Cinema e medicina

a cura di Luciano De Fiore

Per un cinema non ancora sazio. Su Mia madre, di Nanni Moretti

Michele Apicella, alter ego di Moretti in cinque film, affermava stentoreo in Sogni d’oro: «Parlo mai di neuropsichiatria? […]. Io non parlo di cardiologia! Io non parlo di radiologia! Non parlo delle cose che non conosco!». Eppure, più volte i film di Nanni Moretti hanno riguardato la malattia ed il morire. Anche da molto vicino, addirittura con l’inserto di riprese documentarie autobiografiche, come in Medici, terzo episodio di Caro diario (1993). O come nel caso dello psicoanalista protagonista de La stanza del figlio (2001), per lavoro sempre alle prese con la sofferenza altrui, e chiamato un giorno ad affrontare l’evenienza più dolorosa che possa capitare, la morte di un figlio. In altre occasioni, più per accenni, come per la grave depressione e della morte della mamma di don Giulio, protagonista de La messa è finita (1985). Mia madre (2015) riprende e mette a fuoco dopo trent’anni uno dei temi di quel bellissimo film: il vissuto della perdita di un genitore.




A condividere l’esperienza della malattia e del morire della madre Ada, insegnante di latino e greco ormai in pensione ma ancora amatissima dai propri ex alunni, interpretata da Giulia Lazzarini, sono due fratelli di mezza età: Margherita – la sempre più convincente Margherita Buy, regista alle prese con un nuovo film sulle proteste operaie in una fabbrica romana – e Giovanni, un ingegnere interpretato dallo stesso Moretti. Che, rappresentandolo, reitera in parte il dolore patito per la morte di Agata Apicella, sua madre, accaduta nel 2010. Per affiancare nella sceneggiatura Francesco Piccolo e Valia Santella, Moretti ha voluto rileggere i propri diari del periodo della malattia della madre, come per dar più verità – ha detto lui stesso – alle scene tra Margherita e la mamma malata.




Ma perché ai dialoghi tra Margherita e la madre, e non ai propri? Per un’inversione palese tra i personaggi, dovuta forse al pudore e al senso di inadeguatezza. L’inadeguatezza, il sentimento-chiave di questa convincente prova di Moretti, è la lente che ne consente la lettura forse più diretta e che spiega anche l’incrocio tra i protagonisti-fratelli: Moretti ha come consegnato se stesso a Margherita Buy, rinunciando a fare il Moretti e interpretando la parte del fratello provato ma solido, deciso nelle proprie scelte, anche in quella onerosa di lasciare il lavoro, per accompagnare la madre. Mentre la Buy, nello scambio di ruoli, non fa la Buy nevrotica e sconclusionata, ma si cala nei panni di regista, con le impuntature ed i capricci del ruolo, consueti a Moretti.

La fabbrica è il non-luogo dove Margherita gira il film. La cattedrale del lavoro e della produttività è posticcia, inoperosa: anche il film procede a fatica. L’ospedale – un reparto abbandonato e ripristinato per l’occasione del Forlanini di Roma –, in apparenza spazio algido e atemporale dove i giorni si succedono eguali, scanditi dal ricambio delle bocce delle flebo ai malati, è invece attraversato dal lavorio operoso della morte, lei sì in azione. Sulle panche del corridoio, fredde e scomode, si compie nel contempo il lavoro del lutto di Giovanni e Margherita, con tempi diversi, personali. Mentre Giovanni fa largo all’elaborazione, che estende e approfondisce una mancanza già in azione (si è ritratto dal lavoro, in apparenza non ha legami sentimentali altri dalla famiglia di appartenenza), Margherita passa per il rifiuto della realtà, rifugiandosi nella finzione del film che sta girando. Ma anche lei, con le sue ansie mal celate e infine scoperte, alla fine offre sé stessa al protagonista, il prode Attore Americano, l’istrionico John Turturro, assai nella parte. E infatti sarà John a urlare per lei, in suo luogo: «Ridatemi la realtà, portatemi via da questa finzione!».

