Per un’etica dell’integrità in un’azienda

Luciano Manicardi1

Pursuing the ethics of integrity in a business context.

Summary. Having placed the phenomenon of corruption in the wider context of the current cultural and anthropological crisis and after recalling the ancient roots of the phenomenon, the author proposes an itinerary in six stages that is a sort of a minimal ethics in view of affirming and rooting ethical behaviors and prevent corruption in a business context. The six stages are: professionalism, respect, loyalty, honesty, responsibility, integrity. If corruption is a phenomenon of personal (cor-ruptum) and collective (cum-rumpere) breaking and disruption, which gives birth to duplicity, hidden and not transparent behaviors, integrity, on the contrary, is the attitude of fullness and consistency that manifests and produces the healthy character of the individual and the group. The author discerns in the corruption of the word a basic destructuring element of relational networks and also of relations internal to a business organization. He emphasizes the urgency of the recovery of an ethics of the word that alone enables the creation or reconstitution of trust, which is the necessary foundation for the good performance and livability of interpersonal, social, and corporate relations.

Etica e mondo dell’organizzazione. Una premessa

«Da molti anni sopportiamo in silenzio di vedere tutte le ricchezze di tutte le genti concentrate nelle mani di pochi uomini»1; «Con l’attuale amministrazione della giustizia un uomo ricco, colpevole quanto si voglia, non può in nessun caso essere condannato»2; «Negli abusi sfrenati di uomini scellerati, nella lamentela quotidiana della gente, nell’ignominia del sistema giudiziario, nel discredito dell’intera classe politica, ritengo che questo sia l’unico rimedio a così tanti mali: che uomini capaci e onesti abbraccino la causa dello Stato e delle leggi»3. Stiamo ascoltando stralci di un discorso dei giorni nostri? Potremmo benissimo pensarlo se guardiamo a quello che il presidente del Senato Pietro Grasso (che prima è stato procuratore nazionale della Commissione Antimafia) definisce «il degrado morale che divora ormai le nostre istituzioni»4. Invece si tratta di brani delle orazioni di Cicerone contro Verre, che fu propretore della provincia di Sicilia dal 73 al 71 a.C. e che Cicerone redasse nel 70 a.C. Verre fu un esempio di corruzione, di corrotto e corruttore, che si macchiò di reati di abuso di potere, ruberie, vessazioni di ogni tipo, crimini contro le persone, arricchendo in modo disonesto e spropositato, nella convinzione che il denaro potesse comprare e aggiustare tutto e tutti. Anche i processi, come tentò di fare, invano, in quello che vide Cicerone in veste di suo accusatore. La sensazione di “imbarazzante attualità” che si ha nel leggere le Verrine è impressionante: l’oggi si distingue solo, forse, per l’uso entrato nel corredo linguistico quotidiano del termine, sottratto alla dignità della geometria, del vocabolo “tangente”.

Le parole di Cicerone ci ricordano le radici antiche del problema della corruzione, vizio difficilmente estirpabile, e ci dicono anche il rischio che il nostro parlare di etica incontri la reazione segnalata in un bel libro sul tema della corruzione: «L’etica è bella, ma gli affari sono affari»5. Inoltre ci dobbiamo domandare: perché parliamo di etica in riferimento a contesti organizzativi? Spesso, infatti, ciò di cui si parla è anche ciò di cui si manca. Se parliamo di etica in questo contesto aziendale è perché riscontriamo un grande vuoto etico. Che non sarà colmato dal parlarne. Anzi, il parlarne potrebbe portare a ritenersi soddisfatti di questo, e dunque assolti. Ma non basta ascoltare o dire una buona parola circa l’etica, bensì occorre un lavoro trasformativo che solo la fatica e l’investimento nella formazione possono dare.

Inoltre, il vuoto etico non riguarda solo il mondo delle organizzazioni, ma è diffuso. È elemento costitutivo della più ampia crisi che viviamo. Crisi culturale che riguarda le relazioni, il management, la dimensione organizzativa, il senso della persona, anche il senso del Sé. Uno degli elementi dell’attuale crisi culturale non consiste tanto nell’individualismo diffuso o nell’idea che il bene morale coincida con il perseguire il proprio interesse, ma, molto più radicalmente, nel fatto che oggi la gente non conosce quale sia il vero interesse. Il problema non è che la gente sia troppo egoista, ma che non è capace di amare se stessa; non è che si occupi del proprio interesse, ma che non si occupa abbastanza dell’interesse del suo vero Io. Conosciamo il vero interesse della nostra persona? In che consiste? E abbiamo il senso dell’altro? E il senso del vivere in relazione fino a prenderci cura dell’altro?

