Libri


Il prisma e l’arcobaleno
«E guarirei: voi mi risanereste
con la grande virtù delle parole!»
Guido Gozzano
Un immaginario matrimonio tra Esculapio e Colliope (tra il dio della medicina e la musa della poesia) potrebbe avere diverse motivazioni. Un matrimonio d’amore, una scintilla improvvisa: l’innamoramento non è, forse, una consonanza a volte misteriosa? Oppure potrebbe essere un matrimonio di convenienza: qualcosa che arricchisce l’un l’altro soggetto, riscattando ciascuno – l’arte e la scienza – dalla propria solitudine. E se fosse, invece, un gesto di riparazione? Sublimare la quotidianità dell’imperfezione nell’eternità del bello? Integrare l’ésprit de géométrie con l’ésprit de finesse?



Un’esigenza, questa, con radici non prossime ; c’è, al proposito, un gustoso episodio raccontato da William Wordsworth. A conclusione d’un pranzo, Keats – protagonista della lirica romantica – levò in alto il suo calice ed esclamò: «Sia biasimata la memoria di Newton!». Stupore dei commensali e richiesta di spiegazioni per quell’insolito brindisi. «Perché – rispose il poeta – Newton ha distrutto, riducendolo a un prisma, il fascino dell’arcobaleno». Keats esagerava: Newton non aveva distrutto un bel niente; egli si limitava a ragionare “da scienziato”, classificava secondo i canoni del tempo, nel solco dell’ottica more geometrica spinoziana. Separava arte e scienza e lasciava al “sentire” l’emozione poetica dell’iride. Peraltro, proprio un “cuore intelligente” (secondo la felice espressione del Vecchio Testamento là dove il re Salomone supplica Dio di accordargli un tal dono) potrebbe essere il segno unificante tra scienza della medicina e arte della letteratura: segno e, insieme, reciproco complemento al fine di sottrarre il mondo e la vita ad una lettura sommaria.
Prima che tale sintesi avvenisse, colmando le distanze tra le due culture, prima che fosse accettata una linea di continuità e di interazione tra natura, arte e conoscenza, sono dovuti trascorrere molti anni: soltanto al principio del XX secolo appartiene, infatti, il presagio freudiano che sottolinea come letterati e poeti «siano alleati preziosi degli scienziati, giacché essi sono soliti sapere una quantità di cose tra cielo e terra che la nostra filosofia neppure sospetta».
Alleanza necessaria anche agli occhi di William Osler: «Un medico ha bisogno della letteratura come della scienza; – ha scritto nel suo “Books and men” – egli può avere la scienza di Harvey e l’arte di Sydenham, eppure gli possono mancare quelle qualità del cuore e della mente che tanto contano nella vita».
Il tema è stato recentemente riproposto in una antologia selezionata da un cultore della materia: Medicina e letteratura (Le raccolte di Janus). A cura di Sandro Spinsanti. Pagine 256. Zadig Editore, Roma 2009. ­Euro 16. ISBN 978-88-8726-21-6.
Nella Introduzione, il Curatore ribadisce: «L’intento delle “medical humanities” non è né esortativo né esornativo. Non si propongono semplicemente di abbellire la pratica della sanità, ma di ricondurla alla sua aspirazione e finalità originarie: essere una medicina per l’uomo. La dimensione umanista è un destino necessario che colui che si occupa di salute conosce per tradizione secolare. La medicina più avanzata non ha inventato le medical humanities: è stata solo costretta a riattualizzarle, per ridurre la dissonanza tra la scienza della misurazione oggettiva e l’arte della competenza e del giudizio, che sono proprie del medico clinico».
