Dalla letteratura

In collaborazione con l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane
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Curatori della parola

Il giro d’affari dei libri di medicina vale meno della metà di quello delle riviste. Più o meno 5 miliardi di dollari il primo, più del doppio il secondo. Non bastasse, l’acquisto di libri sta diminuendo e le vendite degli ebook non riescono a colmare le minori vendite di monografie. L’informazione scientifica è sempre più affidata a una serie di fonti molto frammentate e ognuno si aggiorna come può. Molto spesso, ci si aggiorna male, su singoli articoli che terminano con la fatidica frase: “More studies are needed”.

«Le parole sono uno strumento in grado di essere d’aiuto o di far danni a seconda del modo in cui sono scelte e contestualizzate», scrive Harvey Max Chochinov in un libro di cui è appena uscita l’edizione italiana curata da Giuseppe Moretto e Luigi Grassi, Terapia della dignità1. In anni caratterizzati da pubblicazioni inconcludenti, il libro di Chochinov è l’esempio di un punto fermo, giunto dopo anni di sperimentazioni rigorose, infine riassunte e validate da una revisione pubblicata proprio quest’anno2.

Chochinov è uno psichiatra che si è specializzato nell’assistenza ai pazienti nel fine vita. Dirige la Palliative Research Care Unit dell’università del Manitoba a Winnipeg, negli Stati Uniti. Il metodo da lui concepito – la terapia della dignità – è stato descritto per la prima volta sul JAMA nel 20023. «Comporta la creazione di un documento che – strutturato con grande attenzione e sottoposto a scrupolosissimo editing – contiene quello che i pazienti vorrebbero rendere noto alle persone che stanno per lasciare». Una delle cose più intriganti di questo lavoro è che il terapeuta diventa un editor della vita del morente. Raccoglie, riflette, mette ordine, rispettando e interpretando desideri e aspettative di chi accetta l’invito a comunicare.

Ogni persona è una storia. «Il documento di generatività – spiega Chochinov – è una parte cruciale della terapia della dignità. La sua significatività è doppia: in primo luogo trasmette un senso di profonda considerazione per i racconti personali che i pazienti riferiscono nel momento, durante la terapia: in secondo luogo, garantisce che qualunque cosa sia stata detta sia “fotografata” e preservata per i posteri». Quello della fotografia è un ruolo centrale, perché i malati si appoggiano alle immagini per recuperare i ricordi e spesso basta uno scatto per riportare alla memoria cose importanti che sembravano dimenticate. Tornano in mente sensazioni forti, chiare ma indescrivibili come i gusti del gelato, scrive Chochinov. Il compimento è in un documento definito “generativo” perché capace di ri-costruire – talvolta di restituire – il senso di una vita. È frutto e simbolo di uno spazio condiviso tra il paziente e la persona che raccoglie i suoi racconti, spazio che infine si amplia raggiungendo familiari e amici.




Siamo storie una diversa dall’altra, ha precisato Gianni Tognoni nella sua lezione magistrale al convegno organizzato dall’università di Verona in occasione della presentazione del volume. Tante storie diverse che ripropongono l’unicità irriducibile delle singole persone. Molto ben rappresentate dalla copertina del libro dell’edizione italiana, che riporta il particolare di un quadro nella cui sommità è un alfabeto che sembra distillare un racconto da svelare: “Mettere al mondo il mondo” è il titolo dell’opera, anch’esso efficacemente evocativo della funzione generativa di un volume che si conclude con una serie di domande aperte: riguardano per esempio la possibilità che la terapia sia gestita da una persona che conosce bene il paziente o il costo (molto contenuto) della cura; la possibilità che sia praticata anche con i bambini o la ricerca di una standardizzazione degli esiti per valutarne l’efficacia.

Un’esperienza esemplare che potrebbe avere un significato particolare se sarà anche capace di indicare una strada diversa a dei professionisti – ricercatori, clinici ed editori – che hanno un non rinviabile bisogno di ritrovare la propria dignità.

Bibliografia

1. Chochinov HM. Terapia della dignità. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2015.

2. Fitchett G, Emanuel L, Handzo G, Boyken L, Wilkie DJ. Care of the human spirit and the role of dignity therapy: a systematic review of dignity therapy research. BMC Palliat Care 2015; 14: 8.