Della crisi in cui siamo immersi, un elemento a mio parere gravissimo e che occorre riconoscere e focalizzare con urgenza è quello che riguarda la parola. La costruzione di un’etica passa attraverso il recupero del senso della parola, il possedere il significato delle parole, il mettere ordine nelle parole, perché ogni parola è in realtà un gesto, un atto con valenza etica: nei confronti di colui a cui parlo, nei miei confronti perché la parola mi esprime, nei confronti della parola stessa che non sopporta violazioni, manipolazioni, traviamenti. Del resto, con la falsificazione della parola ogni altra cosa viene tradita e, soprattutto, con la manipolazione, con la manomissione della parola viene minata in radice la fiducia6,7. «Quando la lingua si corrompe, la gente perde fiducia in quello che sente, e questo genera violenza», ha scritto il poeta Wystan Hugh Auden8. Alla radice della corruzione c’è la corruzione della parola. La fiducia è legata all’uso della parola: se la parola mente e manipola, o è reticente e parziale, nascono confusione, smarrimento, sfiducia. Si rischia di scoraggiarsi, di dire “non ne vale la pena”, “non c’è niente da fare”. L’esito, a livello psicologico e sociale, è il senso di impotenza, la demotivazione e, a livello politico, l’affidarsi all’“uomo forte”, il passaggio dal potere della parola alla parola del potere, l’affidarsi alla parola del capo, qualunque cosa dica9. Scrive Montaigne: «Noi siamo uomini e legati gli uni agli altri solo per mezzo della parola»10. E ancora: «Poiché i nostri rapporti si regolano per la sola via della parola, colui che la falsa tradisce la pubblica società. È il solo strumento per mezzo del quale si comunicano le nostre volontà e i nostri pensieri; è l’interprete della nostra anima: se ci viene a mancare, non abbiamo più nessun legame, non ci conosciamo più tra noi. Se ci inganna, distrugge ogni nostro scambio e dissolve tutti i vincoli del nostro ordinamento»10. Solo un uso appropriato ed etico della parola rende intelligibile il mondo e vivibili le relazioni umane, interpersonali, sociali e politiche. La lotta alla corruzione deve iniziare dalla lotta contro la corruzione della parola.




Anche per questo ho strutturato il mio percorso su alcune parole che abbozzano un percorso etico, un cammino che va dalla serietà all’integrità, e che certamente, con espressione solenne, potremmo chiamare “etica della responsabilità”. Ma preferisco rifuggire dai grossi principi, e rifarmi alla costruzione quotidiana di un cammino etico riscoprendo il valore e il senso di alcune parole che possono, ovviamente non semplicemente se ascoltate, ma se pensate, interiorizzate e messe in pratica, trasformare una persona e condurla verso l’integrità. Il percorso che tende all’integrità, cioè all’interezza personale, vuole porsi come possibile antitesi e antidoto della corruzione, che anche etimologicamente evoca una rottura, uno spezzamento della persona, una sua riduzione, un suo diminuire la propria dimensione umana e personale (rompere l’integrità del cor, del “sé”, della persona), ma indica anche il pervertimento della relazione, il coinvolgimento di altri in tale operazione di rottura (cum-rumpere), designa un processo di trasmissione di marciume, di contagio, di degradazione. Perseguendo un interesse personale antropologicamente mal posto, si ottiene un pervertimento, una corruzione, sia sul piano personale che sul piano sociale e politico.

Cerco dunque di disegnare un percorso che aiuti il formarsi di relazioni etiche all’interno dell’organizzazione e dunque divenga anche comportamento etico con i clienti, con i fruitori dei servizi. Mi limito a un’etica dei comportamenti, nella convinzione che l’etica nasca dalle scelte quotidiane, dalla vita ordinaria delle persone e dalle relazioni con i colleghi del proprio gruppo di lavoro, con i capi, ecc. Questo percorso è composto da sei parole chiave che sono altrettanti comportamenti che pongo in scala:

• serietà;

• rispetto;

• lealtà;

• sincerità;

• responsabilità;

• integrità.