Stretti nella morsa dell’irrealtà e dell’iperrealtà – la fabbrica/set e l’ospedale non più in grado di curare – Giovanni e Margherita riportano infine Ada a casa: l’unico luogo inclusivo, segnato dalle vite di tutti, come testimoniano le carezze attente ai dorsi dei libri della biblioteca di famiglia.

«Lei ragiona come una persona sazia», esclamava l’attore destinato al ruolo di Sorin ne Il gabbiano di Cˇechov, in una delle scene più intense di Habemus Papam (2010). Moretti, in questo film, gira come una persona che sazia non è, ancora disponibile invece a ripercorrere le strade accidentate del sentimento, degli affetti, del dolore. Un dolore vissuto di recente, che il linguaggio cinematografico universalizza e allo stesso tempo scarnifica. Vengono meno gli aspetti più privati, senza che per questo fletta il pudore col quale un figlio vive la vicenda del morire di un proprio genitore.




I gesti quotidiani vengono rimpiazzati da una gestualità più stilizzata e insieme più tecnica: come manovrare l’ossigeno, cosa offrire di appetibile ad una malata stanca e defatigata, sbucciare una mela, togliere le spine, riscaldare il sugo, come aiutarla ad alzarsi accettando l’estrema, finale debolezza di una malata di cuore, scompensata. Accudire da figlio un genitore che, in vecchiaia e nella malattia, torna inerme come un bambino piccolo. Anche il linguaggio parlato si adegua, adottando il plurale: “E adesso partiamo”, “mangiamo”, “andiamo”. L’attenzione e l’affetto devono farsi largo attraverso questa gestualità artefatta che per un periodo diviene consuetudine, e nonostante la quale si manifestano amore e riconoscenza, al di là della pudicizia dei sentimenti e della denegazione.

Il film ha il merito di mettere a confronto, e di far interagire, le differenti reazioni di una donna e di un uomo di fronte al morire della madre. Prima o poi, tutti affrontiamo quel passaggio, prima da accudenti, poi da accuditi. S’incontra l’impaccio del linguaggio medico, la ritrosia ad accettare una prognosi infausta, il dover scegliere un infermiere, l’impratichirsi con le mascherine, le sedie a rotelle, gli orari dei tanti farmaci da somministrare. Il film sarà bene accolto anche per questa sua capacità di rendere l’ordinario, nel momento in cui il filo che lega l’esistenza di genitori e figli va a spezzarsi.

L’intreccio-scambio tra le sensibilità degli interpreti fa risaltare ancor meglio come le esigenze possano rivelarsi comuni, compartecipate. Nel film precedente, lo psicoanalista interpretato da Moretti ironizzava sulla moglie, psicoanalista anch’ella, fissata col deficit di accudimento. Nel nuovo film è come se Giovanni e Margherita risarcissero Ada, la madre morente, ciascuno a suo modo, dell’amore assorbito negli anni: il timore di un deficit di accudimento passa sulle spalle dei figli, e l’amore elude il senso di colpa aiutando ad assumersi l’onere della cura dell’anziano genitore, accompagnandolo fino alla morte. Si ripristina così il filo dei giorni, il loro senso nel trascorrere delle generazioni. Ed una figlia, Margherita, può immaginare o ricordare alla propria domanda: «A cosa stai pensando, mamma?», un’ultima, dolce risposta: «A domani».

