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Un filo conduttore di diversi contributi pubblicati nelle pagine che seguono è la determinazione delle prove, la selezione delle evidenze. La riflessione di Iannone e dei suoi collaboratori sottolinea da una parte la considerazione di cui beneficiano documenti come le linee guida: «Godono di una fama di “infallibilità” per una vasta platea di utilizzatori, che le considerano al pari dei migliori trial clinici randomizzati e controllati. L’etichetta “evidence-based” contribuisce non poco a questa percezione». D’altra parte, però, «le linee guida evidence-based attualmente disponibili sono inaffidabili in almeno la metà dei casi, senza alcuna evidenza di miglioramento negli ultimi 20 anni». Conferme di questa evidenza giungono settimanalmente: l’ultima – non sarà più tale quando leggerete questa nota – arriva da un articolo di John Ioannidis uscito sul JAMA il 1agosto 2017 a commento della variabilità delle raccomandazioni sulla terapia per la riduzione dei livelli di colesterolo. Dagli Stati Uniti, dal Canada e da alcune nazioni europee sono state proposte guideline che forniscono indicazioni diverse che non possono che disorientare il medico più attento che provasse a tener conto di tutte. Tornando al problema generale, «le ragioni sono complesse, ma si possono principalmente ascrivere alla cattiva gestione del conflitto di interessi, ai metodi poco chiari di analisi delle evidenze e formulazione delle raccomandazioni e la scarsa rappresentatività dei panel di esperti di tutte le posizioni e punti di vista rilevanti per le linee guida di volta in volta prodotte», sostiene Iannone. Più a monte, il problema è nella cattiva qualità della ricerca pubblicata.

La peer review potrebbe giocare un ruolo positivo ma sarebbe necessario aprire la scatola nera, come sollecitano Ivan Oransky e Adam Marcus su STAT riprendendo un articolo di Carole J. Lee e David Moher uscito su Science con la data del 21 luglio 2017: «The problem is, we have scant research into how peer review functions at its job of keeping out bad science. Journals don’t devote sufficient attention to studying the quality of their peer review systems, nor do they make those data available to outside scholars». Tra le molte possibili soluzioni, una assai concreta potrebbe venire dalla proposta sintetizzata da Pierno, Fruscio e Bellani: riconoscere come titolo accademico il lavoro di qualità dei revisori migliori può motivarli maggiormente e può incentivare il coinvolgimento dei referee più affidabili, a tutto vantaggio della qualità della valutazione preliminare della letteratura scientifica.

L’intero sistema sanitario si basa sulle pubblicazioni, sia come supporto delle decisioni cliniche e di politica sanitaria, sia come elemento chiave per la determinazione delle carriere professionali: la produzione e la disseminazione delle informazioni scientifiche meriterebbero molta maggiore attenzione di quella che viene oggi riservata loro.

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