Ricordo di Giovanni Berlinguer

Luca De Fiore

Il buio di quegli anni era modestamente colorato solo dalle pennette alla vodka e dal salmone che qualcuno aveva scoperto essere un pesce abbastanza grosso che non nasceva affumicato e fatto a fette, così da poter essere messo in forno. Per il resto, c’era l’angoscia delle bombe, dei colpi di stato, degli attentati e dei conflitti in Irlanda o in Medio Oriente. Ci voleva un ottimismo testardo per riuscire a concludere con successo il percorso di riforme come quella sanitaria che nel dicembre del 1978 fu votata dal Parlamento italiano.

Con la morte di Giovanni Berlinguer si ha la tentazione di sostenere che è proprio grazie a persone come lui – ostinatamente in direzione contraria – che sono state ottenute certe conquiste. Ma Giovanni stesso spiegherebbe che così non è stato: «Contro i molteplici ostacoli e vincendo il rischio continuo dello scoraggiamento, da più parti si è fatta strada, non solo elaborando programmi ma cominciando a realizzarli sia pure parzialmente, nelle strettoie concesse dalla legislazione vigente e nella continua lotta contro le inerzie governative, l’esigenza di modificare profondamente il sistema sanitario. Il maggiore contributo è venuto dalle classi lavoratrici, sia con la diretta esperienza di lotta per la salute negli ambienti di lavoro, sia con la promozione di attività pubbliche per la prevenzione, sia con lo stimolo alla riforma complessiva dei servizi sanitari»1. Il merito più grande di Giovanni Berlinguer e degli altri che con le loro idee e con il loro lavoro hanno cambiato lo stato di salute degli italiani – da Alessandro Seppilli a Severino Delogu o Ferdinando Terranova – è stato nella capacità di raccogliere le istanze che nascevano dai lavoratori trasformandole in una “soluzione positiva” che prevedeva un cambiamento rivoluzionario: la richiesta di “atti medici” diventava quella di efficaci “atti sanitari”2.

La soluzione positiva era condizionata alla riduzione degli sprechi e alla restituzione ai cittadini della competenza nella gestione della propria salute. Lo spreco principale era riconducibile alla cattiva informazione – di televisione e giornali – che trasformava le persone in consumatori: secondo i mass media, «l’impegno sanitario di una madre dovrebbe consistere essenzialmente nell’acquisto di determinate merci, sostitutive di ogni altro intervento sanitario verso i neonati o i bambini; sostitutive, perfino, dell’amore materno». Ancora: «La spinta al sovraconsumo promana dai messaggi propagandistici dell’industria. Per alcuni farmaci, si vantano proprietà terapeutiche universali, si diffondono dépliants illustrativi che rassomigliano molto alla tiritera con la quale il Dottor Dulcamara (nell’Elisir d’amore) magnifica il suo specifico tuttofare, con la differenza che Dulcamara concludeva nella sua propaganda “per poco io ve lo do”; mentre i farmaci, oggi, li vendono per molto»2.

La soluzione positiva, però, era prima ancora determinata da un recupero della dimensione politica della salute. In altri termini, dal ribaltamento della concezione che vedeva l’ambiente o le condizioni di lavoro come i determinanti immutabili e, al contrario, i comportamenti individuali come quello che Giovanni chiamava “l’elemento mobile”, sempre disponibile ad adattarsi a circostanze definite. La dimensione politica si traduceva nella possibilità di superare il disagio individuale attraverso la consapevolezza e l’agire condivisi. «Per sottrarre il bene-salute alle leggi del mercato, cioè alla legge della domanda e dell’offerta basata sulle possibilità economiche dei singoli, non basta modificare i servizi sanitari, ma bisogna anche incidere sulle leggi generali che regolano l’economia, e che regolano l’intera società. Infatti, le soluzioni ai problemi odierni della salute non sono soltanto mediche, sono eminentemente sociali, politiche, culturali. Implicano per esempio un diverso rapporto fra città e campagna (politica del territorio), una condizione umana diversa nelle fabbriche, il miglioramento della vita dell’infanzia e del sistema scolastico, una nuova politica dei trasporti, condizioni alimentari più igieniche, una politica ecologica a misura dell’uomo»2. Per avviare un nuovo corso, una medicina molto spesso incapace di utilizzare le proprie conoscenze per contrastare le malattie – e al contrario sempre pronta a ricorrere al proprio potere nel rapporto con il malato – doveva necessariamente allearsi con la politica. A quest’ultima erano richieste cinque condizioni, però, corrispondenti ad altrettanti obblighi: 1) l’obbligo di logica; 2) l’obbligo di coerenza; 3) l’obbligo di chiarezza; 4) l’obbligo di brevità; 5) l’obbligo di puntualità3.

