Libri

Filosofia e medicina
«La filosofia è una disciplina
del domandare e del ricercare.»
Hans Georg Gadamer
Attualmente, accanto al predominio scientifico-tecnologico, si assiste – con un sorriso di sollievo – a un ritorno del richiamo alla filosofia nell’ars medica. Il prendersi cura dell’altro, sofferente, non si risolve in toto nell’approccio obiettivante al “caso” clinico; con un consapevole transito antropologico dal poetico al patico, dalla tecnica terapeutica all’arte della cura, ci si viene a confrontare con l’irriducibilità del soggetto, con la singolarità della persona, con l’irripetibilità della sua storia e del suo destino (“vita e destino” come dice il grande romanziere russo Vasilij Grossman). Forse è per questo motivo che, dagli albori della nostra cultura occidentale, il dialogo medicina-filosofia è stato incessante, in un va-e-vieni dialettico fecondo e stimolante, dal kantiano “conflitto delle facoltà” all’attuale contesa tra psiche e soma, tra natura e cultura, tra iatrìa e teknè, tra cura delle passioni come pratica filosofica e psicoanalisi come antifilosofia.
Un docente a “La Sapienza” romana, ci offre ora, nella collana di Mimesis diretta da Mario Galzigna, un denso volume “on the boundaries” (per dirla con le parole di Paul Tillich), sulla linea di confine, di conflitto, di contesa per il predominio sulla regione comune del negativo nell’esistenza umana, dall’unde malum al regimen sanitatis: Massimiliano Biscuso: Filosofia e medicina. Una comune regione. Pagine 196. Mimesis, Milano 2009. Euro 17,00. ISBN 9788884839268). Da Ippocrate alla Stoa, da Agostino a Émile Durkheim, dalla tecnomedicina dell’informatica alla riscoperta della pratica filosofica come cura dell’anima: appunto, concordia discors di sofferenza e malattia, di nosémata del corpo e pathémata dell’anima.
Il percorso di Biscuso, molto valido epistemologicamente e dal denso ordito storico, sbocca nell’ampio delta della cosiddetta “pratica filosofica”. Questa nasce trent’anni fa con Gerd Achenbach, ponendosi come alternativa al counseling psicologico e alla psicoterapia; alternativa che dai tempi pionieristici dell’israeliana Shlomit Schuster, attraverso la magistrale figura di Ran Lahav e i ricchi contributi di Peter Raabe e di Neri Pollastri, si pone oggi in modo sempre più suasivo, come il tertium datur nel dialogo incessante tra psichiatria e psicoterapia. Qui il programma di medicina narrativa alla Columbia University (dove nel 2002 Susan Sontag lesse il suo “Davanti al dolore degli altri”), la malattia come metafora, la demistificazione dell’esperienza della sofferenza, confluiscono, come ha ben visto Romano Màdera, nell’analisi biografica a orientamento filosofico. Come non ricordare, a tal proposito, la filosofia di Seneca come terapia dell’anima, propostaci qualche tempo fa da Giovanni Reale? Ben a ragione Biscuso, nelle ultime pagine del suo libro (173-178), critica il processo di crescente “colonizzazione” della natura umana da parte della ragione, come pur dubita della heideggeriana lettura di Umberto Galimberti (“La casa di psiche”, 2005) che oppone la psicoanalisi alla pratica filosofica, proprio come egli vede la visione giudaico-cristiana in contrasto alla visione greca del mondo.
A me pare, invece, che il rapporto tra psicoterapia e consulenza filosofica debba essere una relazione di cooperazione, di concorrenza dialettica. Trattare i problemi dei nostri consultanti non soltanto medicalizzandoli, ma dispiegandoli nei termini delle loro visioni del mondo, chiarendo (insieme) i significati e le implicazioni filosofiche del loro atteggiamento verso se stessi e verso il mondo: è proprio questo che giustifica e sostiene un philosophical counseling. Una difficoltà della consulenza filosofica è che essa si propone più o meno esplicitamente il superamento (oltre-passare) dello stato psicologico dei consultanti, evitandone così le difficoltà. Mi pare che qui la “storia interiore di vita”, di Binswanger, superi davvero la visione medica dell’anamnesi ma, nel contempo, venga a superare la forma di un prendersi-cura dogmaticamente orientato, dichiaratamente non-professionale, come Thomas Szasz sostenne vent’anni fa a proposito della follia (il “Mito della malattia mentale” è del 1974).
È certo che l’ascolto empatico è di grande aiuto a coloro che soffrono e che una relazione faccia-a-faccia con un filosofo che funga da guida sembra essere necessaria in situazioni che generano confusione o provocano dolore o sono così complesse che una persona da sola non può comprenderle e/o gestirle.
Non abbiamo soltanto bisogni medici, sessuali, religiosi, artistici ma abbiamo anche, più o meno consapevolmente, bisogni filosofici: ecco affacciarsi la figura dell’operatore filosofico, sia pure in una cornice non clinica, parente più o meno stretta della terapia esistenziale, di quella cognitiva, logoterapica, relazionale. Lo psicoterapeuta clinico, più che di una laurea in filosofia, ha bisogno di una “conversione” filosofica, assimilabile a quella che hanno vissuto Jaspers, Minkowski, forse Michel Foucault e anche Oliver Sachs (penso a “Risvegli”, di vent’anni or sono). Più che terra di nessuno, e lo dice chiaramente l’autore del volume che ho letto con piacere e coinvolgimento (anche emotivo), questo counseling ricade all’interno della tradizione ontica e moderna della filosofia “confessionale” (Marco Aurelio, Agostino, Vico, Rousseau, Barthes e, tra i recentissimi, Nozick). Va considerato anche che, se la filosofia vuol tornare alla sua specifica vocazione di cura dell’anima, come dice Biscuso nel suo bel capitolo “In principio era la cura”, è necessario che si integri con la psicoterapia a impostazione naturalistica e con la riscoperta della “cura di sé”, come ci hanno indicato Victor Franckl e, poi, Marta Nussbaum, Pierre Hadot e, soprattutto, Gerd Achenbach.
Un’altra forma di consulenza filosofica che viene alla luce è il “discorso socratico”, proposto alcuni decenni fa dal tedesco Leonard Nelson e oggi sostenuto vigorosamente dalla British Society for Consultant Philosophers, proprio in senso neo-kantiano (non posso qui non ricordare il “Menone” platonico come prototipo del discorso socratico).
Con Biscuso ben sappiamo che la consulenza filosofica è ancora ai primi passi, ma il suo valore educativo è certo.
Un consultante impara dagli incontri col philosophical counselor a mettere in questione, a ripensare le proprie problematiche, anche negli incontri di gruppo (oggi sempre più sollecitati e in espansione) che interessano i propri stati mentali e le proprie emozioni, i propri convincimenti e le proprie valutazioni: ci si possono schiudere nuovi modi di pensare e, soprattutto, libertà dal pre-concetto, dal pre-giudizio, dalla pretesa di sapere tutto di sé.
Come diceva Herbert Marcuse, se la filosofia divenisse terapeutica, entrerebbe effettivamente in possesso del proprio regno. Ludwig Binswanger, mettendo l’accento sulle questioni riguardanti l’amicizia e l’amore, ci ha riaperto questa via maestra, che ci era stata indicata oltre venti secoli fa dal sofista Antifonte, e che ora ci ripropone, con mano sapiente e con sguardo penetrante, Massimiliano Biscuso. Dopo aver letto questo libro, circa l’uomo di oggi e di domani, mi sono più aperto alla speranza di quanto non lo fossi prima, quando mi sentivo soltanto medico. Ciò vale per ogni collega, giovane o meno.

