Emergenza di un nuovo virus dell’influenza A (H1N1) di origine suina

Recentemente sono stati identificati alcuni casi di infezione con un virus influenzale A (H1N1) che presenta un triplo riarrangiamento del genoma contenente geni provenienti da virus dell’influenza aviaria, suina e umana che era stato identificato negli Stati Uniti fin dal 1998 (Olsen CW. The emergence of novel swine influenza viruses in North America. Virus Res 2002; 85: 199) e denominato virus influenzale A (H1N1) di origine suina (SOIV, secondo l’acronimo di uso internazionale: “swine origin influenza virus”).



Un gruppo di studio dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC) degli Stati Uniti ha riferito sulle caratteristiche epidemiologiche e cliniche di questo virus rilevati in 642 casi confermati (Novel Swine-Origin Influenza A (H1N1) Virus Investigation Team. Emergence of a novel swine-origin influenza A (H1N1) virus in humans. N Engl J Med 2009; 360: 2605).
Gli autori hanno osservato che, nella maggioranza dei casi, il quadro clinico dell’infezione da SOIV è lieve e autolimitantesi, caratterizzato da sintomi respiratori con febbre, ma non complicati, molto simili a quelli dell’influenza “stagionale” (tosse, faringodinia, rinorrea con cefalea e mialgie). Tuttavia è stato rilevato che nel 38% dei casi sono stati presenti vomito e diarrea, che, come noto, non sono tipici delle forme stagionali. Circa il 60% dei pazienti erano di età inferiore ai 18 anni, a dimostrazione che bambini e giovani sono più a rischio dell’infezione e rispetto ai soggetti di età più avanzata.
A questo proposito gli autori ritengono che i soggetti anziani possano avere un qualche livello di protezione dal SOIV proveniente dalla presenza di preesistenti anticorpi contro l’influenza A (H1N1), come del resto sarebbe indicato dagli studi sierologici sul vaccino contro l’influenza suina del 1976 (Dolin R, Wise TG, Mazur MH, et al. Immunogenicity and reactogenicity of influenza A/New Jersey/76 virus vaccines in normal adults. J Infect Dis 1977; 136: Suppl: S435).
Tuttavia gli autori sottolineano che questi dati potrebbero sottostimare la realtà della diffusione di questo virus, poiché i giovani sono in genere più frequentemente controllati in caso di epidemia rispetto agli anziani.
Per quanto concerne le modalità di diffusione del SOIV gli autori ritengono che la continua identificazione di nuovi casi, sia negli Stati Uniti che altrove, indica una trasmissione da uomo a uomo, che si verifica principalmente attraverso la disseminazione di goccioline emesse con la tosse. Esiste tuttavia la possibilità di una trasmissione attraverso altre modalità di contatto, come, ad esempio, con materiale gastrointestinale, come sarebbe dimostrato dalla frequenza di diarrea e quindi dalla possibilità di trasmissione oro-fecale.
Nell’infezione da SOIV è stato osservato un periodo d’incubazione variabile da due a sette giorni, anche se si ritiene che questo aspetto vada approfondito con ulteriori studi. È stato inoltre segnalato che nella maggioranza dei casi la diffusione del virus può verificarsi da un giorno prima dell’inizio dei sintomi fino a 5-7 giorni dopo questo oppure fino a che la sintomatologia risolve e che nei più giovani e nei pazienti più gravi o immunocompromessi il periodo della diffusione può essere più lungo ( Carrat F, Vergu E, Ferguson NM, et al. Time lines of infection and disease in human influenza: a review of volunteers challenge studies. Am J Epidemiol 2008; 167: 775).
È stato osservato che nonostante, come detto, che il decorso dell’infezione sia stato prevalentemente lieve, si sono verificati alcuni casi gravi (11 con polmonite, 8 accolti in unità di terapia intensiva, 4 con insufficienza respiratoria e 2 deceduti). Questo aspetto non si discosta da quello dell’influenza stagionale nella quale il decorso e l’esito sono influenzati da complicazioni, prima fra tutte le polmoniti virali primitive, le polmoniti secondarie batteriche (da Staphylococcus aureus e Streptococcus pneumoniae) e le riacutizzazioni di condizioni croniche preesistenti.
Una interessante osservazione fatta dagli autori riguarda l’emergenza dell’infezione da SOIV contemporaneamente alla diminuzione dei casi di influenza stagionale A e B. A questo proposito gli autori richiamano l’attenzione dei medici su questo fenomeno che può creare difficoltà diagnostiche e terapeutiche e consigliano di prendere in considerazione la diagnosi di infezione da SOIV nei pazienti con quadri respiratori e febbrili e in quelli che hanno soggiornato in aree colpite dell’influenza. Per affrontare questi problemi i CDC di Atlanta ha sviluppato un programma per l’identificazione dell’infezione da SOIV mediante l’uso della reazione polimerasica a catena in transcrittasi inversa (RT-PCR) in tempo reale ( Update: infections with a swine-origin influenza A(H1N1) virus – United States and other countries. April 28, 2009. MMWR Morb Mortal Wkly Rep 2009; 58: 431). In caso sospetta di infezione da SOIV si consiglia di eseguire un esame microbiologico di campioni nasofaringei.
