Cadere da vecchi

Rino Scuccato1

1Neurologo libero professionista, Vicenza.

Pervenuto il 4 luglio 2018.

Riassunto. Le cadute legate all’invecchiamento e alle patologie degenerative che lo accompagnano, spesso determinate da un’erosione dei riflessi posturali, sono un evento frequente e di grande impatto sulla qualità della vita della popolazione anziana. Esse possono innescare restrizioni di libertà, fino a istituzionalizzazioni definitive. Nelle case di riposo la normativa di sicurezza prende spesso il sopravvento su ogni altra considerazione e diventa fattore di sofferenza e oppressione. Le soluzioni farmacologiche – o comunque “mediche” – a questo problema incidono su una piccola percentuale di casi. Nella grande maggioranza, prima di arrivare alla perdita più o meno completa della libertà, contano misure preventive e di gestione del quotidiano, a loro volta molto influenzate dalle opportunità economiche a disposizione dei pazienti. Il medico (e in particolare il neurologo che opera nel settore pubblico territoriale) si trova di fronte a difficili problemi medici, umani ed etici. L’articolo illustra la problematica con un vissuto personale e alcuni casi clinici.

Parole chiave. Cadute, deambulatore, casa di riposo, fisioterapia dell’equilibrio, medicina difensiva, riflessi posturali, traumi da caduta.

Falls in the elderly.

Summary. The falls frequently occurring as a result of impaired postural reflexes, due to degenerative changes that accompany the aging process, have a great impact on quality of life in the elderly. Falls and the fear of falling can trigger restraints and limits to freedom, ultimately leading to definitive care from professional or other. In nursing homes, security regulations often predominate over any other consideration and become a source of suffering and oppression. Pharmacological or “medical” management of this condition is effective in only a small proportion of elderly individuals. In the vast majority of cases, preventive measures and daily activity management programs need to be implemented to avoid the partial or complete loss of personal freedom, though these highly depend on the available individual economic resource. Doctors, namely neurologists operating in public services of the territory, have to face difficult medical, human and ethical problems. This article reviews this issue in the light of personal experience and by the analysis of several case reports.

Key words. Balance physiotherapy, defensive medicine, falls, fall trauma, nursing home, postural reflexes, walker.

Il danneggiamento dei riflessi posturali

Tre anni fa sono salito al Rifugio Papa sul Pasubio, a quasi 2000 metri di altitudine, percorrendo la nota “Strada delle 52 gallerie”. L’ho fatto con una coppia di amici di una ventina d’anni più giovani. Lui, in particolare, è un atleta di inesauribili risorse: in grado di fare triathlon, maratone, free climbing, trekking estremi, bivacchi in condizioni proibitive. Conoscitore millimetrico del terreno, non è tuttavia la compagnia ideale per una classica gita domenicale. I super-performers della fascia quaranta-cinquanta non hanno nozione della normalità generale e molto meno di quella di un signore over sixty: il quale lotta onorevolmente contro la pancia, ma non ha trasformato la performance atletica in attività centrale della sua esistenza. Sa qual è il suo limite e non si sogna di sfidarlo. Arrivai ben provato, ma era solo un assaggio di quello che mi aspettava.

Ristoratici “al sacco” su una panca del rifugio e preso un po’ di sole, ci si mise sulla via del ritorno. Non lo abbiamo fatto per la tradizionale “Strada degli Scarubbi”, che in 2-3 ore riporta all’imbocco delle gallerie restituendo – più dolcemente e al sole − gli 800 metri di dislivello percorsi in salita e spesso nel buio di lunghe e umide gallerie. Abbiamo deciso di scendere − dopo un’ulteriore risalita – per un’altra via, nella Valle del Posina, dove avevamo lasciato in precedenza un’auto ad aspettarci.

