In questo numero

Tutti a guardarsi le dita della mano. Almeno i maschi. L’anulare è più lungo dell’indice? Bel problema: il rischio di cancro della prostata aumenta e non di poco. È una questione legata ai geni hox, che giocano un ruolo fondamentale nello sviluppo corporeo. Nell’utero, guidano lo sviluppo di organi come prostata e rene, ma anche delle dita. Ci sono diverse ricerche in corso che andranno a integrare i risultati di quelli già completati. Come accade su tanti altri fronti, “sono necessari ulteriori studi…”. Ciononostante, un’istituzione autorevole come la Cleveland Clinic ha dedicato a dita e prostata la propria newsletter di inizio autunno, probabilmente scatenando il panico tra chi ha l’anulare più slanciato. Cogliendo l’occasione per presentare nuovi test diagnostici, non senza avvertire che quello del cancro prostatico è un terreno minato da sovradiagnosi e overtreatment. Quale idea può farsi, da una panoramica del genere, un cinquantenne legittimamente non formato ad un critical appraisal medico-scientifico?

Un’idea poco chiara, probabilmente. In parte giustificata dall’essere, il decision-making in materia di cancro della prostata, una questione complessa. Lo ha confermato lo studio ProtecT i cui risultati sono da poco usciti sul New England Journal of Medicine: una ricerca ampia e rigorosa che offre un dato per certi aspetti spiazzante: qualsiasi opzione si scelga (tra monitoraggio attivo, chirurgia e radioterapia), la mortalità a dieci anni per cancro prostatico non cambia ed è (solo) dell’1%. Anche la mortalità per tutte le cause non è elevata.

Al di là di numeri rassicuranti, è necessario confrontarsi con una complessità irriducibile se non nel confronto aperto col malato. Non si può infatti non considerare che le tre coorti del ProtecT hanno visto diversi pazienti passare da un braccio dello studio a un altro, per scelta o per progressione di malattia. Inoltre, la preferenza per l’una o l’altra opzione è probabile sia influenzata dall’età, dalle aspettative o dallo stile di vita di ogni singola persona. Di fronte a un quadro del genere, lascia perplessi la scelta del National Institute for Health Research britannico che ha sintetizzato i risultati del ProtecT in un’infografica che riportiamo “In questi numeri”. Comunicare la salute è una questione delicata e le scorciatoie sono sconsigliate.

Come scrivono Carmine Pinto e Lucia Mangone, «ogni dato, preso di per sé, perde però di significato, se non lo si accompagna con la capacità di raccontarlo o collegarlo, dandogli un senso complessivo» (pag. 505). Senso che non può prescindere dal vissuto del paziente, anch’esso sempre più ricco e denso man mano che la consapevolezza del malato cresce e con essa la capacità di aprirsi al racconto di sé. L’esperienza delle “Persone con AIDS” – né vittime né pazienti – è esemplare ed è ben descritta dall’ampia rassegna curata da Enrico Girardi e da altri apprezzati clinici e ricercatori (pag. 525). Infine, quella di un paziente particolare come Paul Kalanithi è emblematica (pag. 551), ma storie simili sono in molte sale d’attesa d’ospedale e sono preziose non solo per chi le testimonia, ma anche per le reti di operatori che sostengono il percorso di cura.

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