Cinema e medicina

a cura di Luciano De Fiore

Fuocoammare: un medico alla frontiera

– Jealous? Geloso!

– Stressed? Stressato.

Interrogato in inglese a scuola, nella lingua degli altri il dodicenne lampedusano Samuele coglie innanzitutto le somiglianze, le parentele. Un segno in più che siamo tutti “poveri cristiani”, come dice sua zia Maria mentre – cucinando un ragù di calamari – ascolta da Radio Delta, l’emittente locale, il quotidiano bollettino di migranti morti e dispersi. Nella disposizione d’animo del bambino figlio di pescatori e dell’anziana si condensa già la pietas che ha spinto l’opinione pubblica a candidare al Nobel per la Pace la nostra isola a 70 miglia dalle coste africane. Ma è davvero nostra quella piccola isola così lontana, lasciata così sola?

La Lampedusa descritta da Gianfranco Rosi nel film vincitore dell’ultimo Festival di Berlino è senza sole e brulla, spazzata dal vento e dai rovesci. A largo incrociano tra le onde i pattugliatori di Marina e della Guardia costiera, cercando di salvare quante più vite possibile; negli ultimi 20 anni, 400.000 migranti sono passati dall’isola, 15.000 si sono inabissati nelle sue acque.




Rosi ha scelto di rimanere un anno sull’isola, per poter renderne la vita attraverso il ritratto appena accennato di alcuni personaggi. Un’ora e trequarti di film in presa diretta – nessuna voce over, nessuna musica – in grado di restituire lo spirito di una comunità fatta di adulti avari di parole – come lo zio e la nonna di Samuele – che affidano a gesti antichi e ripetuti il senso della propria vita: un sub di una certa età a pesca di ricci tra le onde tempestose; Giuseppe Fragapane, il deejay della radio locale che a un certo punto mette su una vecchia canzone del tempo di guerra, Fuocoammare, di cui si son perse le parole ma la cui musica accompagna ora come allora il lampeggiare del dramma dell’isola; una anziana devota della Madonna e di padre Pio, i cui gesti nel rassettare il letto, spianandolo da ogni piega, da ogni imperfezione dicono insieme della circolarità del tempo e dell’attenzione per le cose.







Samuele ed il suo amico girano per l’isola. Niente telefonini, niente TV: solo una mini-moto, una torcia e due fionde. Il mondo di morte che li circonda viene esorcizzato dal mimare il gesto insistito dello sparare con un invisibile fucile a pompa verso il cielo, verso il mare. Poi i cattivi diventano le pale dei fichi d’India, incise col coltello di modo che sembrino facce. Ma se le fionde fanno troppo danno, ecco che Samuele e l’amico le rabberciano con un improbabile nastro adesivo.

Rosi si è fatto accettare dal contesto, riuscendo così a riprenderlo dall’interno. E ciò vale anche per le poche, non insistite sequenze, dedicate al dramma atroce dei migranti: il barcone in balia delle onde, il soccorso dei militari che ne salvano centocinquanta ma che nulla possono per quaranta giovani corpi morti, di caldo, di disidratazione e di stenti. L’arrivo al centro di accoglienza, il canto funebre intonato dai nigeriani: «Non potevamo restare in Nigeria / Molti morivano, c’erano i bombardamenti / Ci bombardavano / e siamo scappati dalla Nigeria / siamo scappati nel deserto, / nel deserto del Sahara, / molti sono morti. / Nel deserto del Sahara molti sono morti / Sono stati uccisi, stuprati / Non potevamo restare».

E sbarcano, allora, sul molo del porto vecchio, subito incartati come caramelle nelle coperte isotermiche oroeargento. Schermati così dal freddo, ma esposti ancora allo strazio del dramma appena vissuto, al ricordo degli amici e parenti persi nella traversata. Piangono lacrime di sangue, mentre il dottor Pietro Bartòlo, da trent’anni medico dell’isola, offre loro le prime cure.

Bartòlo è il direttore dell’Asl lampedusana. Ha visitato 250mila profughi, in 25 anni. Ispezionato migliaia di corpi esanimi, spesso di giovani, di donne gravide, di bambini. Non si è abituato a quelle sofferenze, a quelle ispezioni cadaveriche; e non si rassegna, convinto che sia “dovere di ogni uomo che sia uomo aiutare queste persone”. Sfoglia al computer il suo archivio personale, davanti alla macchina da presa discreta di Rosi, fermandosi sull’immagine di un adolescente africano, ustionato dalla nafta. È accorato, ma calmo, provato, ma nella sua voce vibra una riserva di sdegno e di speranza.

È lui, il dottore, il coprotagonista del film, insieme al piccolo Samuele che nel finale visita amorevolmente. Samuele è legittimamente preda dell’ansia: è lei, gli spiega il medico, che gli impedisce di respirare a pieni polmoni. Inoltre, il bambino ha l’occhio sinistro “pigro” e lo deve utilizzare di più. Deve abituarsi a tirare con la fionda agli uccellini prendendo la mira con l’occhio cattivo. Ma nell’ultima sequenza, come rappacificato e tranquillizzato dal colloquio col dottor Bartòlo, nonostante la mira sia ormai buona anche con l’occhio sinistro, l’ansia e l’aggressività di Samuele sembrano sopite ed il bambino azzarda perfino una carezza, con un dito, ad un passerotto.