A parte il più lungo percorso, la differenza di altitudine (in discesa) in questo caso è di almeno 1500 metri, senza contare le impervietà. Per lunghi tratti ci si deve fare strada nel letto di torrenti; e per fortuna che a quell’epoca li trovammo in secca. Non mi dilungherò sui momenti critici di questa avventura. Rievoco solo l’ultimo chilometro, con la strada asfaltata in vista tra il fogliame dei frassini qualche decina di metri più in basso. Andavo su un sentiero ben tracciato e privo di evidenti insidie. Ero disfatto dallo sforzo fisico. Non solo certi gruppi muscolari non obbedivano quasi più al comando motorio; soprattutto avevo la sensazione che non c’era più il controllo sul mio baricentro. A un certo punto una dislocazione in avanti o all’indietro del tronco, un movimento troppo brusco di un arto inferiore, uno scatto della spalla per schivare un ramo trasformava il mio corpo in un turacciolo in balia di un vortice.

Cominciai a cadere. Rialzarmi diventava difficile come mai avrei creduto; era tutt’altro che spontaneo trovare un assetto di equilibrio da cui ripartire. Lo dovevo fare per tentativi, e sempre più gli amici mi soccorrevano. Notai che più avanti il mio procedere aveva delle note atassiche (cioè tendevo a camminare su base allargata e calcando un po’ i talloni) ed era rigido: mi muovevo “monoblocco” senza fluidità. Le cadute non sorprendentemente si ripetevano, e adesso un nonnulla le scatenava: due-tre sassolini su cui scivolava la suola della scarpa, una radice di traverso su cui battevo con la punta, un piccolo avvallamento – dieci-quindici centimetri – che non avevo provveduto a saltare in lungo. Dopo alcuni minuti non ero più padrone di me. Mancavano ormai poche centinaia di metri allo sbocco del sentiero, ma mettevo in conto che li avrei percorsi a singhiozzo, tra una caduta e l’altra. Fu così. Per fortuna il fogliame al suolo attutiva tutto, ci furono solo modeste ammaccature. Ma l’esperienza di aver perso una funzione fondamentale del movimento, l’equilibrio posturale, cioè la regolazione del baricentro per gioco muscolare inconscio, mi diede un senso di frustrazione, impotenza e panico.

Quando mi fu concesso il tempo di riposare, mi resi conto che l’equilibrio interno si stava ricostituendo. Dopo un’ora non c’era più nulla di quella brutta esperienza, e dopo altri 3 anni (scrivo avendone quasi 67) l’integrità dei miei riflessi posturali si è erosa assai poco: tuttavia devo stare attento quando scavalco la sella per salire o scendere di bicicletta; sfilarmi i calzoni su una gamba sola non è più possibile se l’indumento è attillato.

Mi sono spiegato l’episodio di “crollo dei riflessi posturali” come un fatto para-fisiologico. Speculo che una discesa così strenua abbia dato fondo a tutte le risorse dei centri cerebellari, ganglio-basali e corticali che regolano attraverso la ridistribuzione della contrazione muscolare la manutenzione della stazione eretta. In assenza di questa coordinazione motoria gli umani cadrebbero continuamente a terra ogni volta che viene applicata loro una forza, sorga essa da un movimento volontario del soggetto o venga da fuori (una spinta, un inciampo). Ho capito in quella riflessione quanto fosse sciocca la mia domanda ai pazienti che venivano in ambulatorio per cadute: “cade da solo o deve inciampare?”. Cadere per inciampo non è affatto normale (oltre un certo limite di volume dell’ostacolo, di repentinità della sua comparsa, e di incapacità sensoriale di individuarlo): i riflessi posturali sono montati esattamente per compensare i mille piccoli momenti di instabilità imprevista del nostro quotidiano.

