Cinema e medicina

a cura di Luciano De Fiore

Due giorni e una notte

Cos’è a fuoco, nell’ultimo film dei fratelli belgi Luc e Jean-Pierre Dardenne? Il problema del lavoro che come una morsa attanaglia l’Europa dalle coste portoghesi alle isole greche, non risparmiando neppure il destino di una giovane coppia? Oppure la crisi dei rapporti umani, e la solitudine accresciuta alla quale sembra consegnarci il terzo millennio? Oppure ancora è la depressione, la malattia subdola e stigmatizzante come poche altre, sofferta dalla protagonista, Sandra, l’intensa Marion Cotillard? Un altro grande belga, Jacques Brel, aveva scritto in una sua famosa canzone: «Siamo un milione a ridere, del milione di fronte, ma due milioni di risa non impediscono che allo specchio ci si ritrovi soli».

Tutto e niente, verrebbe da rispondere. Intanto, il lavoro è “il” tema dei Dardenne, fin dall’esordio. Come se l’attività che libera da sé un oggetto, la poiesis aristotelica, fosse davvero l’unica in grado di caratterizzare l’umano. Una prassi lavorativa vecchio stampo, da classe operaia, quella che per quanto rilevante – almeno nella realtà del mondo occidentale – è ormai relegata ad alcuni distretti industriali. Anche in questo film, invece, tutta la dignità di Sandra e il suo destino sembrano dipendere dalla conservazione di quel posto di lavoro. Ma, a veder bene, anche nel film, non è così. Prima, però, la trama.

Sandra è sposata con Manu (Fabrizio Rongione) ed ha due bambini. Lavora in una piccola fabbrica di pannelli solari. Soffre però di depressione e per due mesi è stata in malattia. Al rientro, viene a sapere di essere stata licenziata. I suoi sedici colleghi sono stati costretti a scegliere: se avessero votato per il suo licenziamento (proprio perché viene considerata dalla proprietà l’anello debole della catena produttiva) avrebbero ricevuto un bonus di mille euro pro-capite. Altrimenti, Sandra avrebbe potuto riprendere il suo posto. Ed hanno scelto per i mille euro.

Manu la convince però a difendersi, prima chiedendo la ripetizione della votazione, stavolta a scrutinio segreto; poi, ad un porta-a-porta presso tutti i colleghi, per convincerli ad accettarla in fabbrica, rinunciando ai mille euro. Sandra ha i due giorni e una notte del fine settimana, e del titolo del film, per convincere chi le ha votato contro a cambiare parere, supportata dal marito e dai suoi due bambini.

Ed è su questa china aspra che il film prende quota, seguendo la protagonista nel suo peregrinare da una casa a un’altra di un angolo qualsiasi di quella “città infinita” in cui il disagio si alimenta, incontrando sensibilità diversissime, culture distanti, per quanto spazialmente contigue. Sandra non ha nulla da offrire ai suoi amici e vicini di casa, se non la sua dignità e la sua disperazione. L’ansia monta, e si accentuano i sintomi: iperventilazione, spasmi alla gola, una dipendenza preoccupante dallo Xanax (fino al tentativo di suicidio) e quei suoi abiti trasandati, il letto lasciato sfatto, segnali di una difficoltà ormai ai limiti dell’autolesionismo. È chiaramente in gioco più che il suo lavoro.




Il sentimento che accumuna tutti, Sandra e i colleghi, è lo spaesamento. Una solitudine che è già post-tutto: post-industriale, post-sindacale, post-religiosa, post-solidaristica. Ognuno di questi aspetti, però, cova come una brace sotto le ceneri dell’indifferenza. E allora, incontro dopo incontro, c’è chi rammenta un gesto, chi fa rivivere un valore, chi dà spazio all’ambiguità e chi alla compassione, chi s’irrigidisce nel rifiuto egoistico.

«Io non sono niente»: Sandra lo confessa in una scena drammatica. Cosa parla in lei, la depressione o lo sconforto? Probabilmente entrambi. Fattori che si rafforzano e contribuiscono al male di vivere.

Però, Sandra stava male anche quando lavorava, anzi, aveva dovuto lasciare quel lavoro. Quindi, quel lavoro non è detto sia la panacea. Il vecchio Marx ci ha insegnato che il fattore più importante dell’industrializzazione è il condividere l’esperienza lavorativa. E il film dei Dardenne riesce a dar conto di quanta importanza assuma proprio il carattere sociale dell’esperienza umana. Di qualsiasi esperienza, non solo di quella lavorativa. A volte, addirittura, nonostante il lavoro, magari ripetitivo, alienante, malsano, stancante. La vera guarigione della protagonista non avviene quindi tanto per aver affermato il proprio diritto, anche se senza successo, ma per una riattivata socialità, per una rinnovata capacità di confrontarsi con gli altri, di mettersi nei loro panni, di capire le ragioni di tutti così da poter esser fedele al proprio desiderio.