Giovanni era venuto a Roma dalla Sardegna subito dopo la fine della seconda guerra e, nell’isola, “come quasi tutti i sardi”, aveva sofferto la malaria. Iscritto alla facoltà di Medicina, preparò la tesi di laurea tra il 1950 e il 1952 su una scrivania nella sede della Camera del lavoro di Roma, dedicandola alle precarie condizioni sanitarie della capitale e, in particolare, sulla diversa mortalità in rapporto con le condizioni sociali di quartieri e rioni4. Diceva di sé di essere «laureato in medicina ma non medico», non avendo mai esercitato la professione; scherzando, aggiungeva che l’unica diagnosi che gli fosse capitato di formulare aveva riguardato la capacità di intendere e di volere di un collega parlamentare che – precisava – sarebbe stato perfettamente in grado di agire coscientemente. In teoria. Ma nonostante non si ritenesse un clinico, Giovanni non condivise mai il punto di vista di un amico anche lui laureato in medicina come Aldo Natoli che sosteneva che mai avrebbe potuto riprendere l’attività dopo essere stato arrestato durante la lotta partigiana perché la professione era priva «di quelle possibilità liberatrici dell’uomo che solo la politica può offrire». Rispondeva, Giovanni, che «anche dal singolo caso morboso, e a maggior ragione dallo studio della patologia sociale, si può risalire all’universale, e trovarvi nuove ragioni di impegno rivoluzionario»2.

Una delle sue libertà è stata quella di dirsi “laico” tra i medici e medico tra i politici. Non un “tecnico”, ma una persona sempre libera di scegliere ciò che riteneva giusto.

Quanto possa essere stato per lui importante “l’infinitamente piccolo” lo conferma il fatto che il primo e l’ultimo suo libro sono stati dedicati alle pulci. L’esordio di Giovanni scrittore fu nel 1964 con Aphaniptera d’Italia, uno “studio monografico” pubblicato proprio dal Pensiero Scientifico Editore: erano anni in cui dalla politica era tornato alla ricerca, prima concentrandosi sulle pulci e poi sulle api. L’ultimo libro – a parte la raccolta di saggi sulla Storia della salute uscito nel 2011 – era intitolato proprio “Le mie pulci”. «Ho avuto gatti, e a volte ho trovato qualche pulce nei calzoni. Ho almeno la soddisfazione, avendole studiate in gioventù, di chiamarle con nome e cognome». Era capace di un’ironia fuori dal comune, mitigata da un sorriso dolcissimo. Nell’inverno del 1976, probabilmente di fronte al solito salmone al forno preparato da mia madre, gli mostrai trionfante la recensione del suo libro “Malaria urbana”4 che – da studente di storia contemporanea – avevo preparato per Recenti progressi in medicina: «Che bello, grazie mille, ma ricorda che le sole pubblicazioni che contano in campo scientifico sono quelle matrimoniali».

Erano cene frequenti – per fortuna oltre ai piatti “anni Settanta” c’erano spesso i tortellini che Alessandro Seppilli rumorosamente apprezzava in modo particolare – durante le quali veniva molto dialetticamente costruita una collana di libri, Società e salute, che aveva la propria chiave di lettura nell’ordine in cui erano posizionati i due termini. Dal 1976 al 1990 la collana avrebbe pubblicato 28 titoli che nella loro diversità rappresentarono una sintesi felice della democrazia partecipativa che aveva cambiato la sanità del nostro Paese: a partire dall’attività politica e sindacale da una parte e dal coinvolgimento dei cittadini nella promozione della salute e dell’educazione sanitaria dall’altra. Quella del 1978 era «una riforma difficile da evitare», considerato il percorso che l’aveva prodotta, ma che in molti avrebbero volentieri evitato, poiché introduceva forti elementi di novità in un contesto nel quale continuavano ad avere un ruolo importante delle componenti molto conservatrici.




Il salto dalla zanzara alla malaria urbana, dalla pulce all’epidemia, dal batterio alla storia o dalla culla all’infanzia era in Giovanni Berlinguer una dote rara e preziosa, come ha scritto Michele Serra, propria «di chi fonda sulla ragione, sulla conoscenza diretta, sulla pacata comprensione del mondo, il complicato edificio delle idee, dei sentimenti e delle passioni. È una sorta di igiene mentale, di medicina preventiva dello spirito»3. «Confesso che la mia principale aspirazione, come studioso di medicina sociale, è di scrivere nel lontano futuro una nuova edizione del libro la vecchiaia tarda, lenta, sana, serena che fu pubblicato nel 1957, opera di tre autori […]: erano nonagenari quando scrissero il libro; e questo spiega la mia aspirazione, che potrebbe realizzarsi nell’anno 2014». Così scriveva Giovanni Berlinguer il 17 febbraio 1988, sottolineando che «gli anziani hanno bisogno soprattutto di restare operosi, e anche di solidarietà familiare, di salute, di ottimismo».

Se con il nostro agire politico o col nostro lavoro non fossimo riusciti a conservare l’ottimismo di persone come Giovanni, rischieremmo di avere un peso sulla coscienza che potrebbe non più abbandonarci.

Bibliografia

1. Berlinguer G, Scarpa S. La riforma sanitaria. Roma: Editori Riuniti, 1974.

2. Berlinguer G. Medicina e politica. Bari: De Donato, 1973.

3. Berlinguer G. Il leopardo in salotto. Roma: Editori Riuniti, 1990.

4. Berlinguer G. Malaria urbana. Milano: Feltrinelli, 1976.