Per quanto riguarda il trattamento dell’infezione da SOIV gli autori ricordano che analisi genetiche e fenotipiche hanno indi­cato che SOIV è sensibile a oseltamivir e zanamivir, ma resistente agli adamantani, anche se, al momento attuale, non è ancora accertata l’effettiva attività clinica del trattamento antivirale in questa infezione. Tuttavia i CDC consigliano nei pazienti ricoverati in ospedale e che sono a rischio di complicanze di iniziare la terapia con inibitori della neuroaminidasi, ricordando che, durante l’influenza stagionale A(H1N1) del periodo 2008-2009. i virus isolati negli Stati Uniti erano resistenti a oseltamivir.



Gli autori riferiscono infine i consigli dei CDC per quanto concerne la prevenzione, che deve essere rivolta in primis al personale sanitario e comprendere l’uso di guanti, vesti protettive, mascherine e la protezione degli occhi. Inoltre i pazienti con influenza da SOIV sospettata o confermata dovrebbero essere accolti in camere singole. Si sottolinea la grande importanza che ha in queste situazioni il frequente lavaggio delle mani con acqua e sapone.
Gli autori ricordano che questo nuovo ceppo SOIV è antigenicamente distinto da quello di influenza A(H1N1) presente nell’influenza stagionale 2009; pertanto la vaccinazione con quest’ultimo ceppo non sembra possa offrire protezione.

In un altro recente studio sono stati descritti 11 casi di infezione da virus dell’influenza suina (H1), che presenta un triplo arrangiamento del genoma contenente geni di virus dell’influenza aviaria, umana e suina, che era stato già identificato negli Stati Uniti prima dell’attuale influenza suina A(H1N1) e che era diventato enzootico negli allevamenti di suini (Shindle V, Bridges CB, Uyeki TM, et al. Triple-reassortant swine influenza A(H1) in humans in the United States, 2005-2009. New Engl J Med 2009; 360: 2616). L’età media dei pazienti studiati è stata di 10 anni (con variazione da 16 mesi a 48 anni); nove di questi pazienti avevano avuto esposizione ai maiali, in cinque di essi per contagio diretto e in quattro perché avevano visitato ambienti dove erano accolti maiali, ma senza contatto diretto; in un altro paziente è stata sospettata una trasmissione diretta da uomo a uomo. Gli autori hanno osservato che il periodo di incubazione è stato in media di 3,5 giorni (variazione da tre a nove giorni) ed è stato calcolato dalla più recente esposizione ai suini; questo periodo è stato pertanto più lungo che nell’influenza stagionale e non è stato possibile escludere una trasmissione da uomo a uomo. Il quadro clinico più spesso presente è stato quello aspecifico non distinguibile da quello dell’influenza umana, con febbre (90%), tosse (100%) e cefalea (60%); anche in questi casi un sintomo non frequente è stata la diarrea (30%); in due casi è stata osservata leucopenia, in uno linfopenia e in uno piastrinopenia. Sebbene tutti i casi siano guariti, in due casi si sono verificati gravi manifestazioni respiratorie; uno di questi, una donna di 48 anni con storia di fumo, reflusso gastroesofageo, asma bronchiale trattata con corticosteroidi, l’esame broncoscopico con lavaggio broncoalveolare ha dato alla cultura virus dell’influenza A e Pseudomonas aeruginosa.
Gli autori ritengono che questi casi possano riflettere un reale aumento dell’incidenza dell’infezione influenzale nell’uomo dovuta a modificazioni genetiche oppure alle migliorate conoscenze del virus e alla migliore sorveglianza. A questo proposito gli autori ricordano che i dati filogenetici indicano che nel Nordamerica più di una linea genetica del SOIV è stata responsabile dei casi più recenti di infezione e che non è stato dimostrato un adattamento tra diversi ceppi che possano spiegare l’aumento dei casi. Gli autori rilevano che molti casi sono stati identificati a seguito di esami biologici su campioni respiratori in corso di controlli stagionali dell’infezione. Inoltre, a motivo del potenziale zoonotico dei virus influenzale, gli autori ritengono di grande importanza, nella diagnosi differenziale di pazienti che presentano sindromi respiratorie acute febbrili, il rilievo di una storia di recente esposizione (diretta, indiretta o collegata epidemiologicamente) a suini, pollame, uccelli selvatici o a strutture agricole, specialmente quando il virus non risulta circolante nella comunità.
Nel commentare questi studi Belshe (Belshe RB. Implication of the emergence of a novel H1 influenza virus. N Engl J Med 2009; 360: 2667) rileva che questi virus sono apparsi nell’uomo e nei suini nel 1918 e in seguito hanno subíto un’evoluzione in diversi virus H1, tanto da indurre a ritenere che la situazione attuale non sia la ricomparsa dell’influenza del 1918 ma la “continuazione” di quella.
L’autore si domanda se SOIV potrà rimpiazzare il virus umano H1 e presentare varianti antigene ogni anno o riarrangiarsi con il virus H3 formando nuove varianti.

Due recenti studi sull’infezione da SOIV hanno attratto l’attenzione sull’eventualità, ritenuta sinora non frequente, di gravi complicanze respiratorie.
