In questo numero

Istituzioni pubbliche, società scientifiche, fondazioni: tutte lavorano per migliorare le proprie attività di comunicazione. Almeno, dicono di provarci. I risultati sono più o meno convincenti, dalle campagne che alcune associazioni disciplinari portano avanti con industrie farmaceutiche (non mancano esempi paradigmatici di vere e proprie istigazioni alla sovradiagnosi e alla medicalizzazione) alle più ordinarie attività di comunicazione delle aziende sanitarie e delle Regioni, esposte alla variabilità di una pianificazione affidata a persone responsabili che cambiano di continuo. Anche la rete della Cochrane considera urgente una migliore organizzazione della propria attività di knowledge transfer, intendendo con questa espressione un insieme di cose in realtà molto ampio e poco omogeneo: dalla tradizionale – per Cochrane – preparazione dei cosiddetti plain language summaries (delle sintesi dei risultati delle revisioni sistematiche) alla più scontata pubblicazione delle revisioni stesse, alla disseminazione sui social network (da Facebook a Twitter, da Instagram a LinkedIn), dalla presentazione ai congressi alla preparazione di poster o di infografiche. Come si capisce anche dalla lettura della rassegna di Gianfredi et al. (pag. 374), il lavoro di comunicazione della salute e, in generale, della medicina, sta diventando sempre più complesso, ma non solo per il vero o presunto maggiore empowerment dei cittadini. L’emergere di nuovi media è in realtà una risposta alla necessità di inseguire un pubblico sempre più diversificato nelle abitudini di vita e nelle attitudini di interazione con l’informazione.

Il problema della comunicazione non riguarda soltanto enti e istituzioni ma anche il medico. Giorgio Bert si augura che trovi il tempo di andare al mercato, così da ascoltare di cosa parla la gente, cosa si confessano le persone, cosa si suggeriscono di comprare per poi cucinare, cosa temono possa esser dannoso per la loro salute. Sarebbe un salto epocale, forse all’indietro, per una medicina ridotta ormai a industria della malattia, come sostiene Victor Montori, medico e ricercatore della Mayo Clinic tra i più citati al mondo. Una medicina che si è ridotta a mercato dovrebbe dunque frequentarlo – il mercato, ma quello della gente e non quello della finanza – per recuperare il senso della propria missione, il significato originale della professione.

Altra grande distanza è quella che separa i ricercatori – meglio: i risultati della ricerca – e i decisori sanitari. È una vecchia storia: da che mondo è mondo, tradurre in politiche sanitarie, in raccomandazioni, in linee guida, in provvedimenti concreti i risultati della buona ricerca clinica è una missione impossibile. Le ragioni sono note: i tempi della ricerca non possono essere brevi mentre i tempi della politica non possono essere lunghi. Va aggiunto che i risultati della ricerca ci mettono spesso di fronte a prove che non ci rassicurano, a evidenze che la politica non può fare proprie a meno di ridurre il consenso a proprio favore. Gli esempi sono innumerevoli ma quello di cui parla Rodolfo Saracci nel suo Editoriale è di drammatica attualità. Gran parte dei cittadini è spaventata dai migranti, convinta che il numero delle persone giunte in Italia sia fuori controllo, che la presenza di stranieri sia legata a un aumento drastico della criminalità e che i migranti siano vettore di incontrollabili patologie.

La comunicazione è una cosa strana e più la si studia, più se ne coglie la complessità e la difficoltà di governarla. A pensarci bene, l’invito di scendere nella piazza del mercato per ascoltare la gente che Bert rivolge al medico sarebbe bene non arrivasse alle orecchie dei decisori politici: come scrive Dambisa Moyo nel libro segnalato nelle pagine di Dalla letteratura, la democrazia è una cosa delicata e sembra sempre più vulnerabile, esposta com’è agli istinti dei cittadini piuttosto che alla loro capacità di riflessione. L’ideale sarebbe se il servizio sanitario fosse guidato da politiche basate sulle evidenze e non sulla paura o sulla rabbia.

In questi numeri

a cura di Cristina Da Rold (freelance health & data journalist)