Con due precisazioni preliminari. Il comportamento etico, ovvero che non solo è rispettoso del giusto, ma anche del bene, esige coraggio. Virtù del cuore, il coraggio dice che un comportamento etico può ispirare un’etica non solo dell’obbedienza, ma anche della disobbedienza. C’è un etica del “sì”, ma c’è anche un’etica che implica la capacità di dire di no, del non conformismo, del cantare fuori dal coro, del resistere al potere dell’omologazione, alla facilità autogiustificatoria del “così fan tutti”. Il risultato, sul piano della stima di sé, è un senso di grande integrità, interezza, al di là delle eventuali ripercussioni di isolamento, emarginazione e anche espulsione che si possono creare sul piano sociale o sul piano della vita interna di un’organizzazione.

L’etica indica un comportamento della persona verso gli altri, ma in verità essa ha una dimensione riflessiva, che si riflette nei confronti della persona stessa che agisce eticamente. Un comportamento eticamente corretto onora la dignità della persona. Se l’esperienza ci dice che fare il male è anche, in verità, farsi del male, analogamente, fare il bene, è anche farsi del bene. Possiamo ricordare le dure espressioni di Kant sul mentitore: «La comunicazione dei propri pensieri a un altro con parole che indicano (intenzionalmente) il contrario di ciò che pensa chi sta parlando, rappresenta uno scopo esattamente opposto alla finalità naturale della sua facoltà di comunicare i propri pensieri e, perciò, una rinunzia alla propria personalità, così che il mentitore risulta essere solo un’apparenza d’uomo, non un vero uomo»11. Il mentitore non ha un comportamento etico nemmeno verso se stesso. Tradisce se stesso, il suo vero io, la sua umanità.

Ma veniamo alle sei dimensioni che rappresentano gli ingredienti che dovrebbero creare i presupposti per comportamenti etici all’interno di un’organizzazione e, più che mai, un’organizzazione che opera nel così delicato campo della salute. Con un po’ di approssimazione si può dire che la dimensione di partenza, la serietà, e quella di arrivo, l’integrità, sono dimensioni eminentemente personali, mentre le altre quattro sono relazionali. Ovvio che questa è una schematizzazione che non rende pienamente giustizia alla realtà, tuttavia essa dice che vi è una dimensione di “responsabilità verso se stesso” di colui che vuole raggiungere una dimensione etica che non è certo minore della “responsabilità verso altri”. Mi pare che questo percorso di etica minima dei comportamenti apra la strada a un’efficace prevenzione dei comportamenti corruttivi proprio creando un clima relazionale sano nell’organizzazione e puntando verso una qualità alta delle persone.

Serietà

La serietà riguarda il come si fanno le cose, il come si lavora. È l’andare a fondo delle questioni, l’evitare la superficialità e il far finta di niente, è il rifiuto di delegare, di scaricare su altri i problemi, di agire per compiacere qualcuno. La serietà è il prerequisito per costruire un comportamento etico. Di essa fanno parte la ponderatezza e la riflessività, la diligenza, il contegno che porta a non reagire di fronte a un problema chiedendosi subito quale possa essere il proprio tornaconto o il danno che ne verrebbe alla propria posizione. La serietà rifiuta di porsi di fronte ai problemi guardandoli dall’ottica esclusiva dell’eventuale vantaggio da trarne. È anche discrezione e riservatezza nei confronti di compiti che altri ci affidano. Scelta individuale, la serietà è poi anche atteggiamento che si diffonde. Inoltre, ci si deve porre la domanda se c’è serietà nell’organizzazione. Non si dimentichi che troppa serietà del singolo, del funzionario, può disturbare, perché per scrupolo, per attenzione, per voler andare a fondo delle cose, si può arrivare a scoprire ciò che si vorrebbe rimanesse celato e non detto, nascosto nell’omertà: cordate, collusioni, cricche, lobby, favoritismi, interessi personali…

Qui va fatta anche un’altra riflessione: se si vuole affrontare e percorrere la strada dell’etica, si deve sapere che questa è costosa, aspra, difficile. Essa esige la disponibilità a mettersi in gioco, in discussione, a cambiare, e svela le ambivalenze, le ambiguità e i conflitti interiori che ci sono in noi. Insomma, l’etica è cosa seria e da prendere sul serio. Serietà è prendere a cuore i problemi, valutare gli effetti che le nostre scelte e le nostre azioni possono avere su altri, ed è anche, secondo l’etimologia, “severità”, non nel senso di punizione, ma di dar peso (pondus) alle cose, ponderatezza. È uscire dal banale. Serietà è condizione di base per avvicinarsi con atteggiamento di riguardo e di attenzione alle cose e alle questioni quale che sia la loro entità, siano cioè esse piccole o grandi. La serietà non si permette di svicolare, di tagliar corto, di rispondere meccanicamente e in modo elusivo. Essa mostra tatto e diventa rispetto.

