In questo numero

I buoni amici sono la chiave per essere medico. La frase che chiude il Summary della nota di Salvo Fedele (pag. 463) parla di fiducia e di equilibrio. Sono caratteristiche che concorrono a definire un medico bravo, onesto, capace. Appassionato del proprio lavoro ma non seguace acritico di mode o tendenze. Prudente, insomma, di fronte ai fervori che puntualmente si manifestano in ambito medico: la fede incrollabile nelle prove o nei trial randomizzati, poi nella medicina basata sul valore e ancora sulla precisione. «Il dottore che si occupa degli individui malati deve saper stabilire una relazione umana con il suo paziente, saper fare la diagnosi e saper indicare una terapia», ricordano con disarmante semplicità Luigi Pagliaro e Agostino Colli (pag. 472). Il risultato è tanto più a portata di mano quanto maggiore è la vicinanza col malato: nel caso di Giorgio Bert, la diagnosi arriva al terzo rigo (“È un ictus”) e la terapia al quarto (“Andiamo al Pronto” dice a Giorgio la sua compagna Silvana). Facile, perché in quel caso l’occhio clinico del medico coincide con quello del paziente. Giorgio si è scelto un’amica coi fiocchi e da quando lo conosciamo è stato esemplarmente prudente nel decidere a chi accompagnarsi. Di sicuro non ha accettato di correre il rischio di cui parla Paolo Vercellini (pag. 459): per ballare il tango occorre essere in due, leggevamo sul BMJ del maggio 2003 dedicato alle relazioni pericolose tra medici e industria. Ma alla mirada che viene lanciata al medico con cadenza più che quotidiana per far capire di voler danzare insieme non è impossibile volgere altrove lo sguardo. L’industria fa il proprio mestiere, sostiene Vercellini, e la maggior responsabilità cade dunque sulle spalle dei clinici e dei ricercatori che rinunciano alla propria indipendenza.

Ciononostante, «un medico ha l’obbligo e la necessità di essere un animale sociale», sostiene Fedele. Ma è sempre una questione di scelte. La rete nella quale ognuno è inserito ha un ruolo essenziale nell’orientare le decisioni, nel determinare quell’equilibrio per il quale riusciamo a giudicare quando «è troppo o è troppo poco». A essere animali sociali, avendo cura di scegliere bene con chi accompagnarsi, si ha solo da guadagnare perché «le persone sono molto più interessanti di quel che appaiono, e più relazionali, anche» ammette Bert anche a costo di contraddire la propria riservatezza. A propostito di socialità, sembra davvero che internet favorisca il moltiplicarsi delle relazioni e “in questi numeri” ne abbiamo conferma. Per essere animali sociali bisogna comunicare, «parlare di politica, di sport, di libri» ma anche – se non soprattutto – occorre leggere e scrivere. Perché è un esercizio di comunicazione con sé stessi e ci restituisce, agli altri, migliori.

In questi numeri