Il libro è organizzato in sei parti: 1. La forza della narrazione; 2. Il medico protagonista; 3. La malattia narrata; 4. Quando il dolore diventa canto; 5. La patologia in scena; 6. «Se ti raccontassi la mia storia...». Comprendono, complessivamente, 30 capitoli: si va dalle malattie-paradigma ne “Il gattopardo” di Tomasi di Lampedusa (la tisi, la malaria) a quelle enigmatiche, esistenziali dei personaggi sveviani e dello Shylock shakespeariano. Dal disincanto di Céline («la morte senza tralalà») al paradosso tolstoiano per cui l’orrifica ansia di Ivan Il’i cˇč in attesa della fine si placa nel momento supremo: «Al posto della morte c’era la luce». Dalla malattia come «aristocrazia dello spirito» (Thomas Mann) a quella descritta dal realismo di Samuel Shem: «L’epatite di Lazarus non aveva niente di chic». Né mancano capitoli sul cinismo degli interessi politici in contrasto con la salute pubblica (Ibsen: “Un nemico del popolo”) o sulla sublimazione del soffrire nella lirica di Emily Dickinson.
Le caratteristiche del contenuto possono essere sintetizzate in tre tendenze. La prima si fonda sull’allegorico-immaginario: la malattia come metafora (il binomio rifiutato dalla Sontag). Sono da ricondurvi le pagine su “La montagna incantata”, quelle su “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley, l’ironia patrizia di uno Swift sul pensiero incapace di immaginare; l’analisi della complessità dinamico-psicologica nel Pinocchio di Carlo Collodi. La seconda tendenza si rifà alla tradizione del saggio accademico, dello specialismo erudito (Catti su John Donne, Ravasi sul Qohelet, Quinzio su Giobbe.)
Maggiormente suggestiva è la terza tendenza: la messa a fuoco di un particolare. Ecco dunque il «Vogliono farti vivere per forza, all’ospedale» di madame Rosa (Roman Gary); l’emozionante ambiguità del «sto per morire e mi sto divertendo» di Randy Pausch; la impavida risoluzione di Florentino Ariza, inobliabile creatura di Gabriel García Márquez: «Andiamo a dritta, a dritta, ancora verso la Dorada»: risoluzione che – in una manciata di parole – è l’esplorazione della vita che non ha limiti, la vecchiaia come tempo di inesausta scoperta, «la cisterna sfondata da cui si prosciuga la memoria»: esortazione alla spes contra spem. (E il capitolo sul capolavoro del Nobel colombiano, a firma della Hudson Jones, specialista della materia, è, a mio parere, una delle perle del libro).

Ma l’intera antologia e tutti i commenti sono di pregio; peccato che la tirannia dello spazio non abbia consentito un ancor più esemplificativo contenuto. Avrebbero potuto essere presenti, ad esempio, pagine tratte da «Primo amore» di Turgeniev (la poesia quale antidoto dell’infermità), da «Le ali della colomba» di Henry James (l’esperienza del “medico del malato” quale integrazione di quella del “medico della malattia”), dal «Reparto n. 6» di Cˇechov, in cui si denunciano i rischi di un eccesso empatico del terapeuta. Ed ancora sarebbero state interessanti le voci di Kafka (la malattia come Colpa metafisica), del Moravia di «Inverno di malato» (l’esistere come malattia), di Forster in «Casa Howard» (la malattia come soffrire), del Bufalino in «Diceria dell’untore» (la malattia come Coscienza infelice), di Camus ne «La peste» (l’infermità del mondo), di Georges Simenon ne «Le campane di Bicêtre» (la malattia come rottura tra il soggetto e il suo sé).



Così come altre analisi avrebbero potuto essere dedicate alle interpellanze dell’invecchiare e del morire, con citazioni da Balzac, Flaubert e Maupassant fino a Beckett, Bellow, Mahfuz, Roth.
Gli esempi potrebbero continuare, ma a rischio di tediare il lettore.