L’imperatore del male diviene un film documentario

L’imperatore del male. Dal titolo, lo spettatore medio americano che il 30 ed il 31 marzo e il 1 aprile si è sintetizzato sulla mini-serie televisiva in tre puntate della PBS avrà pensato ad una serie simile a True detectives o ad Empire. E invece The Emperor of All Maladies, come suona il titolo in originale, riprende il best seller di Siddhartha Mukherjee, vincitore del Pulitzer 2011 (traduzione italiana, Neri Pozza 2011). Un film-documentario sul cancro di sei ore, del quale hanno discusso di recente su Medscape (http://www.medscape.com/viewarticle/841334) lo stesso Mukherjee (oncologo medico e ricercatore, professore alla Columbia University) e Clifford A. Hudis, responsabile del Breast Cancer Medicine Service del Memorial Sloan Kettering Cancer, già presidente dell’American Society of Clinical Oncology (ASCO).







Le storie dei pazienti e la medicina narrativa

Mukherjee iniziò a lavorare al libro nel 2004, da assistente ospedaliero, quando era impegnato ventre a terra da quel che di solito si fa in un reparto: riempire i moduli per la richiesta delle chemio, mentre ci si fa in quattro per cercare di capire come essere di aiuto al meglio ai pazienti. Di colpo, fu colpito da un commento, uno dei tanti, di una paziente. Una donna che stava per affrontare un terzo ciclo con un inibitore della chinasi per un sarcoma addominale: «Posso anche farcela ad andare avanti, ma prima devo sapere cosa sto combattendo». In quel momento Sid capì che la donna avrebbe voluto sapere come era arrivata fin lì. E che cosa sarebbe accaduto dopo, quale domani le si sarebbe prospettato. Ecco come nacque il libro.

Il problema è che troppo spesso l’oncologo non racconta le proprie storie in modo chiaro ed esaustivo. Sia il documentario che il libro sono invece davvero dei formidabili esempi di narrazione. D’altra parte, né il libro né il docufilm avrebbero potuto esistere senza le storie personali che vi si intrecciano: «L’anima del documentario e del libro – sostiene Mukherjee – è che tutto deve e può essere espresso in termini narrativi. Mi azzarderei a sostenere che non c’è scienza al di fuori della narrazione, e che sono fondamentalmente collegate. Se chiedete ai più grandi medici, ai più grandi scienziati, del loro lavoro più innovativo, lo descriveranno non certo ricorrendo ad una sorta di equazione astratta, ma in termini di narrazione. Vi diranno esattamente il fatto che li ha indotti a pensare a qualcosa, come sono arrivati ad una certa idea e come poi l’hanno fatta vivere nelle loro storie. Non è possibile immaginare la medicina fuori dalla narrazione, almeno io non riesco a immaginarlo, ed è così che ho strutturato il libro. E il documentario è fatto di storie su storie. Tutto nasce da lì».

L’oncologia oggi: tanti progressi, ma restano le ombre

Da allora, i progressi nelle terapie e nella diagnosi dei tumori sono stati sorprendenti. Come nota Hudis, interi ambiti del lavoro scientifico, come la scienza traslazionale, e gli stessi risultati clinici di oggi, 10 anni fa avremmo potuto soltanto sognarli. Naturalmente, nell’adattamento del libro se n’è tenuto conto, eccome: «In realtà abbiamo dovuto cambiare a fondo la sceneggiatura – nota Mukherjee. Quando l’abbiamo scritta, l’immunoterapia esisteva, ma chiudeva soltanto lo script, come una sorta di auspicio: che bello sarebbe se si potesse allenare il sistema immunitario a riconoscere e ad uccidere le cellule tumorali. Mentre abbiamo girato il film, la fantasia ha cominciato a diventare realtà, non in tutti i casi (ci sono ancora alcuni “se” e alcuni “ma” riguardo a questo tipo di terapia), ma abbiamo assistito al suo sbocciare. Così la sceneggiatura è cambiata, e un segmento previsto di 4 minuti di girato è cresciuto fino a 20 minuti».

I pazienti hanno dato il consenso per esser filmati a partire dal giorno 0 della loro diagnosi e per esser seguiti longitudinalmente di lì in avanti. Sono stati seguiti così come le loro storie si sono dispiegate, il che ha reso la narrazione incredibilmente potente, lasciando emergere l’urgenza inglobata nella profondità dei vissuti.