Rispetto

Il rispetto è l’arte della stima reciproca, è il guardare con attenzione, il guardare indietro (re-spicere), il volgersi per guardare, l’osservare con riguardo. Il rispetto sa valutare anche i limiti e attenersi a essi, non travalica, non pecca di hybris. Conosce i limiti del proprio operare, e in particolare quando si tratta di operatori che hanno a che fare con la salute, con la vita e la morte di pazienti, e sa che solo il limite dà forma e vivibilità all’esistenza. Il rispetto è realistico e chiede, particolarmente a chi lavora nell’ambito medico, di non accodarsi al pensiero dell’amortalità diffuso nella cosiddetta società postmortale12-18, ma prende le misure dell’altro per entrare nell’unico rapporto umanizzante che è il rapporto di cura, in cui la vulnerabilità del paziente riflette e risveglia il senso della propria vulnerabilità. E la vulnerabilità è un indicatore dell’umano.

Ma soprattutto, e solo su questo mi voglio soffermare, il rispetto pone le basi per la creazione della dimensione necessaria per la costruzione di rapporti etici, ovvero la fiducia. La fiducia, che fin dal seno materno è la matrice della vita, è anche la condizione per vivere una vita umanizzata. La creazione di un clima di fiducia è opera di ­leadership essenziale per la vita organizzativa. Se sento fiducia, ho motivazioni, posso affidarmi, mi impegno con entusiasmo, mi sento al sicuro. La fiducia è vicinanza, prossimità, senso di non essere abbandonato. Come si costruisce? In particolare con la comunicazione, con la parola. La parola crea fiducia (di una persona affidabile si dice: “È una persona di parola”), ma anche l’esercizio della leadership può creare fiducia. Parola e potere sono i due elementi che concorrono per costruire fiducia o, al contrario, diffidenza, sospetto, sfiducia e, dunque, malumore e demotivazione. E questo rappresenta un terreno fertile per comportamenti poco corretti eticamente. Non si dimentichi mai che quando si parla, si esercita un potere e che molti atteggiamenti decisamente poco etici sono suscitati da un uso della parola arrogante, scortese, violento, irrispettoso, che presume che l’altro sappia ciò che non può o non è tenuto a sapere. Una buona squadra funziona se c’è anche una buona circolazione delle informazioni, che però a volte, per comportamenti inspiegati, ma che celano dinamiche corruttive, vengono non date, o date tardi o date prima ad alcuni e dopo ad altri, e così si crea la sfiducia e allora la relazione diviene invivibile e i rapporti irrespirabili19,20. Decisivo è il comportamento dei dirigenti, del capo, del leader, nella creazione di fiducia21. La sua attenzione, la sua disponibilità, il suo ascolto, il suo esempio possono ispirare fiducia o toglierla. E se viene meno la fiducia ecco che comportamenti reticenti, ricerca del proprio interesse ed egoismi si fanno strada. Se non regna fiducia regnerà un atteggiamento difensivo in cui il tutti contro tutti diviene la quotidianità e i comportamenti reprensibili nascono più facilmente 22,23.