Bruno Callieri
Le emozioni ferite
«L’intelligenza sta alle emozioni
come i vestiti stanno al corpo:
non potremmo avere vita civile senza vestiti,
ma saremmo in una ben triste condizione
se avessimo vestiti e non corpi»
Alfred N. Whitehead
Vi sono libri sapienti che parlano all’intelletto, alla mente, ed altri – fervidi, roventi – che vanno dritti al cuore e lo trafiggono a volte, e nell’anima lasciano cicatrici destinali. Sono questi gli scritti di Eugenio Borgna, circoli tematici omogenei e sempre differenti, secondo un  codice ben proprio, ma che conquista e interpella universalmente, come sottolinea una citazione di Mario Trevi, che il nostro Autore riporta nel suo ultimo, recente saggio (Eugenio Borgna. Le emozioni ferite. Pagine 220. Feltrinelli, Milano 2009. Euro 17,00. ISBN 978-88-07-10447-3): «L’immedesimazione è la fonte della comprensione; e questo dilata i confini dell’empatia; ... [essa] non può nemmeno essere sradicata dalle sue correlazioni tematiche e formali con l’intuizione e con l’intelligenza». Come aveva presagito Gilbert Keith Chesterton: «Comprendere non vuol dire solo sentire con quelli che sentono, quanto soffrire con tutti quelli che soffrono». Le emozioni – aggiunge Borgna – «sono portatrici di una conoscenza che si trascina nel cuore di esperienze di vita talora sanguinanti, esperienze psicotiche condizionate dai bagliori dell’angoscia e della disperazione».