In un primo studio, condotto in Messico, è stato segnalato che nella primavera del 2009 si è verificato un improvviso aumento dei ricoveri ospedalieri in ospedale per “polmonite” con un insolito incremento di incidenza di obitus; durante questo periodo, su 8817 campioni nasofaringei, 3664 (42%) hanno dato risultato positivo per influenza A e, di questi, 2582 (70%) hanno confermato, alla reazione polimerasica a catena in transcrittasi inversa (RT-PCR), la presenza di SOIV (Chowell G, Bertozzi SM, Colchero MA, et al. Severe respiratory disease concurrent with the circulation of H1N1 influenza. N Engl J M, 2009; 361: 679).
Gli autori hanno rilevato un aumento percentuale di incidenza di pneumopatie gravi in giovani adulti, analogamente a quanto si è verificato nella pandemia influenzale del 1918; per contro, nel periodo di questo studio, è stata osservata una morbilità proporzionalmente minore nei soggetti di età superiore a 60 anni, cioè nel gruppo di età delle persone nate prima della pandemia influenzale del 1957 da influenza A(H1N1).
Gli autori concludono rimarcando la possibilità di gravi complicanze respiratorie in caso di pandemia SOIV e ritenendo che i risultati dello studio confermino la necessità di selezionare la vaccinazione alla popolazione più giovane.

In un secondo studio Perez-Padilla et al descrivono un’epidemia di pneumopatie insorta nel Messico e dimostrata come dovuta al nuovo virus SOIV (Perez-Padilla R, de la Rosa-Zamboni D, Ponce de Leon S, et al, for the INER Working Group on Influenza. Pneumonia and respiratory failure from swine-origin influenza A(H1N1) in Mexico. N Engl J Med 2009; 361: 689).
Nella primavera 2009 gli autori hanno identificato 18 casi di sindrome da sofferenza acuta respiratoria (ARDS: “acute respiratory di stress sindrome”), con diagnosi confermata di SOIV, in un gruppo di 98 pazienti ricoverati per ARDS. Si è trattato prevalentemente di pazienti di età compresa tra 13 e 47 anni; tutti i pazienti avevano febbre, tosse, dispnea o insufficienza respiratoria, aumento del livello sierico di lattico-deidrogenasi e, all’esame radiologico del torace, polmonite bilaterale; inoltre erano presenti linfopenia nel 61% dei casi e aumento della creatin-chinasi nel 62%, ritenuta probabilmente dovuta a miosite e, in un paziente, a ischemia miocardica; sette pazienti sono deceduti. Gli autori ritengono che nei pazienti studiati il danno polmonare sia stato causato molto probabilmente da un effetto primario del virus influenzale; ritengono inoltre che possibile meccanismo di questo danno sia una lesione diretta dell’epitelio respiratorio con conseguente iperproduzione di citochine e che una coinfezione con altri virus respiratori possa spiegare la gravità della sindrome
Nel concludere gli autori ritengono che siano necessari ulteriori studi per identificare precocemente i fattori predittivi di aggravamento dei pazienti con infezione da SOIV.
La misura delle troponine
e quella della creatin-fosfochinasi MB
nell’infarto
L’introduzione della misura della creatin-fosfochinasi MB (CK-MB) ha consentito una più precoce diagnosi di infarto miocardico acuto e di re-infarto e anche di valutare la dimensione dell’aria infartuata; tuttavia l’esperienza clinica ha rivelato una frequenza di circa il 20% di risultati falsamente positivi di questa misura, dovuti alle lesioni della muscolatura scheletrica, specialmente in concomitanza, non rara, di danno renale; false positività sono state anche riscontrate in molte altre evenienze cliniche, come chirurgia non cardiaca, traumi toracici, embolia polmonare, traumi cranici, iperventilazione, asma e ipotiroidismo.
L’introduzione



della misura delle troponine cardiache I e T ha determinato un importante mutamento in questa problematica diagnostica, a motivo della pressoché assoluta specificità dell’aumento delle troponine sieriche in caso di danno cardiaco, ove si eccettui la rara possibilità di falsa positività dovuta interferenza con la fibrina e/o la reazione crociata con anticorpi.
Come noto, la maggiore sensibilità della misura delle troponine per lesioni cardiache rispetto a quella della CK-MB è stata attribuita alla maggiore quantità di troponine per grammo di miocardio e anche alla maggiore percentuale di troponine che dal tessuto miocardico perviene in circolo. Inoltre è stato confermato che in molte situazioni cliniche si verifica un danno miocardico di minime dimensioni che solo l’aumento delle troponine può rivelare e inoltre in molte circostanze l’aumento delle troponine appare in rapporto con l’esito a breve e a lungo termine ( Latini R, Masson S, Anand I, et al for the Val-HeFT Investigators. Prognostic value of very low plasma concentrantions of troponin T in patients with stable chronic heart failure. Circulation 2007; 116: 1242).
Il valore della misura delle troponine nelle diverse condizioni di danno miocardico, a confronto con la misura della CK-MB, è stato esaminato in una recente rassegna critica (Saenger AK, Jaffe AS. Requiem for a heavy weight. The demise of creatin-kinase MB. Circulation 2008; 118: 2200).
