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La protagonista è la persona che soffre. Nelle pagine che sfoglierete, se ne parla in primo luogo nell’articolo di Pagliaro, Colli e Bobbio (pag. 308) che hanno scelto di ripercorrere l’esperienza di William Withering per sottolineare l’importanza di non trascurare il rilievo della risposta individuale ai trattamenti a vantaggio di un approccio esclusivamente dettato dalla ricerca di popolazione. La medicina personalizzata dovrà dimostrare di essere anche la “medicina di precisione” che Barak Obama ha voluto far diventare il testimone da affidare a chi dopo di lui assumerà il governo della sanità degli Stati Uniti: ad oggi, dobbiamo sperare che il futuro vada nella direzione dei tre termini indicati da un importante articolo uscito sul New England Journal of Medicine (personalized, problematic, and promising) scongiurando i timori evocati da Richard Lehman in un commento su The BMJ (pricey, profitable, and perplexing).

La persona che soffre è al centro anche del documento che esprime la posizione sulle cure palliative della Società Italiana di Neurologia (pag. 316): delinea in maniera asciutta e precisa la dimensione e gli aspetti peculiari degli interventi a beneficio del paziente in tutti i casi in cui non è possibile modificare il progredire della malattia. È un documento molto importante anche per i decisori sanitari perché il ripensamento degli aspetti organizzativi e di sistema è probabilmente ancora più decisivo della riconsiderazione degli aspetti assistenziali e clinici.

Prosegue la valutazione di opportunità e rischi delle nuove apps e dei social media nella comunicazione tra professionisti sanitari, pazienti e loro familiari. La penetrazione di WhatsApp è ormai inferiore solo a quella di Facebook, non solo tra gli adolescenti e la rassegna della équipe dell’Istituto Tumori di Milano (pag. 331) integra altri contributi già pubblicati su questa rivista. A distanza di oltre 20 anni dall’introduzione di internet nella nostra vita quotidiana, i problemi restano: soprattutto se valutiamo la qualità dei contenuti in rete. Uno studio di clinici indiani (pag. 337) mostra una relazione inversa tra affidabilità dei video sull’iperplasia prostatica e posizionamento sui motori di ricerca. Anche alla luce di queste evidenze non si può non concludere che la persona malata è sì, al centro del sistema, ma non godendo di una posizione di vantaggio.

La patient-centered medicine è un obiettivo quanto mai desiderabile ma presuppone un ripensamento complessivo delle dinamiche che informano la produzione di conoscenze scientifiche, la conseguente ridefinizione dell’agenda della ricerca e la programmazione della sanità. Le hanno indicate con chiarezza e particolare capacità di sintesi Ben Goldacre e Carl Heneghan in un editoriale su The BMJ (vedi la nota a pag. 303) e diversi passaggi del loro intervento coincidono con quanto hanno scritto Vinay Prasad e gli altri autori dello studio sulla correlazione tra esiti surrogati e primari in oncologia (pag. 302): lo stesso Prasad, ricercatore del National Institute of Cancer di Bethesda, ha twittato recentemente una frase emblematica: il vero esperto è chi sa decifrare un trial, non chi pretende di conoscere una patologia. Prasad ha ragione, ma la necessità di avere un detective in ogni medico, a difesa del paziente, non è una buona notizia.

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