Speculo che come per altre sovra-stimolazioni di funzioni cerebrali, dopo un’intensa exertion si instauri un transitorio deficit, se non un blocco della funzione. Spiegare il tutto con la stanchezza non porta molto lontano. I miei muscoli statici a volte cedevano, ma era sconcertante come l’intero apparato motorio non avesse alcuna reazione e lasciasse il corpo abbattersi al suolo: andava dietro – tra il mio sgomento – come le fronde di un albero segato al tronco. Questa riflessione fa venire in mente un’aspra polemica di Jackson contro chi “spiegava” che la paralisi post-epilettica era dovuta alla perdita di coscienza. In altre parole – si diceva con apparente buon senso –, il paziente colpito dalla crisi non reagisce perché in coma. “Spiegazione che non spiegava nulla”, ribatteva il grande medico: la ragione vera andava trovata nella tempesta elettrica che si abbatteva sui centri che regolano sia la coscienza che il movimento. Entrambe le funzioni erano azzerate e non la seconda in conseguenza della prima.

Nel mio caso, l’improvvisa invalidità era solo in parte debolezza, in proporzione anche maggiore era messa fuori combattimento – per fortuna di breve durata – di centri alti. Questo incidente del tutto benigno è stato in seguito istruttivo per la mia attività ambulatoriale. Mi ha infatti permesso di capire – rivisitandolo dall’interno, con un mio vissuto – cosa vive un paziente, di solito anziano, quando alcune malattie, o la semplice condizione di vecchiaia, gli danneggiano severamente i riflessi di raddrizzamento e comincia ad aprirsi nella sua vita l’oscuro capitolo delle “cadute”.

Si può cadere per molte ragioni e i manuali di infermieristica ne danno liste generose. Non a caso. Almeno per le cadute che si verificano in contesti di assistenza (ospedali, cliniche, case di riposo) gli infermieri – e gli operatori – sono in prima linea: i primi a essere chiamati e a prestare soccorsi (il principale dei quali è rimettere in piedi la vittima). I primi a dover giustificare se hanno messo in opera tutte le misure per ridurre il rischio, e quindi prevenire l’incidente. Esistono numerose scale che classificano i pazienti anziani in funzione del loro rischio di caduta, e quindi del livello di sorveglianza che deve essere applicato. Le implicazioni di rivalsa legale per certi casi, e di medicina difensiva come risposta a questa minaccia, sono bene intuibili.

Il neurologo che non lavora in ospedale ha di solito a che fare con familiari allarmati che portano in visita un loro vecchio congiunto, ai cui acciacchi senili si è aggiunto un evento drammatico: il padre, il coniuge, la nonna, il vecchissimo zio… hanno “cominciato a cadere”. L’affermazione è sempre documentata da verbali di pronto soccorso, che testimoniano i danni secondari all’impatto. Esso avviene a volte in condizioni rovinose, come una caduta di schiena giù per le scale, un inciampo all’uscita dalla vasca da bagno, con impatto frontale, ecc. Gli esiti del trauma possono essere severi come fratture maggiori (collo del femore, bacino, vertebre, spalla; massiccio facciale) o lesioni intracraniche (molto comuni gli ematomi subdurali): sono nuove condizioni morbose, da trattare in ogni caso con interventi, ricoveri in ospedale o protratte immobilizzazioni, che si aggiungono al carico di malattie in persone già fragili. Spesso – se non vengono superate – danno il colpo di grazia al mantenimento dell’autonomia personale. In certe malattie degenerative (in primo luogo la malattia di Parkinson), una grave caduta con chirurgia e immobilizzazione può essere seguita da uno scompenso neurologico, per cui la terapia che fino a quel momento funzionava deve essere ri-dosata all’insù: come se la “riserva” cellulare del paziente si fosse all’improvviso assottigliata. È opportuno ricordare – è un esempio celebre – che l’ex-cancelliere tedesco Helmut Kohl, ritiratosi a vita privata dopo il suo siluramento, ma ancora mentalmente ben attivo (in particolare deciso a prendersi le sue vendette su Angela Merkel che lo aveva fatto fuori), fu distrutto da una caduta che originò un trauma cranio-encefalico catastrofico. A quella lesione sopravvisse dodici anni, portatore di una cannula tracheale, severamente diminuito nelle condizioni motorie e psichiche.