Gli autori ricordano che, attualmente, numerosi dati dimostrano che le troponine, a motivo delle più elevate sensibilità e specificità, forniscono migliori informazioni sulla diagnosi di infarto miocardico acuto (IMA) rispetto alla CK-MB, come confermato da recenti linee guida (Thygesen K, Alpert JS, White HD, for the Joint ESC/ACCF/AHA/WHF Task Force for the Redefinition of Myocardial Infarction. Universal definition of myocardial infarction. Circulation 2007; 116: 2634). È stato infatti osservato che il livello sierico di troponina aumenta entro 2-3 ore dall’inizio del dolore precordiale, consentendo una tempestiva diagnosi di AMI e di escludere in breve tempo questa diagnosi, anche se un’esclusione definitiva richiede più tempo e suggerisce di ripetere la misura dopo 6 e 12 ore quando il sospetto clinico è elevato.
Per contro, come sottolineato dagli autori, la misura della CK-MB non aggiunge né accuratezza né rapidità alla diagnosi, specialmente in condizioni di danno miocardico acuto, ma aggiunge soltanto un costo a molti pazienti con aumento delle troponine, ma non delle CK-MB, che sono ad elevato rischio di futuri eventi cardiovascolari, nonché di accresciute morbilità e mortalità.
Per quanto riguarda la valutazione dell’estensione dell’area infartuata, gli autori ricordano che da molti anni il calcolo dei livelli di CK-MB, misurati in serie, è stato usato a questo scopo e ha giustificato per molti il mantenimento di questo parametro nella diagnosi di infarto. Senonché i dati recenti sul confronto delle concentrazioni delle troponine e delle tecniche per immagine hanno indicato che la misura delle troponine ha un valore simile e forse superiore alla CK-MB (Ingkanisorn W, Rhoads K, Aletras A, et al. Gadolinium delayed enhancement cardiovascular magnetic resonance correlates with clinical measures of myocardial infarction. J Am Coll Cardiol 2004; 43: 2253). (Giannitsis E, Steen H, Kurz K, et al. Cardiac magnetic resonance imaging study for quantification of infarct size comparing directly serial verus single time-point measurements of cardiac troponin T. J Am Coll Cardiol 2008; 51: 307). Nonostante questi positivi risultati, gli autori ritengono che non può essere ancora definitivamente stabilito che la misura delle troponine rappresenti la prova ideale (il cosiddetto “gold standard”) per la valutazione dell’area infartuata, ma che l’esperienza acquisita con il suo uso potrà consentire un migliore controllo clinico.
Per quanto concerne la diagnosi di reinfarto, la misura della CK-MB è ancora adoperata perché l’aumento delle troponine può persistere per molti giorni o anche settimane dopo un episodio acuto. In proposito gli autori dissentono da quanto consigliato in recenti linee guida e cioè di eseguire due prelievi per CK-MB per riconoscere un reinfarto; essi ritengono che le attuali condizioni cliniche in cui si trovano i pazienti ricoverati per infarto acuto si siano modificate negli anni più recenti con la crescente diffusione di strategie terapeutiche aggressive. A questo riguardo è citata la recente presa di posizione dell’American College of Cardiology/American Heart Association/European Society of Cardiology che sostiene l’uso e dà la preferenza, in queste evenienze, alle troponine rispetto alla CK-MB ( Thygesen K, et al, loc cit).
Gli autori ricordano che per la diagnosi di reinfarto è necessaria una variazione del 20% dei valori di troponina e che questa variazione deve essere in correlazione con le condizioni cliniche del paziente, tenendo presente che può verificarsi aumento secondario delle troponine (specialmente di troponina T) dopo un infarto con elevazione del tratto ST, in assenza di sintomi. Gli autori sottolineano che la più alta specificità delle troponine può essere particolarmente utile nei pazienti che hanno un’anamnesi dubbia e un quadro elettrocardiografico poco chiaro. Queste situazioni si incontrano più frequentemente negli anni più recenti per il sempre più frequente uso di tecniche interventive e infatti l’uso della misura delle troponine si è particolarmente diffuso dopo intervento coronarico percutaneo. Gli autori richiamano però l’attenzione sul fatto che l’importanza diagnostica delle troponine dopo l’intervento è notevolmente ridotta se il valore basale e già elevato; in queste condizioni è problematico distinguere l’aumento delle troponine correlato all’intervento da quello dovuto alla sintomatologia in atto; in questi casi si ritiene che può essere utile fare riferimento a un valore limite pari al 99º percentile oppure, se il valore di partenza è normale, considerare diagnostico di infarto acuto post-intervento un suo aumento di tre volte ( Thygesen et al. loc cit, Prasad A, Rihal C, Lennon R, et al. Significance of periprocedural myonecrosis on outcomes following percutaneous coronary intervention: an analysis of pre- and post-intervention troponin T levels in 5487 patients. Circ Cardiovasc Intervent 2008; 1: 10), mentre, se il valore basale è elevato, ma stabile, non è più disponibile un indice di reinfarto (Kleiman NS. Measuring troponin elevation after percutaneous coronary intervention: ready for prime time. J Am Coll Cardiol 2006; 48: 1771).
Concludendo, gli autori riferiscono che recentemente, nella Mayo Clinic di Rochester (Minn, USA) dove lavorano, l’uso della misura della CK-MB come marcatore cardiaco è stato rimosso e che molti altri Centri hanno seguìto questo criterio, senza alcun effetto negativo sul controllo clinico dei pazienti. Pertanto gli autori ritengono che, dopo tanti anni di esperienza positiva con le troponine, sia ormai tempo di sostituirle alla CK-MB in clinica cardiovascolare, sia pure continuando di avvalersi della CK-MB, che gli autori ritengono di considerare un “nostro vecchio amico”.




