La terza età: perdita e crescita

«Essere felici dovrebbe essere un dovere,
ma molto raramente viene rispettato»
Jorge Luis Borges
Ci vuole una buona dose di audacia narrativa a mettere dentro nei primi dieci minuti di un cartoon “formato famiglia” temi quali le coccole amorose di due ragazzini, le effusioni dell’adolescenza, il matrimonio, la cicogna che non arriva, la condivisione di giorni felici, quella del sogno della maturità: un viaggio sino alle remote, fiabesche Cascate del Paradiso. E infine, l’ora più triste, allorché – proprio alla vigilia della partenza – Eli s’ammala, muore e Carl rimane solo nella piccola casa. Up, l’ultima produzione della Pixar, diretta da Pete Doctor e Bob Peterson in affascinante 3D, può consentirsi queste audacie in virtù di sensibilità d’ispirazione e di finezza stilistica. È un film che non ha bisogno di blandire il tradizionale pubblico dei giovanissimi, senza, peraltro, dissimulare un franco riconoscimento alla terza età. La quale, in controcorrente con non poca letteratura contemporanea, è correttamente disegnata nella sua ambivalenza: di perdita ma anche di crescita; una stagione da non sottovalutare e tanto meno da compatire, grazie al contributo che essa conferisce al quotidiano della comunità. Aiutare a vivere con equilibrio biografico, oltre che biologico, tale condizione umana e sociale di peculiari bisogni ed apporti, dovrebbe costituire il compito, dottrinale e clinico, di una geriatria al passo coi tempi: in linea, giustappunto, con la metafora delicata e pensosa offertaci dall’arte di questi disegni. Una storia nutrita, insieme, da brillantezza e levità, ove – dopo l’antefatto rapidamente raccontato all’inizio – seguiamo Carl, burbero ma comprensivo vecchietto che riesce a coniugare, in un alternarsi di sorriso e melanconia, disagi dell’età, solidarietà intergenerazionale, equilibrismi di claudicante, montascale e presidî ortopedici. Come si è detto, il sogno suo e dell’amatissima sposa non si è avverato, ma – fronteggiando dolore e delusione con la memoria di un tenerissimo affetto – Carl non si arrende: progetta e realizza un fantastico marchingegno – una nuvola di palloncini gonfi di elio capaci di far volare in cielo la sua casetta – ed intraprende ugualmente la grande avventura, coinvolgendovi Russell, ragazzino tutto pepe, boy scout ingegnoso e versatile. Senza entrare nei dettagli del plot che sarebbe operazione troppo lunga (ed ingenerosa nei riguardi di futuri spettatori), ciò che interessa ribadire è che il cartoon è uno scrigno di osservazioni acute sui modi e sui fini del vivere la senescenza, in un’ottica di do lente bonomia e di arguzia spontanea: si veda la sequenza dell’“atterraggio” di Carl sul montascale al ritmo dell’habanera o quella del duello tra i due anziani antagonisti (Carl e il crudele usurpatore delle Cascate Paradiso), le cui movenze di spadaccini devono fare i conti con i rispettivi incomodi artritici. L’intera sceneggiatura, peraltro, è modulata sull’avvicendarsi di ruvidezza e fragilità che caratterizza la terza  (e la quarta) età, anni di bilanci e di conferme: l’avere ed il dare di un’esistenza, rendiconto che impone recuperi di tenerezze e di separazioni, di gioie e di dolore, di giudizi e indulgenze. L’amore che lega Carl alla sua sposa ed al suo passato, alla loro casa ed ai suoi oggetti-simbolo suona come paradigma: suona come risposta a quegli adolescenti che oggi sono preoccupati più o meno inconsciamente del come i loro genitori guardano alla casa: solo quale “spazio” di quattro mura e non a luogo dell’anima: luogo permeato di sentimenti, confidenze, complicità.



Il film testimonia anche l’anelito ad una percezione alta della felicità: che dallo stato di grazia della coppia si irradia e si completa nutrendosi di partecipazione e solidarietà. Una felicità – come ha scritto Michele Serra, acuto osservatore di costumi – «semplice, naturale, contagiosa, che sprigiona dai volti e dai gesti. La felicità di sentirsi liberi, ma anche la felicità travolgente di scoprire che l’umanità si muove, cambia, si spalanca al futuro. Che ciò che ci appare scontato, rappreso, uniforme, può disfarsi e diventare altro». Come ha scritto Márquez in quel capolavoro che è “L’amore ai tempi del colera”: [Carl] «sentiva che il tempo della vecchiaia non era un torrente orizzontale, ma un cisterna sfondata da cui si prosciugava la memoria». Percezione che procede di conserva con la consapevolezza – attiva – di una identità, la quale non è soltanto «la lingua di nostra madre» (Heidegger), ma è pur fatta dall’aroma dell’infanzia, dai volti e dai suoni degli affetti: dal costante intrecciarsi del vissuto dei ricordi con la coraggiosa fiducia nel futuro.
Evitando leziosità accattivanti, il film suggerisce, infine, un tema ulteriore: l’aiuto fornito dai “nonni” alle generazioni dei giovanissimi. Il piccolo Russell, che ha alle spalle una famiglia a dir poco distratta, sta per conseguire il diploma che premierà i suoi meriti di boy scout e desidererebbe che alla festa assistesse suo padre. Il padre non verrà; verrà, invece, il vice-nonno, il vecchio e buon Carl, emblema di solidarietà nelle piccole e meno piccole vicende della vita. Questo potenziale additivo di vitalità è il peso specifico – e universale – della “nuova vecchiaia”: un segnale che, sfidando alcuni luoghi comuni, potrebbe risuonare confortante per la società di domani e far riflettere, quindi, giovani e meno giovani, medici e non.

Cecilia Bruno