3. Chochinov HM. Dignity-conserving care: a new model for palliative care: helping the patient feel valued. Jama 2002; 287: 2253-60.

Cure fast o slow: cosa ci riserva il 2016?

Si può provare disagio nel leggere la storia dei coniugi Mary e Richard Padzur sul New York Times1. Mary è morta il 24 novembre per un carcinoma ovarico. Rick è stato per 16 anni chief oncology della Food and Drug Administration (FDA). Da quando la moglie si è ammalata di cancro le approvazioni dei nuovi medicinali oncologici sono state più rapide: in media, il tempo necessario allo staff di Padzur per la valutazione dei prodotti è sceso da 6 a 5 mesi. «Avverto un diverso senso di urgenza – ha dichiarato – e sono passato da un ruolo di regolatore ad uno di advocacy dell’agenzia regolatoria».

Nei mesi finali della sua malattia, i medici della signora Padzur hanno anche tentato una terapia con un prodotto – Opdivo – non ancora prescrivibile per la sua patologia, fornito come trattamento compassionevole. Il marito non ha avuto un ruolo nel facilitare questa opportunità. La somministrazione non ha dato alcun giovamento ma, al contrario, le conseguenze sono state molto pesanti, con effetti collaterali che hanno fatto soffrire la paziente e probabilmente accelerato il suo ricovero in un hospice. Come scrive Gardiner Harris sul NYT, non solo di frequente i nuovi farmaci oncologici non si rivelano risolutivi, ma rischiano talvolta di aggravare le condizioni del malato, rendendo più dolorose le ultime settimane di vita. La FDA – osserva Sidney Wolf, fondatore con Ralph Nader del Public Citizen Health Research Group – non è mai stata così pronta come in questi anni nell’autorizzare nuovi medicinali, al punto che «molte decisioni sembrano guidate dall’industria col risultato di nuocere ai cittadini».

La rapidità di approvazione dei nuovi farmaci – come anche di introduzione, purtroppo senza approvazione formale – di nuovi dispositivi medici è una delle più controverse novità degli ultimi mesi. Il confronto sulla questione – nella tensione irrisolta tra il “nuovo” e la “innovazione” – è molto interessante ed è probabile che continui nell’anno che si è appena aperto, soprattutto se grandi organi di comunicazione come il quotidiano di New York proseguiranno a informare i lettori in modo puntuale.




Si può provare disagio anche nel leggere l’intervista rilasciata da Atul Gawande a Le Nouvel Observateur2. L’autore di Being mortal3 sembra scusarsi che, da medico, sia giunto alla maturità professionale ancora impreparato nella capacità di ascoltare il malato, di comprendere le sue necessità sapendo interpretare la sua richiesta di aiuto. In troppi casi la qualità di vita della persona sofferente peggiora con il prolungarsi di “cure” chemioterapiche o di altro tipo laddove trarrebbe invece benefici da una palliazione che non pretendesse di sovvertire il corso della malattia.

«Al termine della propria vita, la persona ha altri obiettivi che la propria sopravvivenza», ha scritto in un tweet Gawande il 3 gennaio 2016. Sarebbe bello se il pensiero dei malati, dei medici, delle industrie e delle agenzie regolatorie si allineasse, almeno un poco, su questa lunghezza d’onda.

Bibliografia

1. Harris G. FDA regulator, widowed by cancer, helps speed drug approval. New York Times 2016; 2 gennaio.

2. Rocfort-Giovanni B. Les personnes en fin de vie ont d’autres buts que la survie. Le Nouvel Observateur 2015; 5 dicembre.

3. Gawande A. Being mortal. New York: Metropolitan Books, 2014.

Cardiologi: aggressivi tra loro ma non con i pazienti?

Un medico inglese ogni tre è stato oggetto di comportamenti rudi o aggressivi da parte di colleghi. I peggiori? Radiologi, chirurghi e cardiologi. Attenzione, siamo nel campo della aneddotica, ma perché non cogliere l’occasione per farsi qualche domanda? Lo pensa anche Larry Husten che sul blog Cardiobrief1ha dedicato al tema un breve post rinviando alla lettura dello studio uscito sulla rivista Clinical Medicine2, del Royal College of Physicians.