Giova, piuttosto, sottolineare la virtù che permea l’opera tutta: la possibilità, nei percorsi inventivi dell’arte e della scienza, di un punto in comune: l’incrocio ove si realizza l’interruzione del prevedibile, sostituito da un comportamento inatteso. In questa interruzione di un percorso banale sta la creatività. Non costituisce, infatti, per un artista, l’esperienza con la malattia una privilegiata carta di accesso a quell’area di consapevolezza e di sentimenti che Thomas Bernhard (nel romanzo “Il respiro”) ha così ben definito quale «quartiere del pensare»? E, per converso, una sensibilità affinata dalla frequentazione dell’immaginario artistico non contribuirebbe ad arricchire la virtù della professione medica, avvicinandola alla “unicità” di ciascun malato, così come ha acutamente notato Tolstoj nelle memorabili pagine sull’infermità di Natascia? «L’ospedale – ha scritto Ideler, uno psichiatra – mi aiuta a tenere a distanza la banalità del quotidiano».
Questo intreccio di fantasia e di ragione, di ideazione e verifica, diviene esso stesso produttore di koinè originali in cui rimodellare figure e gesti dei nostri (intercambiabili) protagonisti: del medico e dello scrittore, del malato e del lettore. La diagnosi è, infatti, assimilabile all’indagine che un semeiologo compie sulla parola scritta: entrambi, lui e il medico, ascoltano un racconto e l’interpretano. Come nota il Tabucchi: «Credo che uno scrittore debba essere prima di tutto un buon ascoltatore. Certamente conta anche l’osservazione, ma saper ascoltare le storie altrui è come ricaricare le nostre pile...». E non è così anche per il medico?
«C’è tanta logica nella “Odissea” quanta fantasia nella “Origine della specie”», ha scritto Giorgio Celli. Nella sua rivisitazione di van Gogh attraverso l’astronomia e nella sua ipotesi che il microscopio abbia presieduto alla nascita dell’astrattismo, nella rilettura di Pollock attraverso Darwin, Celli elabora un panorama che restituisce la scienza all’immaginazione e l’arte alla ragione; e ci regala esempi affascinanti. Ricorda come i fisici atomici e gli astrattisti abbiano lavorato su percorsi elettronici visualizzati, come i surrealisti abbiano fatto ricorso all’indagine del profondo per produrre scritture a effetto stocastico, come Émil Zola, nel suo “Le roman expérimental” del 1880, ebbe persuasivamente a sostenere la tesi secondo la quale – basandosi sulla “Introduction à la médicine expérimentale” di Claude Bernard – il romanziere possa tentare di applicare qualcuna delle metodologie di ricerca proprie della fisiologia. Celli accredita tale legittimazione, ribadendo «che i romanzieri debbono essere pionieri: capaci di intuire il futuro prima degli scienziati»; non ha infatti, Verne, divinato la conquista del Polo Nord, il giro dell’Apollo attorno alla luna, l’avvento del sommergibile nucleare?
Il convincimento che ispira il Celli è che l’ipotesi – “l’idée” di Claude Bernard – può precedere la sperimentazione, perché ci sono casi in cui la sperimentazione può essere fatta nella mente; esistono, cioè, esperienze mentali dettate dalle intuizioni. Quelle che avevano fatto immaginare a Pasteur i microbi prima di averli scoperti, a Marconi le onde prima di aver fatto il telegrafo senza fili, ai coniugi Curie l’energia nucleare prima della bomba. Fu anche il convincimento di Pirandello, allorché scrisse: «E quante volte l’arte non precede la scienza!...».