Un contributo alle conoscenze sull’utilità della misura delle troponine nella diagnosi e nell’esclusione di IMA è stato presentato da due studi clinici controllati che hanno mirato soprattutto a valutare il valore diagnostico degli attuali metodi sensibili di misura di questi marcatori. In uno studio condotto su 718 pazienti consecutivi, che presentavano una sintomatologia fortemente sospetta di IMA, i livelli di troponine sono stati determinati, in doppio cieco, avvalendosi di quattro metodi sensibili (Abbott – Architect Troponin I, Roche High Sensistive Troponin I, Roche Troponin I e Siemens Troponin T ultra) e del metodo standard Roche Troponin T ( Reichlin T, Hochholzer W, Bassetti S et al. Early diagnosis of myocardial infarction with sensitive cardiac troponin assays. N Engl J Med 2009; 361: 867).
Gli autori hanno potuto confermare che la misura del livello delle troponine, sia effettuata con il metodo standard che con metodi automatizzati di nuova generazione, è superiore alla misura dei biomarcatori oggi disponibili, compresi mioglobina, CK-MB, mieloperossidasi e proteina cardiaca legante acidi grassi. Gli autori sottolineano che i metodi convenzionali di misura delle troponine mostrano una bassa sensibilità al momento della presentazione del paziente, a causa del ritardato incremento dei livelli di troponina in circolo; per conseguenza la diagnosi di IMA può richiedere un monitoraggio prolungato da 6 a 12 ore e ripetuti prelievi; questo ritardo nel confermare la diagnosi può comportare un aumento del rischio di complicanze e, per contro, un ritardo nell’escludere la diagnosi può prolungare la degenza del paziente nel reparto di emergenza, con sovraffollamento di questo, senza contare il costo. Secondo gli autori l’introduzione di nuovi metodi automatizzati di più elevata sensibilità e migliore precisione consente di abbassare il limite di identificazione (il cosiddetto “cut off”) ( Mingels A, Jacobs L, Michielsen E, et al. Reference population and marathon runner sera assessed by highly sensitive cardiac troponin T and commercial cardiac troponin T and I assays. Clin Chem 2009; 55: 101).
Dai risultati ottenuti gli autori ritengono di poter trarre le seguenti conclusioni:
1) l’accuratezza diagnostica dei quattro metodi sensibili adoperati per la misura delle troponine è risultata già elevata al momento della presentazione dei pazienti in ospedale; tale accuratezza è stata superiore anche a quella della misura dei peptidi natriuretici di tipo B nella diagnosi di insufficienza cardiaca, 2) l’accuratezza dei quattro metodi sensibili è stata superiore a quella del metodo standard; secondo gli autori, ciò può migliorare la diagnosi precoce di IMA, 3) la superiorità dei metodi sensibili è risultata più pronunciata nei pazienti con dolore precordiale di recente insorgenza; ciò consente di estendere la scelta di trattamento precoce a tutti pazienti con IMA, riducendo il rischio di complicanze, consentendo una precoce rivascolarizzazione e un precoce trasferimento a una unità di terapia coronarica intensiva e 4) questi metodi sensibili rendono possibile una esclusione della diagnosi di IMA in base alle misure iniziali; infatti il valore predittivo negativo è risultato dal 97 al 99%.
Nonostante questi positivi risultati, gli autori ricordano che i metodi per la misura delle troponine debbono essere usati unitamente alla completa valutazione clinica del paziente. In particolare gli autori richiamano l’attenzione sulla diagnosi differenziale dell’IMA da altre condizioni patologiche che si associano ad aumento del livello delle troponine, come miocardite e insufficienza cardiaca. Gli autori rilevano inoltre che nel loro studio l’accuratezza dei metodi per la misura delle troponine è risultata da bassa a moderata nei pazienti con angina instabile e che su questo particolare argomento sono necessari ulteriori studi controllati.

Un secondo studio clinico multicentrico è stato condotto su 1818 pazienti consecutivi con sospetto IMA, sia al momento del ricovero che da 3 a 6 ore da questo. (Keller T, Zeller T, Peetz D, et al. Sensitive troponin I assay in early diagnosis of acute myocardial infarction. N Engl J Med 2009; 361: 868).
Gli autori hanno valutato l’accuratezza diagnostica, il valore discriminante e l’utilità clinica di un metodo sensibile di misura della troponina I per la diagnosi precoce e la stratificazione del rischio in pazienti con elevata probabilità di IMA.
È stato osservato che un’unica misura del livello sierico di troponina I, effettuata al momento del ricovero, consente di migliorare, a confronto con la misura con metodo convenzionale e con altri marcatori di necrosi miocardica, l’accuratezza diagnostica e il valore discriminante al fine della diagnosi precoce di IMA. È stata inoltre rilevata la significatività clinica dei livelli minimi di rilascio di troponina dal tessuto miocardico identificabili con i metodi sensibili. Gli autori sottolineano che la misura dei livelli di troponina con metodi sensibili ha consentito di identificare il 100% di IMA già 3 ore dopo il ricovero. A questo proposito gli autori confermano il limite superiore di riferimento del livello serico di troponina in 0,04 ng/mL.