Lealtà

Sulla fiducia si costruisce la lealtà. Lealtà è legame, alleanza, sintonia, accordo in vista di obiettivi da raggiungere e percorsi da costruire insieme. La lealtà dev’essere coltivata da chi fornisce gli obiettivi dando adeguate e sufficienti spiegazioni e motivazioni. Altrimenti, se anche non avverrà un divorzio dall’azienda, avverrà un divorzio dalla motivazione e un divorzio dal volere. Nella lealtà la volontà si impegna per un fine, un obiettivo. E la volontà è questa facoltà complessa di cui Nietzsche afferma che comporta un “due in uno”. La volontà implica che colui che vuole, obbedisca anche a ciò che vuole. Colui che vuole si determina, ma determinarsi significa dare un comando a se stesso e obbedirsi. Lo stesso soggetto è quello che comanda e obbedisce contemporaneamente. «Un uomo, che vuole – comanda a un qualcosa, in sé, che ubbidisce […]. Quel che v’è di più prodigioso nella volontà – in questa cosa così multiforme per la quale il volgo ha soltanto un’unica parola: […] noi siamo al tempo stesso chi comanda e chi ubbidisce»24. La capacità di volere è importante per l’edificazione di una persona che sappia determinarsi eticamente, a compiere atti etici e virtuosi. Se il legame di lealtà, non di fedeltà cieca, non di adulazione, non di asservimento, ma appunto di lealtà, non viene posto in essere, si aprono gli spazi per atteggiamenti individualisti, di difesa di sé, di arroccamento al proprio posto. L’etimologia di lealtà rinvia anche alla legge e all’elezione, alla scelta: la lealtà è scelta quotidiana. Il leader, chi ha una responsabilità più alta, chi governa e comanda, deve saper farsi scegliere ogni giorno come leader: egli non lo è solo perché questo è il suo ruolo, ma deve saper farsi apprezzare e quotidianamente meritare sul campo la conferma. Se per farsi accettare e ri-scegliere i capi ogni giorno diminuiscono la loro serietà, si fanno meno seri ed esigenti, rischiano di togliere fondamento alla loro stessa autorità. E allora si cade nella collusione, nella mafia. Nella mafia non tanto come grande organizzazione criminale (che pure sappiamo ben presente in diverse grandi imprese), ma come mentalità, come comportamento. C’è un comportamento mafioso che è fatto da lobby, cricche, cordate, complicità di alcuni, copertura reciproca, scambi di favori, creazione di amici-alleati e di relativi nemici. Concorsi truccati, schede di valutazione dei collaboratori fatte su criteri di premio per gli amici e di punizione dei nemici sono comportamenti mafiosi. Il personale tecnico-amministrativo di una ASL può vedere combattere e competere ferocemente gli specialisti della medicina per imporre personale loro, per piazzare i propri candidati.

La lealtà poi, si accompagna alla sincerità.

Sincerità

Parlo di sincerità, termine che mi pare dia un contenuto più preciso a un vocabolo come “trasparenza” e perciò lo preferisco. Del resto, anche la glasnost (normalmente tradotta con “trasparenza”) di Gorbacˇëv era il far divenire di dominio pubblico notizie che nell’era sovietica erano taciute. Dunque si avvicina maggiormente al “dire la verità”. Si pensi al disastro nucleare di Cˇernobyl’ del 1986 e alla politica di glasnost attuata da Gorbacˇëv, cioè di rendere pubblica la notizia e anche le responsabilità. I comportamenti etici abbisognano della chiarezza della sincerità, del dire male del male, del dire che c’è del torbido e nominarlo e che c’è del pulito e riconoscerlo. Sincerità è franchezza e schiettezza, arte del parlare libero. Si avvicina alla virtù della parresía, la franchezza, la libertà di parola, centrale nell’antica democrazia ateniese. E ci rinvia di nuovo a quell’etica della parola che è così decisiva per un comportamento non contaminato e non corrotto.

Scrive Foucault: «La parresía è una specie di attività verbale in cui il parlante ha uno specifico rapporto con la verità attraverso la franchezza, una certa relazione con la propria vita attraverso il pericolo, un certo tipo di relazione con se stesso e con gli altri attraverso la critica (autocritica o critica di altre persone), e uno specifico rapporto con la legge morale attraverso la libertà e il dovere. Più precisamente, la parresía è un’attività verbale in cui un parlante esprime la propria relazione personale con la verità, e rischia la propria vita perché riconosce che dire la verità è un dovere per aiutare altre persone (o se stesso) a vivere meglio. Nella parresía il parlante fa uso della sua libertà, e sceglie il parlar franco invece della persuasione, la verità invece della falsità o del silenzio, il rischio di morire invece della vita e della sicurezza, la critica invece dell’adulazione, e il dovere morale invece del proprio tornaconto o dell’apatia morale»25. La sincerità non equivale a dire tutto, ma a non fingere e a non mentire. Sincerità è comunicazione chiara (caritas è anche claritas), che non inganna, che non truffa, che non imbonisce, che non illude. Essa si oppone all’oscurità, all’opacità, alla melma in cui si diffondono le calunnie, le parole che confondono le cose, turbano e avvelenano le relazioni, instaurano rapporti di potere, creano sfiducia. Clima melmoso in cui può proliferare la corruzione. Sincerità è anche leale riconoscimento di errore, di aver sbagliato, fuggendo i meccanismi di autogiustificazione e di scaricamento delle responsabilità su altri.