Ma – si badi – ogni intuizione presuppone la curiosità e il saper osservare. Ed il saper vedere non è facile come sembra. Irvin Braverman, docente di dermatologia a Yale, per esempio, esercita la capacità di osservazione dei suoi studenti in una galleria d’arte: gli allievi “imparano a guardare” attraverso il vedere e il ri-vedere le differenze dei colori, delle prospettive, delle luci e delle espressioni in capolavori della pittura. Dunque: vedere e ri-vedere. Non solo organi, non solo apparati, bensì l’uomo intero – fine ultimo e primo – e la sofferenza. Annota, nel “Libro segreto”, Gabriele D’Annunzio: «So che le cause del mio male sono nell’oscurità del mio spirito, che a poco a poco io rischiaro guarendomi. V’è, se io sono infermo, un fallo d’armonia non nella mia carcassa, ma nella mia anima ed io cerco di ricomporre l’armonia con quell’orecchio pacato che la Musa ama». Edecco che la malattia facendosi metafora ed i nostri organi non limitandosi a strumenti di allarme, bensì essendo promossi a mentori della nostra condizione, meno arduo diviene il vedere/ideare la malattia (vedere ed ideare hanno, in greco, la matrice comune: ιδειν) come consacrazione della diversità dell’uomo: «certe conquiste dell’anima e della conoscenza – ha scritto Thomas Mann – non sono possibili senza la malattia... I grandi malati sono dei crocefissi, vittime offerte all’umanità ed alla sua elevazione, all’ampliamento delle sue capacità di sentire o di conoscere; in breve, alla sua più alta salute».
Non è un caso che gli itinera del medico e del buon lettore procedano – ambedue – lungo i passaggi canonici della ricerca, della parola e dell’incontro.
Uno studio di qualche anno fa ha proposto di interpretare letteratura e medicina quale discorso critico ove il linguaggio viene utilizzato, ad un tempo, come strumento e finalità: nel senso di vigilare e calmierare il disordine del reale, impedendogli di rapprendersi in quelle forme parassitarie che minano l’individuo e le comunità (la patologia). Michelstaedter, peraltro, aveva colto l’ambivalenza, quando parlava della “retorica”, dell’organizzazione del sapere che classifica, ordina, schematizza la vita, «ma che può anche ottunderla, imbalsamarla, come, in un museo di storia naturale, un animale da preda che non può più mordere» (Magris).



E dunque è l’immaginazione che, spesso, deve assistere il dialogo, suggerendo risposte che, affrancate dalla tutela delle certezze, accettino la sfida della possibilità («la persuasione»): saper connettere, cioè saper cogliere la misura in cui io – “questo” lettore – sono capace di interpretare “questo” determinato contenuto. È allora che l’arte dell’ermeneutica e quella della medicina non riescono a denegare una natura gemella, ambedue chiamate a confrontarsi con i misteri del principio e della fine, del bene e del male. «Il “Discendo dalla stirpe di Tantalo” che perseguita la follia di Aiace ed Oreste sulla scena del teatro greco – scrive Hans Georg Gadamer – è messaggio di dolore quotidiano che il medico vuole e deve accogliere e interpretare». Interpretare: guai, infatti, se a lui dovesse oggi accadere di reagire come capitò durante una rappresentazione teatrale di fine Ottocento. L’azione drammatica era dominata, sullo sfondo, dalle strazianti doglie di un interminabile parto; finché, ad un tratto, uno spettatore, indignato e irruento, lanciò un forcipe sul palcoscenico. Era un medico, come ve ne erano numerosi in quel tempo nutrito di naturalismo e passioni e non ancora impreziosito dal “sentimento del sapere”: da quel di più e di meglio idoneo a illuminare la superficie della conoscenza tecnica per decifrarne l’innervatura. Ce lo ricorda anche Eugenio Borgna: «Non ci sono... emozioni e modi di essere che non abbiano bisogno di interpretazione (di ermeneutica): intesa a cogliere e a portare alla luce del senso i significati nascosti nella vita: nella vita segnata dalla malattia e nella vita non malata». Un’asta drittissima – insegnava già Seneca – quando è immersa nell’acqua appare, a chi guarda, curva o spezzata. Ciò che conta non è solo che cosa guardi, ma in che modo la guardi.
