una ricerca del 2010 ha verificato che solo il 61% dei trial è effettivamente censito e, per di più, solo il 55% degli studi riporta correttamente il numero di registrazione. Perché le riviste sono così poco attente a questo problema?
Se lo sono chiesti Elizabeth Wager e Peter Williams che, a nome del gruppo OPEN (Overcome failure to Publish nEgative fiNdings) hanno curato un’indagine pubblicata da poco sul BMJ (Wager E ,Williams P. “Hardly worth the effort”? Medical journals’ policies and their editors’ and publishers’ views on trial registration and publication bias: quantitative and qualitative study. BMJ 2013; 347: f5248). La parte quantitativa è stata eseguita attraverso la ricerca in database bibliografici, mentre quella qualitativa dello studio prevedeva l’ascolto diretto di direttori di riviste e di editori scientifici per capire le ragioni di una politica editoriale poco attenta al problema della registrazione degli studi.
Perché pubblico tutto? Ecco i motivi principali:
– non voglio dare un vantaggio competitivo ai concorrenti;
– ricevo pochi studi primari e non voglio precludermi la possibilità di pubblicarli;
– la mia rivista non pubblica resoconti di trial clinici;
– non voglio scoraggiare contributi provenienti da Paesi in via di sviluppo;
– la registrazioni non è essenziale per ogni tipo di studio, di certo non per quelli di ridotte dimensioni;
– non vedo perché la registrazione renderebbe più probabile la pubblicazione di studi negativi.




È una ricerca che documenta uno scandalo epocale, ha commentato su Twitter Alan Cassels. Probabilmente ha ragione.
Le revisioni qualitative, una nuova pietra miliare per la Cochrane Collaboration
Sul sito della Cochrane Collaboration internazionale è stata di recente riaffermata l’importanza degli studi qualitativi, per molto tempo considerati la Cenerentola della ricerca1. Revisioni sistematiche che affrontano un ampio spettro di tematiche sulla salute sono sempre più disponibili in letteratura. Il database più fornito, quello appartenente alla Cochrane Collaboration, contiene prevalentemente revisioni sistematiche sulla valutazione di efficacia di interventi sanitari, nonché sull’accuratezza degli screening e dei test diagnostici.
La recente pubblicazione di una revisione di studi qualitativi ha segnato una tappa importante per la Collaboration2. Questa revisione valutava i fattori che influenzano l’implementazione di interventi sanitari gestiti dai lay health workers (LHWs), ovvero gli operatori sanitari cosiddetti “laici”. L’uso dei LHWs per promuovere interventi di sanità pubblica efficaci rappresenta attualmente una tematica che sta catturando l’interesse a livello internazionale. Molti Paesi a basso, medio e alto reddito hanno infatti introdotto o stanno valutando l’introduzione di tali programmi per aumentare l’accesso a importanti interventi sanitari, anche in virtù del loro basso costo, rispetto ai programmi tradizionali.
I dati provenienti dalla revisione qualitativa sono stati integrati con quelli di una revisione Cochrane sull’efficacia dei LHWs nel promuovere l’assistenza sanitaria materno-infantile3, permettendo una valutazione globale di questa strategia. Entrambe le revisioni sono state condotte dal gruppo Effective Practice and Organisation of Care della Cochrane (EPOC - epoc.cochrane.org).
La spinta alla produzione di una sintesi di evidenze qualitative sul coinvolgimento dei LHWs in sanità pubblica è partita dalla pubblicazione delle Optimizing health worker roles for maternal and newborn health (OptimizeMNH), raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) su come ottimizzare l’erogazione di interventi chiave per migliorare la salute materno-infantile attraverso un vero e proprio “passaggio di consegne” nei paesi a basso e medio reddito4. Il trasferimento delle funzioni ai LHWs rappresenta un aspetto fondamentale di queste raccomandazioni, e molti paesi stanno seriamente valutando l’introduzione dei LHWs per fornire una serie di interventi sanitari strategici a livello comunitario.
La possibilità di accedere a sintesi di studi qualitativi si è rivelata fondamentale per la formulazione delle raccomandazioni OptimizeMNH, consentendo di far luce sugli aspetti favorenti e ostacolanti la realizzazione dei programmi con i LHWs in contesti diversi e per varie tipologie di interventi e promuovendone la realizzazione solo in quei contesti in cui vi è una comprovata evidenza di efficacia associata a una buona fattibilità e accettabilità da parte della comunità.
Le OptimizeMNH hanno inoltre utilizzato uno strumento di recente sviluppo, il DECIDE (www.decide - collaboration.eu), per il loro processo decisionale. DECIDE rappresenta un’estensione del sistema GRADE, richiesto dall’OMS nel processo di sviluppo delle linee-guida, e fornisce una valutazione più strutturata di tematiche come accettabilità, fattibilità, uso di risorse e di altre variabili connesse all’implementazione di qualunque intervento sanitario.