Concludendo, gli autori ritengono che siano necessari ulteriori studi per determinare se una diagnosi precoce di infarto miocardico facilita l’uso rapido di strategie terapeutiche invasive, migliorando la prognosi.

Nel commentare i risultati di questi studi Morrow (Morrow DA. Clinical application of sensitive troponin assays. New Engl J Med 2009; 361: 913) si sofferma sulla valutazione dell’utilità della misura delle troponine nel distinguere tra specificità tessutale di questi marcatori nel danno dei cardiomiociti e specificità clinica nell’infarto miocardico nel quale il meccanismo del danno è l’ischemia. Infatti l’uso della misura delle troponine ha rivelato l’eventualità di danno miocardico in condizioni cliniche non dimostrate dalla CK-MB, dando l’impressione di false positività; è noto che tali evenienze dimostrano che un danno miocardico può riconoscere diversi meccanismi e che la diagnosi di infarto miocardico si basa sia sull’aumento del livello delle troponine che sul quadro clinico; pertanto non è possibile distinguere attendibilmente cause ischemiche da cause non ischemiche, come la miocardite, in base ad una elevazione del livello sierico delle troponine oltre il limite massimo normale, anche se, sottolinea Morrow ( loc cit) le variazioni di questo livello possono essere utili per distinguere un danno acuto da uno cronico, come in condizioni di insufficienza renale terminale. Morrow (loc cit) rimarca inoltre l’importanza di modesti aumenti del livello di troponine, che possano consentire una tempestiva valutazione di sindromi coronariche acute.
Un nuovo inibitore del TNFα
nella terapia dell’artrite reumatoide
Attualmente per il trattamento dell’artrite reumatoide (AR) sono stati introdotti tre inibitori del fattore di necrosi tumorale alfa (TNFα): 1) adalimumab: un anticorpo monoclonale umano, che è somministrato per via sottocutanea ogni due settimane, 2) etanercept, una proteina di fusione del recettore per TNF, che è somministrata per via sottocutanea una o due volte alla settimana e 3) infliximab, un anticorpo monoclonale chimerico, somministrato per vena ogni 4-8 settimane. L’introduzione di questi farmaci ha indubbiamente rappresentato uno dei più importanti progressi nel trattamento dell’AR, come anche di molte altre malattie infiammatorie. Tuttavia gli studi condotti su questa forma di terapia hanno rivelato che alcuni pazienti o non tollerano gli inibitori del TNF α  o non vi rispondono adeguatamente; di qui la frequente decisione di adoperare altri inibitori del TNFα, decisione spesso basata su analisi retrospettive di precedenti studi osservazionali e non controllati.
Nella ricerca di un inibitore del TNFα  che consenta di superare le difficoltà incontrate con gli altri farmaci della stessa classe, è stato recentemente sperimentato nella terapia dell’AR il golimumab, che è un anticorpo monoclonale umano diretto contro il TNFα; questo farmaco è derivato da ibridomi generati da topi transgenici contenenti geni e immunoglobuline umane attivate e geni per immunoglobuline di topo inattivate dirette verso catene pesanti e catene leggere k. Gli studi in fase II hanno indicato che golimumab, iniettato ogni quattro settimane, riduce segni e sintomi di AR attiva, migliorando la funzionalità fisica dei pazienti che presentano un’AR in corso di terapia con metotrexato (Kay J, Matteson EL, Dasgupta B, et al. Golimumab in patient with active rheumatoid arthritis despite treatment with methotrexate: a randomized, double-blind, placebo-controlled, dose-ranging study. Arthritis Rheum 2008; 58: 964).
Nello studio GO-AFTER (GOlimumb After Former anti-tumor necrosis factor α Therapy Evaluated in Rheumatoid arthritis) è stata valutata l’efficacia e l’innocuità di golimumab in pazienti con AR attiva trattati in precedenza con uno o più inibitori di TNFα (Smolen JS, Kay J, Doyle MK, et al. Golimumab in patients wih active rheumatoid arthritis after tratment with tumor necrosis factor α inhibitors (GO-AFTER study): a multicentre, randomised, double-blind, placebo-controlled, phase III trial. Lancet 2009; 374: 210).