Un piccolo campione di casi

Dolores, 89 anni

Operata di endoarteriectomia alla carotide destra, è in terapia antiaggregante. È una vecchietta fragile, ma mentalmente molto viva. Cade di continuo da sei mesi, senza vertigine. Ha anche parestesie distali, con dimostrazione elettromiografica di una polineuropatia mista assonale e demielinizzante, sensitiva e motoria. Cammina su base allargata, frammentando il giro nel cambio di posizione. Il pull-test è disastroso. Spiego che non ci sono farmaci per questo problema, bisogna “gestire l’instabilità” con un insieme di misure che passo a elencare.

Benito, 85 anni

Viene da me perché ha avuto parecchie cadute all’indietro, senza vertigine né sintomi lipotimici: si ritrova per terra, ecco tutto. Ex-industriale, col culto del lavoro e del potere dittatoriale, si capisce, esercitato da lui. Gran fumatore coi polmoni in rovina, ha bisogno spesso dell’ossigeno. Anche così, guida l’auto. Neurologicamente dirlo scattante è poco: “non sopporto le persone lente”, mi dice. Però… i riflessi posturali sono andati. Non gli piace, ma l’unica medicina che ho da prescrivergli si chiama deambulatore.

Il neurologo che affronta in ambulatorio questi problemi si trova davanti all’implicita richiesta di trovar loro una soluzione farmacologica. Ora, non solo non esiste alcun medicinale con azione diretta sui riflessi posturali, ma le condizioni in cui un intervento farmacologico indiretto ha qualche efficacia si contano sulle dita di una mano: cadute in occasione di vertigine (ammesso che a sua volta la vertigine degli anziani sia trattabile), in occasione di ipotensione grave, e – nella malattia di Parkinson – in caso di “congelamento delle gambe” (freezing) in stato di off: cioè quando l’ammalato si trova in un periodo non coperto dalla terapia, e si blocca con i piedi inchiodati al suolo, rischiando di schiantarsi in avanti. Anche le cadute in un paziente con idrocefalo normoteso potrebbero avere una soluzione, se non farmacologica, “tecnica”: una puntura lombare evacuativa o un più stabile drenaggio mediante valvola. In tutto il resto (in particolare, per il neurologo, una malattia di Parkinson avanzata, oppure un parkinsonismo atipico, con in testa la non rara paralisi sopra-nucleare progressiva, o una severa encefalopatia vascolare), non c’è nulla che si possa prescrivere con razionalità al fine di limitare le cadute.

Si può solo “incanalare” l’ammalato verso centri fisioterapici con esperienza in questo campo, dove vengono attuati protocolli di ri-apprendimento dell’equilibrio, esercizi di rafforzamento muscolare, addestramento a rialzarsi in piedi (la metà di chi cade resta al suolo e deve essere risollevata da altri), apprendimento di movimenti di emergenza in caso di “crisi” di equilibrio; infine, istruzioni e pratica per il corretto uso del deambulatore. Si tratta di un’area immensa di domanda, cui le nostre strutture pubbliche non sono in grado di rispondere. E così tocca al medico fare involontariamente il macellaio sociale: separare chi (forse) si salverà – grazie al censo che gli permette di usufruire di servizi privati – da chi sarà sommerso, perché il settore pubblico lo abbandona a se stesso.

La caduta (specie quella grave, con lesioni ossee e delle parti molli ben documentate) è un evento catastrofico, produttore di effetti a distanza: il malato dopo tale incidente non è più quello di prima. Terrorizzato dal ripetersi di tale evento, riduce il suo range di azione, si chiude in sé, si confina in spazi ristretti, si indebolisce da un punto di vista muscolare e delle stesse capacità di regolare il suo equilibrio. Non di rado questo cambiamento delle abitudini di vita genera alterazioni comportamentali di depressione o aggressività non più tollerabili a chi gli sta vicino. La via della casa di riposo è aperta. Varie statistiche mostrano come una grave caduta è il singolo più importante fattore che determina l’istituzionalizzazione degli anziani.