La sintesi dell’evidenza qualitativa può, dunque, offrire un importante contributo alla conoscenza, utile in particolar modo nel processo di sviluppo di raccomandazioni internazionali su tematiche di sanità pubblica. Rappresenta, quindi, uno strumento prezioso per organizzazioni come l’OMS, che nel redigere raccomandazioni devono necessariamente tener conto degli aspetti di fattibilità e accettabilità degli interventi sanitari da parte della comunità, variabili di difficile misurazione con analisi di tipo strettamente quantitativo.
Bibliografia
1. Gülmezoglu AM, Chandler J, Shepperd S, Pantoja T. Reviews of qualitative evidence: a new milestone for Cochrane [editorial]. Cochrane Database of Systematic Reviews 2013; 11: ED000073.dx.doi.org/10.1002/ 14651858. ED000073
2. Glenton C, Colvin CJ, Carlsen B, et al. Barriers and facilitators to the implementation of lay health worker programmes to improve access to maternal and child health: qualitative evidence synthesis. Cochrane Database of Systematic Reviews 2013; 10: CD010414. dx.doi.org/10.1002/14651858. CD010414.pub2
3. Lewin S, Munabi-Babigumira S, Glenton C, et al. Lay health workers in primary and community health care for maternal and child health and the management of infectious diseases. Cochrane Database of Systematic Reviews 2010;3:CD004015. dx.doi. org/ 10.1002/14651858.CD004015.pub3
4. World Health Organization. Optimizing health worker roles to improve access to key maternal and newborn health interventions through task shifting (OPTIMIZEMNH). Geneva, Switzerland: WHO; 2012. Available at www.optimizemnh.org (accessed on 5 November 2013).
Approvazione degli psicofarmaci: è ora di cambiare
Nei Paesi dell’Unione Europea l’agenzia regolatoria responsabile della valutazione e approvazione dei farmaci è la European Medicine Agency (EMA). In un recente lavoro pubblicato su PLoS Medicine (Barbui C, Bighelli I. A new approach to psychiatric drug approval in Europe. PLoS Med 2013; 10: e1001530.), Corrado Barbui e Irene Bighelli hanno analizzato in modo sistematico le raccomandazioni dell’EMA sul disegno di studio che le sperimentazioni devono adottare per ottenere l’immissione in commercio di farmaci con indicazioni psichiatriche. Sono state analizzate le raccomandazioni che riguardano nove disturbi psichiatrici, inclusa la schizofrenia, la depressione maggiore, il disturbo bipolare e i disturbi dello spettro ansioso.
Ciò che emerge con chiarezza da tale analisi è che tutte le raccomandazioni dell’EMA sono basate sul concetto di efficacia in termini assoluti: per l’immissione in commercio di un nuovo farmaco con indicazione psichiatrica l’EMA richiede una dimostrazione di maggiore efficacia rispetto al placebo ma non rispetto a un farmaco attivo. Mentre questo approccio può essere considerato ragionevole laddove non vi siano trattamenti attivi a disposizione, in un ambito come quello delle malattie psichiatriche, caratterizzato dalla presenza di numerosi farmaci, questo sistema porta alla registrazione di ulteriori farmaci senza che sia noto se siano di efficacia maggiore, simile o inferiore rispetto ad altri in commercio. Analogamente, in termini di tollerabilità, si registrano nuovi farmaci senza che sia noto se abbiano meno effetti collaterali dei farmaci già in uso. Il rischio è di approvare farmaci con un profilo di efficacia e tollerabilità meno favorevole rispetto a quelli già presenti sul mercato.
Come far fronte a questo grande limite delle regole dell’EMA per l’approvazione dei farmaci in ambito psichiatrico?
La proposta è di cambiare le regole. Al concetto di efficacia in termini assoluti andrebbe sostituito quello di valore aggiunto, ponendo in primo piano nel processo regolatorio gli studi in cui il nuovo farmaco viene comparato con un confronto attivo. In particolare, gli autori propongono i seguenti cambiamenti regolatori:
• l’EMA potrebbe richiedere studi a tre rami, allo scopo di dimostrare la superiorità del nuovo prodotto rispetto al placebo (in modo da essere inequivocabilmente sicuri della attività del nuovo farmaco, elemento non scontato in ambito psichiatrico) e la non-inferiorità nei confronti di un farmaco attivo; così facendo si eviterebbe il rischio di autorizzare nuovi farmaci meno efficaci di quelli già disponibili;
in aggiunta, potrebbe essere richiesta almeno una sperimentazione che dimostri la superiorità del nuovo farmaco, rispetto a un confronto attivo, in termini di esiti clinicamente rilevanti: non il punteggio a una scala di misurazione sintomatologica, la cui rilevanza pratica continua a essere oggetto di discussioni, ma per esempio l’accettabilità del trattamento (misurata in termini di drop-out) oppure un indicatore pragmatico di efficacia (ospedalizzazioni, utilizzo di altri farmaci o altri ancora). Questo disegno di studio, pragmatico e senza placebo, consentirebbe di includere pazienti gravi da un punto di vista sintomatologico, aumentando così la validità esterna e la generalizzabilità dei risultati, e permetterebbe soprattutto di introdurre in commercio solo i farmaci che rappresentino una reale innovazione rispetto ad altri già presenti sul mercato, migliorando così le opzioni terapeutiche per le malattie psichiatriche.