A fare le spese della brutalità dei medici sono i professionisti più giovani, doppiamente esposti rispetto ai più anziani (consultant): il 43% viene spesso strapazzato contro il 18% di chi ha più esperienza, per così dire. Dai focus group escono indicazioni più precise che chiariscono che anche la discriminazione di genere e di razza gioca un ruolo non secondario: in altre parole, non vorremmo essere nei panni di un giovane medico donna e di colore. «Il modo di comunicare fra medici, amministratori, tecnici, infermieri e personale di supporto attivo all’interno di una clinica o di un ospedale incide direttamente sull’eccellenza dell’assistenza, quindi sui risultati clinici, sull’immagine proiettata all’esterno e sulle potenzialità di progresso dell’intera struttura», scriveva Ignazio Marino presentando l’edizione italiana di un libro dell’American Medical Association, Comunicare con il tuo staff 3. «Comunicare bene però non deve essere percepito come un dovere, piuttosto come un’opportunità unica e uno strumento in grado di migliorare l’ambiente di lavoro, il proprio morale e quello del gruppo». Marino si diceva convinto che la cultura anglosassone fosse più capace di comunicare, libera dai condizionamenti indotti dalle gerarchie e dai ruoli: forse leggendo i risultati dello studio le sue convinzioni vacillerebbero.

Di sicuro, quello della comunicazione tra i professionisti è un aspetto molto poco considerato soprattutto se si pensa all’attenzione (il più delle volte teorica) che viene riconosciuta alla relazione tra medico e malato. Quanto ai comportamenti aggressivi di alcuni professionisti le notizie di questi giorni sembrerebbero spezzare una lancia in favore dei cardiologi. Dopo la pubblicazione dello studio SPRINT (Systolic Blood Pressure Intervention Trial), il New England Journal of Medicine ha promosso un sondaggio che è stato chiuso il 3 dicembre 2015. I risultati? L’81 per cento delle risposte era favorevole a un trattamento che non tentasse di ridurre la pressione sistolica entro il limite indicato dallo studio SPRINT. I commenti dei lettori sono molto interessanti e arricchiscono una discussione già molto aperta. Insomma: i cardiologi saranno pure aggressivi con i colleghi, ma per fortuna potrebbero non esserlo con i pazienti. Sarebbe una buona notizia.

Bibliografia

1. Husten L. Survey: docs think cardiologists are rude, dismissive, and aggressive. Cardiobrief 2015; 7 dicembre. Ultimo accesso 1 gennaio 2016.

2. Bradley V, Liddle S, Shaw R, et al. Sticks and stones: investigating rude, dismissive and aggressive communication between doctors. Clinical Medicine 2015; 15: 541-5.

3. American Medical Association. Comunicare con il tuo staff. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2006.

Emergenza aggiornata

Alla fine sono arrivate queste tanto attese linee-guida dello European Resuscitation Council (ERC) 20151 su cosa fare e su quanto ruota attorno alla rianimazione cardio-polmonare. Quasi in sintonia con quelle dell’American Heart Association2. Entrambe liberamente accessibili in rete, le prime su Resuscitation, le seconde su Circulation. Solo quelle europee, però, disponibili tra breve anche in italiano.

Le sorprese non sono finite per gli operatori dell’emergenza, almeno le novità culturali. Sugli scaffali dei libri è comparsa l’VIII edizione del Tintinalli’s Emergency Medicine, curato dall’American College of Emergency Physicians3. Ma ero partito dal volume di linee-guida ERC 2015. Mi sembra che in proposito, per rappresentarne lo spirito, sia opportuno ricordare tre cose.




La prima è anticiparne il sommario che meglio di ogni altra cosa riassume il progetto dell’opera, almeno in prodotti seri come questo. Dunque, i capitoli sono:

riassunto esecutivo;

supporto di base delle funzioni vitali nell’adulto e utilizzo di defibrillatori automatici esterni;

supporto avanzato delle funzioni vitali nell’adulto;

arresto cardiaco in circostanze speciali;

trattamento post-rianimazione;

supporto delle funzioni vitali in età pediatrica;

rianimazione e transizione assistita dei neonati alla nascita;

trattamento iniziale delle sindromi coronariche acute;

primo soccorso;

principi di formazione in rianimazione;

etica della rianimazione e delle decisioni di fine vita.