Sono stati esaminati 461 pazienti assegnati con un criterio random a ricevere placebo (n=155), golimumab 50 mg (n=153) e golimumab 100 mg (n=153) ogni 4 settimane; questi pazienti hanno ricevuto in precedenza almeno una dose di un inibitore del TNFα e hanno continuato a ricevere trattamento con dosi stabili di metotrexate, sulfasalazina, idrossiclorochina, corticosteroidi orali e farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS). Come punto di riferimento (“end point”) primario è stata considerata la condizione clinica presentata alla 14ª settimana e il conseguimento del 20% o superiore del punteggio ACR (American College of Rheumatology 20). Alla 16ª settimana i pazienti che hanno presentato un punteggio inferiore al 20% per quanto riferisce alle condizioni obiettive articolari hanno cambiato terapia da placebo a 50 mg di golimumab o da 50 a 100 mg di golimumab, oltre terapia di supporto acuta. È stato osservato che golimumab riduce segni e sintomi di AR attiva, migliorando la funzionalità fisica dei pazienti precedentemente trattati con inibitori di TNF α; ciò indicherebbe, secondo gli autori, che questo farmaco è efficace e ben tollerato. È stato rilevato che golimumab è attivo anche nei pazienti costretti a interrompere uno o due inibitori di TNFα, peraltro non in quelli che hanno sospeso tre di questi preparati. Si sottolinea tuttavia che non è risultato chiaro se golimumab sia efficace anche nei pazienti con un quadro obiettivo e sintomatico complessivamente di minor impegno (cioè con poche articolazioni impegnate), e quindi con minore attività dell’AR. Gli autori sottolineano che nel loro studio hanno incluso pazienti con minor numero di articolazioni impegnate, anche se con malattia in fase attiva, perché questa è la situazione con la quale si presenta clinicamente la maggioranza dei pazienti con AR. Fanno rilevare inoltre che i livelli della proteina C-reattiva (CPR) e della velocità di eritrosedimentazione erano soltanto di poco al di sopra dei valori normali all’inizio del controllo; ciò nonostante è stato osservato che i pazienti trattati con golimumab hanno presentato un miglioramento delle condizioni cliniche valutate con il punteggio ACR rispetto ai soggetti del gruppo placebo.
Secondo gli autori l’aver potuto constatare una rapida efficacia degli inibitori del TNFα dimostra l’importanza di frequenti valutazioni eseguite almeno ogni tre mesi; d’altra parte in questo studio è stato rilevato che gli inibitori del TNFα sono efficaci soltanto dopo questo periodo.
Per quanto concerne la tollerabilità è stato osservato che golimumab è stato in generale ben tollerato anche nei pazienti che avevano sospeso il trattamento con un altro inibitore del TNFα per intolleranza; inoltre durante la terapia non è stato osservato aumento di frequenza di infezioni definite “serie”, né di gravi reazioni nel punto di iniezione e né di aumento di anticorpi diretti a golimumab.
L’incidenza di effetti collaterali è stata simile nei pazienti dei gruppi golimumab e del gruppo placebo. Gli autori hanno peraltro osservato tre casi di neoplasie maligne nel gruppo assegnato a 100 mg di golimumab.
Gli autori riconoscono che il placebo di 24 settimane adottato per il controllo è breve, sebbene la valutazione dell’efficacia e dell’innocuità sia durata fino alla 52ª settimana con il controllo con placebo e per altri 4 anni in studio aperto. A questo proposito gli autori ritengono importante la valutazione a lungo termine per definire esattamente il profilo dell’innocuità di questo farmaco, specialmente per verificare l’incidenza degli effetti collaterali avversi rari. Ritengono inoltre che l’uso del placebo non abbia consentito di confrontare golimumab con altri farmaci.

Nel commentare questi risultati Yazici (Yazici Y. Trea­tment of rheumatoid arthritis: we are gelting there. Lancet 2009; 374: 178) si domanda se realmente c’è bisogno di un altro inibitore di TNFα nel trattamento dell’AR e risponde affermativamente, osservando, fra l’altro, che golimumab ha il vantaggio di poter essere somministrato una volta al mese, il che può soddisfare molti pazienti. Per quanto riguarda la tollerabilità di questo farmaco l’autore ritiene che questa potrà essere precisata dopo l’introduzione in commercio, per superare le difficoltà presenti negli studi clinici controllati. In complesso l’autore ritiene che questo farmaco possa affiancarsi al metotrexate, considerato l’“anchordrug” per l’AR, anche nel trattamento iniziale.
Sui rapporti tra etanolo e malattie dell’esofago
Il reflusso gastroesofageo (GER: gastroesophageal reflux) è il principale fattore predisponente all’esofagite da reflusso (RE: reflux esophagitis), all’esofago di Barrett (BE: Barrett’s esophagus) e all’adenocarcinoma esofageo (EAC: esophageal adenocarcinoma). Alcuni studi hanno indicato che un’eccessiva assunzione di alcolici si associa ad aumentato rischio di queste condizioni patologiche; tuttavia altri studi hanno posto in dubbio questa relazione. Nell’ambito dello studio FINBAR (Factors INfluencing the Barrett’s Adenocarcinoma Relationship study) sono stati esaminati i rapporti tra assunzione di alcolici e RE, BE ed EAC ( Anderson LA, Cantwell MM, Watson RGP, et al. The association betwen alcoholic and reflux esophagitis, Barrett’s esphagus and esophagel adenocarcinioma. Gastroenterology 2009; 136: 799). Sono state raccolte informazioni relative al consumo di alcolici all’età di 21 anni e nei 5 anni precedenti l’intervista in 230 pazienti con RE, 224 con BE e 227 con EAC e da 250 soggetti di controllo. È stato osservato che il consumo di alcolici è risultato associato ad aumentato rischio di RE, ma non di BE e di EAC. Inoltre non è stata osservata correlazione tra complessiva assunzione di alcolici e RE, BE ed EAC nei 5 anni precedenti l’intervista. Tuttavia, un’elevata assunzione di superalcolici è risultata associata a un rischio raddoppiato di RE, sebbene il consumo complessivo di alcolici si associ a ridotto rischio di RE e, addirittura, un elevato consumo di vino sia apparso associato inversamente con il BE (sic!).
