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Due dei tormentoni degli ultimi mesi, tra quelli che hanno attraversato la sanità italiana, si sono concentrati su altrettante parole chiave: appropriatezza e responsabilità. In un paese normale, sarebbe davvero una buona notizia. Ben venga, infatti un confronto su due termini così complessi, di difficile definizione anche perché ricchi di molte implicazioni. Il primo – appropriatezza – è legato ad un decreto legislativo il cui obiettivo è quello di limitare la prescrizione di prestazioni, prevedendo delle “condizioni di erogabilità”. Il secondo è oggetto di un altro decreto che ha come principale finalità quella di arginare i contenziosi legali per possibili danni ricevuti dai pazienti durante le cure. Entrambi i provvedimenti hanno a che fare con le informazioni. Nel primo caso, un panel di esperti nominato dal Ministero della salute ha elaborato un documento che elencava gli interventi oggetto di disinvestimento ma gran parte degli organismi di rappresentanza dei medici si è dichiarata contraria ad accettare questa selezione in nome della libertà di decisione clinica. Nel secondo, il comportamento responsabile del medico è stato invece collegato alla concordanza tra la decisione presa al letto del malato con le indicazioni delle informazioni sintetizzate in linee-guida.

Sia l’appropriatezza sia la responsabilità non possono essere valutate se non in rapporto alle informazioni e alla conoscenza di cui si dispone. Sarebbero state due ottime occasioni per parlarne ma la discussione è sembrata piuttosto focalizzata sulle rivendicazioni – più o meno corporative o di bandiera – delle diverse competenze, prerogative, autonomie. In entrambi i casi, il Ministero della salute avrebbe potuto cogliere l’occasione per affermare il ruolo del Servizio sanitario nazionale come strumento per la produzione e la disseminazione di saperi. Come? In primo luogo rilanciando la ricerca pubblica almeno sulle questioni che più condizionano la salute dei cittadini: le terapie oncologiche, i nuovi farmaci antivirali, la comparative effectiveness research tra cure attive e trattamenti di supporto nel fine vita. Ugualmente, le istituzioni sanitarie del nostro Paese avrebbero potuto accorgersi che da troppi anni né il Ministero né l’Agenzia italiana del farmaco svolgono un’attività significativa di informazione e, soprattutto, di formazione continua. Sarebbero queste le premesse per la valutazione della “responsabilità” del medico. Niente di tutto questo.

I risultati dello studio di González-Lorenzo et al. (vedi pag. 23) mostrano che le informazioni raccolte in modo sistematico in una cornice organizzata sono considerate comprensibili e utili per prendere decisioni. Ma l’evidenza più importante è che l’interpretazione degli stessi dati può portare a conclusioni diverse. In altri termini, l’elaborazione delle medesime informazioni può generare conoscenze differenti e può motivare anche decisioni non identiche. Una decisione presa “in scienza e coscienza” è semplicemente una decisione informata da evidenze robuste; passate, però, al filtro della propria esperienza e delle preferenze del paziente. E, comunque sia, bisognerebbe sempre tenere presente che l’incertezza è la condizione prevalente in cui agisce il medico e appropriatezza e responsabilità andrebbero giudicate in base al metodo, all’onestà e al rigore con cui si lavora, e non solo in base ai risultati.

Perché, come ricorda Siddhartha Mukherjee nel libro “The laws of medicine”, «medicine asks you to make perfect decisions with imperfect information».

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