Cinema e medicina

a cura di Luciano De Fiore

La donna non esiste

La donna non esiste. Anche il più recente film di Paolo Virzì, scritto con l’amica Francesca Archibugi (La pazza gioia, 2016) dimostra che esistono soltanto le donne. Tutte diverse, tutte con la propria storia personale. Beatrice Morandini Valdirana (Valeria Bruni Tedeschi) e Donatella Morelli (Micaela Ramazzotti) sono diversissime: tanto per dire, estroversa e logorroica la prima, umile e silenziosa l’altra; Bea ricercata nel vestire e chic, Dona tatuatissima e scabra. Ed ancora altra è la storia e la personalità di Fiamma Zappa (Valentina Carnelutti), la terapeuta che le segue con partecipata attenzione nell’accogliente struttura toscana dove ancora – siamo nel 2014 – le due sono internate come pazienti psichiatriche in custodia giudiziaria. Eppure, pur nell’assoluta singolarità, le traiettorie così eccentriche delle vite dolenti e complicate di queste due donne sulla soglia dei quaranta si toccano e, per la fase almeno mostrata nel film, s’intrecciano. Anzi, risultano ognuna importante e complementare per l’altra, dimostrando che anche per alleviare quella particolare malattia che è il disagio psichico grave la relazione terapeutica gioca un ruolo decisivo. E non solo tra paziente e curanti, ma soprattutto tra malate.

Donatella e Beatrice desiderano non tanto e non solo uscire dalla struttura che le accoglie, quanto la normalità della vita, degli affetti, delle relazioni con gli altri. Che invece costituiscono per entrambe un groviglio. A partire dall’infanzia, per entrambe un brutto ricordo: sono state bambine tristi. E come sarebbe potuto essere diversamente? Dona è figlia di un padre imbelle, pianista nel complesso di spalla a Gino Paoli, incapace di assumersi il proprio ruolo paterno e ciò nonostante idealizzato dalla figlia che lo crede autore de Il cielo in una stanza, colonna sonora della solitudine di Dona. Sua madre accudisce un vecchio generale malato, illudendosi che le saranno intestati i beni di quello. Ma soprattutto Donatella è madre lei stessa di un bambino, da tempo in affidamento ad una coppia dopo che lei, nel mezzo della sua crisi depressiva più angosciante, ha tentato il suicidio portandolo con sé in un tuffo in mare senza rimedio. E invece sono sopravvissuti, madre e figlio, ma per esser separati: inadeguatezza genitoriale, certo, ma non solo sua.

Bea invece è stata la donna di un potente dell’era berlusconiana, tempi affluenti che ancora rimpiange e che mette in scena nelle fasi maniacali del suo disturbo bipolare, e poi amante di un pregiudicato da quattro soldi per il quale ha perso tutto. Non ha figli, e la madre la considera tecnicamente una pazza e una rompicoglioni.

Avendone l’occasione, queste due donne sfortunate decidono di addestrare la loro effimera libertà “evadendo” dalla comunità, ma solo per rimbalzare contro le chiusure di parenti e conoscenti. Tutte esistenze molecolari e monadiche: l’ex marito di Bea barricato nel suo villone all’Argentario; la madre di Dona reclusa al capezzale del vecchio generale; l’amante di Bea agli arresti domiciliari. A differenza delle vite segnate, ma palpitanti e vere, nella comunità terapeutica che le ha ospitate e che è pronta ad accoglierle nuovamente, una volta terminata la loro “fuitina”, tanto finta da essere in maschera e da terminare sul lungomare di Viareggio, quello dei carri del carnevale.
Dice Virzì: «C’è un furto con destrezza (almeno speriamo) dal Tram che si chiama desiderio di Tennesee Williams e dal personaggio di Blanche che ha qualcosa in comune con Beatrice». Desiderio dovrebbe esser scritto maiuscolo, perché nella pièce – com’è noto – è il nome di un quartiere di New Orleans. Ma anche, forse soprattutto, perché è il Desiderio il vero soggetto, ciò che muove l’azione e rende forse possibile il riscatto esistenziale delle due protagoniste. In nome del desiderio di ritrovare sé stessa nell’affetto col figlio bambino, quasi inesorabilmente perduto, Donatella trova ancora la forza di cercarlo e di vivere. Lo rivede, quasi casualmente, ed anche stavolta il mare è testimone della loro vicenda: ma stavolta Dona riesce a lasciarlo andare ai suoi giochi, separandosene e facendone sanamente un lutto. E sempre in virtù del desiderio, per quanto già sceso a compromessi con la dinamica dei godimenti, Bea dissipa allegramente e insieme tragicamente sé stessa.

Per entrambe l’indipendenza non consiste nella fuga improbabile dal luogo di cura che le accoglie, talmente ben ritratto nelle sue articolazioni e nei suoi protagonisti che è difficile distinguere le attrici dalle pazienti reali che lo animano. Donatella e Beatrice comprendono infine, ammesso non lo sapessero al fondo fin dall’inizio, che la sola libertà possibile è nel farsi ritrovare, come nell’apologo kafkiano: uccellini ritrovati dalla gabbia. Perché è la comunità delle donne, disagiate ma accudenti, l’unica soggettività forte, il solo spazio nel quale possono esercitare davvero una libertà non illusoria, non precaria.