Hudis nota però che, per quanti progressi si stiano registrando, alcune forme tumorali mantengono ancora la loro aggressività, cosicché non tutte le storie hanno un lieto fine. Mukherjee ne conviene, naturalmente, pur facendo presente che «lo spirito del documentario era mantenersi fedeli a ciò che sta accadendo in medicina. Con sobrietà. L’ottimismo doveva quindi essere equilibrato da quel che resta deludente. Non che si trattasse di tirarsi indietro davanti a ciò che è davvero duro e indigesto. Anzi, il film testimonia anche la morte, anche se non la mostra, per quanto si capisce benissimo nel film quando i pazienti muoiono. Non volevamo invadere la privacy, e d’altra parte non desideravano certo addolcire una storia che resta molto, molto complicata, con enormi progressi per alcuni pazienti, con terapie mediche in continua trasformazione per alcuni, ma che ancora marca insuccessi per altri. Nel film si assiste a momenti veramente difficili, come quando i pazienti devono prepararsi ad affrontare la morte, quelli in cui la medicina guarda in faccia i propri fallimenti».

L’arte della medicina

In fondo, sostiene Mukherjee, la cosa più importante resta dire la verità. Se la medicina entra in contraddizione con le proprie conclusioni, se si cerca di nascondere ciò che è noto e ciò che invece non lo è ancora, ci si mette nei guai. La cosa migliore consiste nel dire alla gente quali progressi sono stati fatti, ma anche che c’è ancora molto da fare. Secondo Hudis, tuttavia, è difficile mantenersi in equilibrio su questo sottile confine tra la speranza onesta ed il dire la verità in modo però che non distrugga la speranza. Anche perché varia per ogni paziente e per ogni famiglia. Per questo, Mukherjee è ricorso ad alcuni esempi che dimostrano davvero l’arte della medicina. Quella propria di grandi medici, come ad esempio Tom Lynch [oncologo toracico, direttore del Yale Cancer Center], capaci di mantenere quell’equilibrio: mai distruggere o asfissiare la speranza, senza creare però false aspettative su quel che è disponibile e che può accadere. Questa, e non altro, è l’arte della medicina.

Per cui, il docufilm si occupa anche di un aspetto controverso e problematico, in particolare negli Stati Uniti, quale l’accesso alle terapie, al quale dedica un’intera sezione, specie le immunoterapie e le nuove terapie targeted. Senza dimenticare però che accesso non è solo una questione di denaro; accesso vuol dire dare la medicina giusta alla persona giusta al momento giusto e per la giusta malattia. Una medicina di precisione. Se non possiamo risolvere il problema del giusto prezzo, possiamo invece contribuire a fornire il giusto farmaco alla persona giusta: «Inventarsi un altro farmaco inefficace che aumenta la durata della vita di 2 settimane e mezza ad un prezzo esorbitante non risolve alcun problema. Invece, se si targetizza il paziente giusto con la medicina giusta si può aumentare la sua vita significativamente, poniamo di 5 anni, e l’intera discussione sull’accesso alle cure allora cambia radicalmente», nota Mukherjee.

Se è vero che negli ultimi dieci anni negli Stati Uniti il potere di spesa per i National Institutes of Health (NIH) e per il National Cancer Institute (NCI) si è ridotto del 25%, è anche vero che il Presidente Obama ha stanziato in gennaio 215 milioni di dollari proprio per la medicina di precisione, anche se non certo tutti andranno all’oncologia. Iniziativa lodevole, pur ricordando – con Mukherjee – che 215 milioni di dollari restano una somma sì importante, ma piccola, se si pensa che il budget federale del NCI e degli NIH ammonta rispettivamente a 5 e a 10 miliardi di dollari l’anno. Cioè, nota Hudis, stiamo parlando in prima approssimazione dello 0,1% della spesa federale per un problema come il cancro che colpisce tra un terzo e la metà di tutti gli americani.