È importante ribadire che i grandi libri servono quasi mai ad uno scopo contingente. Al proposito, Umberto Eco ha detto, per esempio, che essa – la grande letteratura – addestra a distinguere tra verità ed interpretazione della verità ed ha aggiunto una frase che merita una riflessione (anche da parte dei medici): «Credo che l’educazione al fato e alla morte sia una delle funzioni principali della letteratura». È, questa, un’intuizione importante: un invito alla frequentazione dei paradigmi che segnano la vicenda dell’uomo e che dimensionano l’ottica dell’onnipotenza, anche riconducendo il sapere al confronto attivo con la legge morale. Tale interazione tra tecnica ed etica, tra scienza e valori umani, va recuperata ed incoraggiata nei medici d’oggi e di domani onde sanare una dicotomia che, pur avendo radici antiche, non ha ragione per perdurare.
Sandro Spinsanti e gli Autori del volume da lui curato ce lo ricordano in modo egregio.

Francesco De Fiore


Scienza ed arte della diagnosi
«Certo, certissimo, anzi, probabile»
Ennio Flaiano
Di fronte a un libro di quasi 350 pagine con sottotitolo “L’arte della diagnosi”, libro dichiaratamente rivolto anche al pubblico “laico”, scritto dalla consulente della serie TV dell’antipatico dottor House, chi non avrebbe un moto di legittima perplessità, se non addirittura di diffidenza? Però – così facendo – rischierebbe di mancare la buona occasione di una lettura di valore: quella di “fatti vissuti” assai formativi, e di considerazioni e suggerimenti di significativa utilità dottrinale e clinica. Contenuti e finalità da assumere, dunque, con fiducia, soffermandosi a riflettere su esperienze e conclusioni dell’Autrice, internista e docente alla Facoltà di Medicina della Yale University ( Ogni paziente racconta la sua storia. L’arte della diagnosi, di Lisa Sanders. Traduzione di Giuliana Lupi con la consulenza scientifica di Eugenio Zanon. Pagine 332. Einaudi, Torino 2009. Euro 16,50. ISBN 978-88-06-19975-3).
La finalità che ad alcuni, forse ai meno giovani, può apparire ovvio riaffermare, ma che è fondante – ed ai nostri giorni sta diventando urgente – è quella di scolpire nella coscienza e nella condotta di ogni curante il principio secondo il quale in cima a tutto, a monte di ogni terapia e prima di ogni sussidio tecnologico, sta la diagnosi fisica; ed il primo passo, indispensabile per una diagnosi corretta – una diagnosi, cioè, che riesca ad essere, insieme, scienza ed arte – è un partecipe, paziente ascolto della storia del malato e, subito dopo, un millimetrico, sospettoso (col “berretto alla Sherlock Holmes” [pagina 8]) esame obiettivo.
Come ci hanno insegnato, da anni, i padri nobili della nostra Clinica: «La tecnologia tende per sua natura a uniformare e a sorvolare le variabili, l’evento casuale, imprevedibile. E a questa regola non sfugge nemmeno la più raffinata delle informatizzazioni. Il medico, invece, deve occuparsi di fenomeni in cui variabilità e casualità sono, per così dire, costanti. Quante volte mi capita di vedere donne con un tumore avanzato alla mammella che era sfuggito alla mammografia, cioè alla macchina, ma che era rilevabile alla palpazione e che sarebbe stato assai più agevolmente curabile se trattato in tempo. Non credo, inoltre, che saremo mai capaci di inventare macchine in grado di sostituire l’emozione con cui il medico deve avvicinarsi al malato. Anche in quest’epoca di superspecializzazione e di supertecnologia, il medico deve abbracciare il malato, lo deve toccare, carezzare, renderlo partecipe del suo sentimento di solidarietà umana. Anche questi sono elementi fondamentali della cura. Dirò di più: se non ci sono, non esiste cura. Perciò continuo a ripetere un’osservazione forse banale ma a cui finora non ho trovato smentita: la tecnologia è indispensabile solo se è ancella della medicina». (Umberto Veronesi: Intervista in: “Telèma”, 1997, www.furb.it/telèma).