Alcune di queste esperienze sono delineate nella seconda parte del libro: parlano il linguaggio della solitudine, del silenzio e dello sguardo, della memoria, e dell’oblio. Sono ferite dell’anima che si ritrovano anche in testi narrativi e poetici che metaforicamente le rivivono e le ricostruiscono. Come quelle che il lettore riscopre nelle pagine conclusive: ferite espresse dall’angoscia psicotica, che – nella lirica di Hölderlin – risplende quale destino di grandezza e follia; e – nel divorante verso di Clemente Rebora – si fa grido esistenziale, latente in ciascuno di noi dinanzi alla finitudine.
Qui l’Autore recupera, fedele alla tanto sofferta ispirazione, la rabdomantica concordanza tra dolore della psiche e bagliori della speranza che lampeggiano nella condizione umanissima della poesia (la fortunata sorella della follia).
Così, in ogni capitolo del libro – come ne “L’arcipelago delle emozioni”, ne “Le intermittenze del cuore” e nel più recente “Come in uno specchio oscuramente” – tornano gli umbratili, a volte struggenti, richiami alla Dickinson, a Rilke, alla Hillesum, all’amatissimo Tralk, accanto a quelli del magistero scientifico-fenomenologico dei Binswanger, Bleuler, Jaspers, Minkowski. Concordanza, si è detto, e non corredo o analogia; poiché c’è, in Borgna, una immersione intensissima (e convincente) nella cultura dell’incontro personale, della partecipazione all’altrui destino: ripudio della diversità – la “falsa rassicurazione” – a favore di una ermeneutica libera da confini di sapere. Donde emerge, giustappunto, la risorsa del patico, delle emozioni (ferite o interpellanti) convissute in purezza; l’impellenza del prendersi-cura nel silenzio: – «non giudicare la qualità del soffrire invisibile agli altri, ed invece accoglierlo e rispettarlo» (pag. 119) – balsamo del compatire, del sorriso, delle lagrime, di uno sguardo.
Certo, a chi scrive, queste pagine dedicate al silenzio – alla sua cifra enigmatica, all’ascolto del suo timbro, alla ricerca della brace della speranza (la parola) sotto le ceneri della disperazione – e quelle dedicate allo sguardo – «quando con li occhi li occhi mi percosse» (Purgatorio, XXXIII, 18) – risultano di alta incandescenza espressiva, paradigmi magistrali di conoscenza emozionale («gli occhi non solo vedono, ascoltano»), cui ogni operatore di salute mentale dovrebbe fare riferimento.

Del tutto originale nella produzione del Borgna è il capitolo sulla gioia (“Il tempo della gioia”). Così esso ci viene presentato: «[Finora] non mi [ero] mai confrontato con una riflessione fenomenologica su di una forma emozionale di grande significazione umana e psicologica come è quella della gioia, che non può essere identificata con la felicità e che nei suoi fulgori, e nelle sue torsioni, si costituisce come una struttura fondamentale della vita...».
Il capitolo è breve (una ventina di pagine) ma assai denso e prezioso di suggestioni: tra le quali – fondanti – l’intemporalità, l’immediatezza, l’irrevocabilità(Rilke). Ma altri aspetti nell’analisi fenomenologica del tempo nella gioia si possono delineare: il futuro viene dimenticato e le speranze sembrano realizzarsi tutte; e si dimentica anche il passato, le sue significazioni oppressive e fantasmatiche. La gioia è un’emozione friabile ed effimera: come la stella mattutina che si intravede, e poi scompare, tra la notte e l’alba. Qui, ancora una volta, una trepida commozione autoriale contagia il lettore d’un rapimento estatico ed insieme umanissimo, quale potrebbe provarsi mirando un preziosismo artistico di Murano: compresenza di bellezza e fragilità. Nostalgia dell’infinito, quella che Etty Hillesum ha saputo far sgorgare da un diario in un campo di concentramento: «Ma cosa credete, che non veda il filo spinato, non veda i forni, non veda il dominio della morte? Sì, ma vedo anche uno spicchio di cielo e questo spicchio di cielo ce l’ho nel cuore e in questo spicchio di cielo che ho nel cuore io vedo libertà e bellezza... Non ci credete? Invece è così».
Con ribadita coerenza, in questo excursus singolare ed iridato (da Teresa d’Ávila a Schiller, a Beethoven), Borgna ci cautela di fronte alla razionalità necessitante dell’anamnesi clinica – non di rado appropriatamente surrogabile con i vissuti del sentire – e ci esorta alla ricerca di senso in ogni singola narrazione, in ciascuna umana esperienza. Magnum opus et difficile, a conferma dell’intuizione baudelairiana, secondo cui bisogna avvalersi dei libri per comprendere la vita e della vita per comprendere i libri.
E dunque, – concludendo – quanta riconoscenza gli dobbiamo per la ricchezza che ci ha donato la lettura di questo libro e per la consonanza dell’incontro – antico, amicale – con tutta l’opera Sua: magistero di scienza, testimonianza di umanità?