Sincerità è capacità di dire: “Non posso”. Anche i capi, i dirigenti devono assumere la capacità di riconoscere e portare in prima persona gli errori commessi. Questo aiuta, non è affatto vero che distrugga, l’autorevolezza di una persona, anzi. Sincerità, lealtà e rispetto portano a un uso della parola veritiero, che non calunnia, che non uccide, che non ricatta. Un uso etico della parola. La parola è l’invenzione umana che consente all’uomo di elaborare spazi alternativi alla violenza. Ma essa stessa può essere fatta ricadere nelle spire della violenza. Lo stravolgimento della verità corrompe la realtà dei fatti ma anche la dignità umana. L’uomo sincero è l’eroe della parola, ma può diventare il martire della parola. Ora, in una situazione in cui la parola è manipolata al fine di manipolare le coscienze e ottenere potere su di esse, la verità è beffeggiata e stravolta, “l’uomo di parola”, ovvero colui che è veridico, che osa una parola limpida, rigorosa, e si dispone a pagarne il prezzo, si troverà emarginato. L’aveva ben capito Montesquieu nel suo Elogio della sincerità: «Un uomo semplice che ha solo la verità da dire è visto come il perturbatore del piacere pubblico. Lo si fugge perché non piace affatto; si rifugge dalla verità che egli proclama, perché è amara, dalla sincerità che egli professa perché dà solo frutti aspri, e la si teme perché è umiliante, perché ferisce l’orgoglio, passione prediletta, perché è un pittore veridico, che ci mostra deformi come in realtà siamo»26. A fronte di persone che uccidono le parole, possono esistere uomini che si lasciano uccidere per difendere le parole, possono esistere dei martiri della parola. Socrate e Gesù ne sono un esempio universalmente noto. Ma possiamo pensare anche, in tempi e luoghi più prossimi a noi, e anche prossimi ai temi di cui stiamo trattando, a don Giuseppe Diana, di cui Roberto Saviano ha scritto: «Pensavo alla battaglia di don Peppino, alla priorità della parola. A quanto fosse davvero incredibilmente nuova e potente la volontà di porre la parola al centro di una lotta contro i meccanismi di potere. Parole davanti a betoniere e fucili. E non metaforicamente. Realmente. Lì a denunciare, testimoniare, esserci. La parola con l’unica sua armatura: pronunciarsi. Una parola che è sentinella, testimone: vera a patto di non smettere mai di tracciare. Una parola orientata in tal senso la puoi eliminare solo ammazzando»27. La parola veridica, pulita, sincera, è la parola “senza cera”, senza maschera, anzi che smaschera i giochi di potere e la corruzione dei corrotti. Questa è parola temibile, ma è pienamente espressione della responsabilità personale.