La seconda cosa da ricordare credo siano le parole di Federico Semeraro, medico anestesista rianimatore, membro dello scientific board dell’Italian Resuscitation Council: «Al centro di queste linee-guida c’è una forte alleanza fra comunità, 118 e primi soccorritori, per la più rapida attivazione della catena di sopravvivenza sul territorio. Nelle linee-guida 2015 si tiene fortemente conto di questo legame per aumentare le azioni di RCP da parte di chi è a fianco della vittima nel momento dell’arresto cardiaco».

La terza cosa da ricordare, meglio, da tenere bene a mente, è che linee-guida nuove non significano sempre, per forza, prodotti nuovi. Infatti, «le raccomandazioni riguardanti la terapia farmacologica durante la RCP non sono cambiate, ma è presente un maggiore equilibrio tra pro e contro sul ruolo dei farmaci nel miglioramento della prognosi dell’arresto cardiaco», come si evidenzia nel documento che riassume le principali novità.

Bibliografia

1. http://ercguidelines.elsevierresource.com/

2. 2015 American Heart Association Guidelines Update for Cardiopulmonary Resuscitation and Em

3. Tintinalli JE. Tintinalli’s emergency medicine. American College of Emergency Physicians, 2015.

Stefano Cagliano
Dipartimento di Emergenza Urgenza
Ospedale Belcolle, Viterbo




Concordanza tra dolore all’anca e artrosi

Secondo uno studio statunitense pubblicato su The BMJ, la concordanza tra dolore all’anca e artrosi rilevata con la radiografia non supera il 20%. Sono state analizzate le radiografie di due gruppi di pazienti. Il primo, il Framingham Osteoarthritis Study: su 946 soggetti, solo il 15,6% dei soggetti con dolori frequenti alle anche presentava evidenze radiografiche di artrosi, e il 20,7% dei soggetti con evidenze radiografiche di artrosi all’anca riferiva di avere frequentemente dolore. Il secondo, lo Osteoarthritis initiative Study: su 4366 soggetti, solo nel 9,1% dei soggetti con dolori frequenti c’erano riscontri radiografici di artrosi, e solo il 23,8% dei soggetti con evidenze radiografiche di artrosi riferiva di avere frequentemente dolore. Secondo gli autori dell’editoriale a commento2, si dovrebbero richiedere radiografie dell’anca quando i pazienti riferiscono dolori che non si possono spiegare con diagnosi alternative; le radiografie inoltre sono fondamentali per escludere condizioni più serie come osteonecrosi, fratture da stress, metastasi ossee. Ma una diagnosi di artrosi dell’anca confermata dalla radiografia comporta delle differenze per il trattamento? «Le pazienti e i pazienti con dolore all’anca trarranno giovamento da interventi sullo stile di vita, programmi di esercizi fisici, brevi trattamenti farmacologici, sia che abbiano, sia che non abbiano artrosi, una volta che siano state escluse altre cause». Ma anche se è importante tentare sempre un trattamento conservativo «è altrettanto importante intervenire con trattamenti più invasivi (inclusa la sostituzione dell’articolazione) in modo tempestivo se il dolore e la disabilità progrediscono. Anche perché la funzionalità precedente all’intervento è fortemente associata a quella a quella post-operatoria. Analogamente, quando si diagnostica un’artrosi in pazienti con pochi, o senza, sintomi, sono da preferire consigli sullo stile di vita e vedere qual è l’evoluzione, con eventuale follow-up. Bisogna ricordare – concludono – di trattare le persone, non le radiografie».

Arabella Festa
per la Biblioteca Medica Virtuale
della P.A. di Bolzano

Bibliografia

1. Kim C, Nevitt MC, Niu J, et al. Association of hip pain with radiographic evidence of hip osteoarthritis: diagnostic test study. BMJ 2015;351:h5983.

2. Nieuwenhuijse M, Nelissen R. Hip pain and radiographic signs of osteoarthritis. BMJ 2015;351:h6262