Altri anziani – colpiti cognitivamente e sprovvisti della consapevolezza di malattia – si riespongono al rischio con temerarietà. I parenti sono spesso sconvolti, vivono “in fibrillazione”. In questi casi il neurologo si trova nella posizione di operare una sorta di macelleria farmacologica: sarà preferibile tenere un malato di Parkinson sotto-dosato con la levodopa, al fine di ridurgli l’iniziativa motoria, e se questo non basta si finirà per “domarlo” con psicofarmaci. In ogni caso questa guerriglia non durerà a lungo, e le porte dell’Istituzione non tarderanno a chiudersi alle spalle di chi alla perdita dell’equilibrio aggiunge la anosognosia.

Davanti al rischio di caduta, sia il paziente lucido o inconsapevole, la Casa di Riposo agisce con ferocia, mascherata dietro a norme e protocolli: la paura in questa istituzione è principalmente del personale – dall’amministrazione agli operatori –, tutti terrorizzati dalle conseguenze legali, se i familiari di un ricoverato imputano all’Istituzione un abbandono di assistenza o se una caduta ha conseguenze tali che il magistrato viene ad avere un’informazione di reato. La “Sanità difensiva” qui si scatena in parossismi e crudeltà. Il minimo dubbio sulle capacità di equilibrio del paziente determina il confinamento in carrozzella, con tavoletta e/o cinghie di fissazione. Si può immaginare lo stato d’animo e la reazione psicologica di chi – incomprensibilmente –, vede la sua vita ridotta a meno che una gabbia. Un luogo di soccorso e cura dei deboli diventa così in certi casi uno spazio di tortura e disperazione.

Il caso di Piergiorgio

Il caso di Piergiorgio esemplifica questa catena di eventi. Il paziente è una persona di cultura universitaria, che per molti anni è vissuto di consulenze a grandi imprese. Verso i 68 anni Piergiorgio si scopre una malattia di Parkinson, che viene seguita in ambulatorio da un conosciuto professionista. Per circa 4 anni, accompagnato con competenza, le cose gli vanno discretamente da un punto di vista motorio. A 72 anni, tuttavia, accade un incidente ancora inspiegato: Piergiorgio si trova solo nella sua grande abitazione, e per alcuni giorni non dà segni di sé. Vengono chiamati i pompieri che lo trovano riverso al suolo in stato di confusione e profondamente disidratato. È condotto in ospedale dove un po’ di liquidi endovenosi e una colazione lo riportano a una condizione perfettamente normale. In attesa che si facciano vivi eventuali familiari, lo si dirotta in una casa di riposo. Lì rimarrà 40 giorni, legato alla carrozzella perché sarebbe arrivato con l’informazione di essere gravemente instabile nell’equilibrio. Uomo che aveva pieno controllo sulle sue funzioni corporali, viene vestito con pannoloni e invitato a scaricarvi le sue eliminazioni – liquide e solide – dato che l’accompagnamento in bagno a ogni chiamata sarebbe stato troppo oneroso, oltre che fonte di pericoli. Più rapido e sicuro il cambio di assorbenti. Da questo inferno viene sottratto da un parente di secondo grado che lo va a visitare e organizza il trasferimento presso la clinica dove lavoravo. Qui, semplicemente riportato a un normale livello di dignità umana, Piergiorgio recupera tutta la sua autonomia, mostrandosi quello che è: una persona sola, mite, colta e sfortunata. Il trattamento della sua malattia, che fino ad allora non ha mai intaccato l’equilibrio, viene aggiornato. Pier Giorgio è dimesso e torna alla sua vita solitaria. Lo trovo pochi mesi prima di scrivere queste righe – 75enne – a fare lunghe passeggiate in città.

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.