Responsabilità

L’etica organizzativa è l’etica della responsabilità. La responsabilità mi situa in un legame e in una relazione costitutiva con altri. Essa mi spinge a rispondere di me, di ciò che faccio, del mio comportamento, del mio lavoro, ad altri e alla mia coscienza. Io devo rispondere di me come persona, come uomo, come donna, devo rispondere del mio ruolo, della mia posizione, e ne devo rispondere ai capi e ai collaboratori. E devo rispondere anche degli errori miei e dei miei collaboratori. Ora, senza dilungarmi sulla responsabilità, che conosce una letteratura sconfinata28,29 (la riflessione sulla responsabilità è stata sviluppata in diverse opere di pensatori come Hanna Arendt, Emmanuel Lévinas, Paul Ricoeur), sottolineo un’unica dimensione. Re-spondeo, verbo che significa “rispondere”, ma anche “ricambiare”, e da cui deriva il termine “responsabilità”, ha in sé anche il significato di “promettere”. Spondeo significa promettere. Nella responsabilità c’è l’assunzione di un impegno verso l’altro e il mantenimento di una promessa fatta. Un persona con comportamento etico, una persona con statura etica, è una persona capace di promettere e di mantenere le promesse. Nietzsche parla della promessa come della “memoria della volontà”. La promessa, come memoria della volontà, tiene insieme passato (memoria) e futuro (volontà) nel presente dell’atto stesso di promettere. Per Nietzsche l’uomo è l’essere capace di promettere. Egli scrive che promettere è «un continuare a volere quel che si è voluto una volta, una vera e propria memoria della volontà»30. Promettendo, l’uomo risponde di sé come futuro. La promessa implica la responsabilità: io mi faccio rispondente delle parole solennemente pronunciate promettendo. Ne rispondo. E così manifesto la mia umanità che si esprime essenzialmente nella parola, nel mio essere capace di linguaggio. Non a caso Nietzsche, in Genealogia della morale, continua il suo discorso sulla promessa affermando che la storia dell’uomo che ha imparato a rispondere di sé come avvenire, a fare promesse, a dare durata alla volontà fino a costruire storie, legami, appartenenze, «è la lunga storia dell’origine della responsabilità»30. Certo, promettere è delicato. Non si può promettere qualsiasi cosa (promettere “mari e monti”, promettere “la luna”), così come non si può volere qualsiasi cosa (non posso volere l’impossibile). La volontà ha una misura31. La dismisura nella volontà suscita frustrazione; la dismisura nella promessa è ingannevole, diventa menzogna. Inoltre, promettere è impegnare se stesso al futuro. Promettere è sempre promettersi, è disporsi a rispondere di sé come futuro. Nel promettere “io voglio davanti ad altri”, davanti a testimoni: istituisco un’obbligazione (nei miei confronti: comando a me stesso) e un diritto (nel destinatario della promessa: mi obbligo nei suoi confronti). La promessa mantenuta crea fiducia e rende affidabile colui che ha promesso. E dice la capacità dell’uomo di essere in ciò che dice e in ciò che fa: nelle sue parole e nelle sue azioni. Ma qui giungiamo al vertice del nostro cammino, l’integrità.

Integrità

La persona ha una sua pienezza, completezza, che fa sì che essa tenga unite in sé le competenze professionali, l’autorevolezza, le doti umane e relazionali. Integrità rinvia a ciò che è intero, illeso, incorrotto, non rotto. E neppure dunque, doppio. La doppiezza o è patologia o è nascondimento di comportamenti poco etici. Integrità rinvia a rettitudine e correttezza, a irreprensibilità e inappuntabilità, a solidità e consistenza. L’uomo integro ha basi interiori solide, ha consistenza interiore. Ha stabilità e fermezza e non è manipolabile da chiunque e nemmeno esposto a qualunque instabilità. Non è corrompibile. In effetti, l’integrità rinvia infine all’onestà. Etimologicamente, onestà rinvia a onore. La persona onesta è quella che viene onorata e lodata per se stessa, ancor prima che per le sue azioni e per i frutti prodotti dal suo agire. È anche la persona che sa abitare se stessa. Potremmo dire che è contenta di sé. E può gioire di quella contentezza che viene dalla coscienza che, come abbiamo già ricordato, fare il bene è sempre anche farsi del bene.

Conclusione

Abbiamo iniziato questa riflessione richiamando un testo di Cicerone che parlava della corruzione. Ora possiamo concludere citando un altro testo antico e attuale, un testo posteriore di un secolo e mezzo alle parole di Cicerone, un testo che troviamo nel vangelo e che parla dell’integrità proclamando “beati i puri di cuore” (Matteo 5,8). Ci si può chiedere: che c’entra? C’entra, perché biblicamente l’uomo puro di cuore è anche colui che ha “mani innocenti” (Genesi 20,5; Salmo 24,4). È l’uomo onesto, integro, incorrotto. Il puro di cuore ha le mani pulite32. Nell’antropologia biblica il “cuore” rinvia al Sé, all’interiorità, alla coscienza, ed è anche il luogo del volere e del decidere, dunque dell’agire. Puro di cuore è l’uomo che combatte le divisioni che lo abitano e tende verso l’unificazione interiore: egli cerca di accordare cuore e mano, intenzione e azione, coscienza e prassi. Purezza di cuore rinvia così alla coerenza e all’integrità personali. Che, lungi dall’essere segni di immobilismo, indicano una convinzione profonda: il puro di cuore è un testimone, un martire. Non è un voltagabbana, una banderuola, una canna che si piega a ogni soffio di vento e che si lascia sedurre e corrompere, ma abita con umile risolutezza la verità che ha nel cuore.

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