Nell’interpretazione di tali risultati, gli autori rilevano l’importanza di questa associazione nel tempo e ricordano che l’alcol riduce la pressione dello sfintere gastroesofageo, con conseguente aumento del GER e ciò è dimostrato dall’aumentato rischio di sintomi da reflusso nei soggetti che bevono alcolici. A questo proposito gli autori sottolineano che, nel loro studio, nel gruppo di controllo il consumo di alcolici è stato significativamente minore nei soggetti che hanno segnalato sintomi di GER; ciò indicherebbe che pazienti con sintomi da riflusso possono avere ridotto o sospeso l’alcol dopo la comparsa di questi sintomi.Gli autori rilevano che un’eccessiva assunzione, soprattutto di superalcolici, si associa ad aumentato rischio di RE; e che l’uso di alcolici nei primi anni dell’età adulta può dare luogo a riduzione della pressione dello sfintere esofageo inferiore con aumentato rischio di RE. Ma, mentre quest’osservazione trova conferma in alcuni precedenti studi, in altri non ha dimostrato questa correlazione. Per quanto concerne il consumo di vino, gli autori hanno osservato una netta associazione inversa con l’incidenza di RE; anzi, i dati raccolti indurrebbero a ritenere, come accennato in precedenza, che il consumo di vino riduce il rischio di BE. Questa imprevista osservazione corrisponde a quella riferita in alcuni studi sul ridotto rischio di BE e di EAC associato ad assunzione di vino. Gli autori hanno valutato il ruolo dell’infezione da Helicobacter pylori in queste correlazioni, ricordando, in proposito, che questo agente può accentuare l’attività dell’alcol-deidrogenasi (ADH) nell’epitelio gastrico e che l’etanolo, prevalentemente per azione dell’ADH, è metabolizzato ad acetaldeide, che possiede un potenziale carcinogeno.
Nel concludere, gli autori rilevano che, nonostante i molti studi che non hanno potuto dimostrare che l’alcol è un fattore di rischio di EAC, i risultati da loro ottenuti dimostrerebbero (il condizionale è d’obbligo) che l’alcol, assunto nei primi anni dell‘età adulta, può accrescere il rischio di RE, così da dare l’avvio al processo di carcinogenesi. Tuttavia l’esposizione all’alcol negli anni successivi non appare correlata al rischio di BE o di EAC. Pertanto i futuri studi dovranno prendere in considerazione l’influenza dei sintomi da reflusso e le modalità, nel tempo, dell’assunzione di alcolici, per una corretta interpretazione dei rapporti tra alcol e queste condizioni.

L’associazione tra uso dell’alcol, tipo di alcolici, fattori sociodemografici e BE è stata studiata su 320 pazienti con BE di recente insorgenza tra il 2002 e il 2005, confrontati con 316 soggetti con malattia da reflusso e 317 soggetti di controllo, nell’ambito dello studio Kaiser Permanente Northern California (Kubo AI, Levin TR, Block G, et al. Alcohol types and sociodemographic characteristics as risk factors for Barrett’s esophagus. Gastroenterology 2009; 136: 806).
È stato osservato: 1) che il confronto con i soggetti di controllo ha indicato un’associazione inversa tra consumo di vino e rischio di BE, mentre nessuna associazione è stata osservata con il consumo di superalcolici o di birra; 2) il livello culturale dei soggetti esaminati è in correlazione con la situazione sociale sanitaria ed è apparso “nettamente” associato a minore rischio di BE; 3) sebbene la scelta delle bevande alcoliche sia correlata ad altri fattori demografici e sanitari (ad esempio, all’uso di vitamine), la correzione dei dati ottenuti mediante questi fattori non ha eliminato l’associazione inversa tra consumo di vino e BE.
Secondo gli autori, parecchi sono i potenziali meccanismi attraverso i quali i tipi di bevande alcoliche possono associarsi al BE, che rappresenta un primo passo nella patogenesi dell’EAC: 1) le bevande vinose molto più frequentemente di quelle superalcoliche sono assunte con i pasti; ciò riduce il danno diretto sulla mucosa esofagea, riducendo il processo carcinogenetico; 2) il vino rosso contiene alcune sostanze, come i polifenoli, che possiedono un’importante attività protettiva nei confronti dei biomarcatori dello stress ossidativo ( Kubo A, Levin TB, Block G, et al. Dietary patterns and the risk of Barrett’s esophagus. Am J Epidemiol 2008; 167: 839). Per contro, l’alta concentrazione di alcol nei superalcolici può esplicare un effetto irritativo sulla mucosa esofagea, che può essere danneggiata da frequente reflusso.
È stato osservato che le persone con un più alto livello socio-culturale si trovano a un rischio significativamente minore di BE, in contrasto con quanto riferito in altri studi (Ford AC, Forman D, Reynolds PD, et al. Ethnicity, gender and socioeconomic status as risk factors for esophagitis and Barrett’s esophagus. Am J Epidemiol 2005; 162: 454). Tuttavia l’associazione tra uso di bevande vinose e BE non è apparso modificato da condizioni economiche, livello culturale, fumo di tabacco, indice di massa corporea, presenza/assenza di Helicobacter pylori, assunzione di frutta o vegetali o supplementi vitaminici ed inoltre non è stata osservata influenza da parte dell’uso di farmaci antinfiammatori non steroidei o altri fattori patologici.