Francesco De Fiore
Infezioni in pediatria
«Batteri e uomini
non riconoscono obblighi reciproci
e non hanno interessi comuni.»
M.D. Grmek
Nonostante l’avanzare dei Kindle®, e la tentazione rappresentata da queste protesi di lettura che Hans Magnus Enzensberger definisce, con una punta di sufficienza, “macchine mangialibri”, ma delle quali non può fare a meno di sottolineare la praticità di impiego (peso: 300 grammi, memoria 256 mb espandibile, 170.000 libri ed ogni tipo di rivista consultabili immediatamente e, in più, un motore di ricerca, un dizionario ed un altoparlante) e nonostante che le generazioni emergenti di studiosi e studenti adoperino tali “macchine” con disinvoltura ormai irrinunciabile, i nostri colleghi continuano, impavidi, a pubblicare i tradizionali, grossi manuali cartacei di istruzione, gli arcaici (?) trattati, “bibliosauri” dei nostri banchi universitari.



Ecco – infatti – l’oneroso tomo, a cura di Samir S. Shah (con ben 116 autori): Pediatric practice: infectious diseases. Pagine 806. Mc Graw Hill, New York 2009. Dollari 84,95. ISBN 13:978-0-0714-8924-9. Esso fa parte, come trattazione di area specialistica (l’infettivologia) di una serie ormai affermata – “Pediatric practice” – quale utile risorsa didattica per specializzandi, pediatri, medici di famiglia, operatori di pronto soccorso e anche esperti in malattie infettive. È opera a più mani e polivalente, proveniente da ambiti universitari ed ospedalieri e non limitata alla Scuola statunitense: 10 autori sono di diversa nazionalità. Questa virtù cosmopolita ha, come ogni medaglia, un suo rovescio, che consiste in una certa discontinuità, non soltanto di “format” (ci sono capitoli di 5 pagine e altri di 20 e più), ma, anche, di livello qualitativo. Il libro è diviso in 19 sezioni che comprendono 71 capitoli. Comincia con una rassegna di carattere generale: i segni e i sintomi ordinari e più frequenti della patologia infettiva; seguono dieci sezioni, dedicate ciascuna alle infezioni dei diversi apparati e dei singoli organi. Si conclude (altre 8 sezioni) con le problematiche speciali: ad esempio le infezioni perinatali, quella da HIV, eccetera (manca, ovviamente, ogni riferimento all’A/H1N1). Per quanto riguarda la struttura contenutistica, i capitoli – pur con le variabili suaccennate – tendono a serbare una sequenza comune: definizione, epidemiologia, patogenesi, presentazione clinica, diagnosi differenziale, diagnosi asserita, test laboratoristici di verifica; sono molti (ma avrebbero potuto utilmente essere di più) gli algoritmi che sintetizzano i diversi interventi di trattamento, completati, comunque, da fruibili tabelle di farmacoterapia; il corredo di cromoiconografia è di eccellente scelta e realizzazione grafica. Mentre c’è una giusta dose di pagine dedicate alla prognosi delle varie patologie, non egualmente può dirsi a proposito di una importante area di intervento, quale quella della prevenzione; e in una sola pagina (pagina 56) una tabella riepiloga il tema dell’isolamento in ospedale, tema che, recentemente, ha suscitato non unanime consenso da parte della letteratura, alimentando un interessante dibattito sulla sua utilità pratica (cfr, ad esempio, l’articolo di Kirkland, su Clinical Infectious Diseases 2009; 48; 76: Taking off the gloves: towards a less dogmatic approach to the use of contact isolation).
Tuttavia, pur tenendosi volutamente alla larga da caratteristiche controversiali per restare il più possibile fedele alle dichiarate finalità didattiche, non di rado il trattato si rivela di impervia lettura: ad esempio, troppi acronimi e troppo poche spiegazioni in extenso (si vedano l’ultimo paragrafo a pagina 243 e il paragrafo 10 a pagina 573, oltre alle numerose lacune rilevabili nelle tabelle). E poi, dal troppo poco si arriva all’eccesso opposto. Il lettore si trova di fronte ad una torrenziale esposizione di terapie: non sarebbe stato più consono – e più utile alla pratica clinica nell’era della EBM – una selezione ragionata delle diverse opzioni di trattamento, graduata da esperienze autoriali, da linee-guida e dalla letteratura più accreditata? Ciò avrebbe contribuito a lenire una conseguente distonia della bibliografia: vi sono, infatti, capitoli con un corredo di 5 referenze ed altri con 80; e non vi è alcuna citazione di letteratura online.
In conclusione – e non per indulgenza corporativa – non sconsiglieremmo l’acquisizione di questo “Pediatric practice: infectious diseases”; però raccomanderemmo di affiancarlo ad altri testi. Lo vedremmo benvenuto in uno scaffale in compagnia di una nuova edizione del Nelson e del “Red Book” dell’American Academy of Pediatrics Committee on Infectious Diseases.

Caterina Roghi