Il contenuto del libro di Lisa Sanders – esemplificato in una miriade di casi clinici, alcuni criptici, altri insidiosi, casi di riscontro più o meno frequente, ma tutti molto istruttivi – è articolato in quattro sezioni principali, correlate l’una all’altra da una sperimentata coerenza, che funzione sia come filo conduttore, sia come costante sollecitazione di interesse: la storia del malato, l’esame obiettivo (che l’Autrice rimpiange quale «arte perduta»), i test diagnostici, e, infine, le cause più frequenti dell’errore. Lo stile dell’esposizione è piano, accessibile, non insegue colpi di scena e, tutt’altro che trionfalistico, celebra – piuttosto – un impegno dubitoso e pudico, di condivisione empatica e insieme rispettosa. Così che riesce non solo a ricordarci doveri e opportunità, ma a fornirci informazioni ed a suggerirci compiti nuovi: credo, infatti, che pochi sappiano, ad esempio, che per ben quarant’anni, dal 1964 all’84, negli Stati Uniti (la patria di William Osler!) non è stata richiesta ai neolaureati, nell’ambito dell’esame di abilitazione professionale, la prova sul malato (pp. 194-198). Ed un ancor minore numero di medici – suppongo – conosce “l’infezione del virus del Nilo Occidentale” o ha visto una malattia di Still in soggetti adulti (come descritto a p. 141). Perché il medico “front-line” – colui al quale spesso affidiamo la nostra salute e talvolta la vita – deve saper affrontare non soltanto il quotidiano delle diagnosi di routine, ma anche i casi di pazienti con storie ed anamnesi complicate, «casi in cui i sintomi non indicano granché, e gli esami sono fuorvianti»; sono quelli i momenti in cui si avverte, in concreto, che in medicina «l’incertezza è l’acqua in cui nuotiamo» e dunque dobbiamo imparare a porci la domanda: “se non è quello, cos’altro potrebbe essere?”» (pp. 18 e 19). Questa è, forse, la domanda più inquietante con cui un clinico è, a volte, costretto a confrontarsi, e non di rado con ansia crescente, fino ad una sensazione di impotenza, di panico. Ciò perché non si è appreso compiutamente, scrive la Sanders, «il modo di ragionare in presenza di una stranezza, evenienza in cui è necessaria un’osservazione attenta e dettagliata: imparare a vedere». E ci racconta il colpo di fantasia di un dermatologo della sua stessa Facoltà che agli esami, sessione dopo sessione, osservava con frustrazione le difficoltà che gli studenti incontravano nel descrivere i segni cutanei, fin quando, un giorno, ebbe un’idea nuova. Se avesse insegnato ai suoi studenti l’“osservare” una qualcosa in un contesto che non avesse richiesto alcuna conoscenza specialistica, cosicché essi potessero concentrarsi su abilità che non si apprendono dai libri di medicina e fossero quindi costretti a dedicarsi soltanto al processo del vedere e non a un contenuto in qualche misura già circoscritto?  Si rese conto di avere l’aula perfetta proprio lì a portata di mano, nel Center for British Art of Yale. Il corso, che ora fa parte del piano di studi, richiede che gli studenti del primo anno di medicina affinino le loro capacità di osservazione su quadri di celebri pittori anziché sui pazienti. Per “imparare a vedere”. A questo fine è bene che i giovani medici tengano presente ancora una volta il monito di William Osler: «È di maggiore importanza individuare che tipo di persona sia colui che soffre d’una malattia, piuttosto che intestardirsi a indagare quale malattia abbia colpito quel paziente». La vera sfida diagnostica non può fare a meno di tale premessa. Ci si chiede: “potrebbe, forse, riuscire a  farne a meno, in un futuro non remoto, un sistema computerizzato superefficiente, integrato e intelligente? Potrà sostituirsi ai medici?” «Ne dubito – conclude l’Autrice –; penso, piuttosto, che il processo della diagnosi sarà reso più efficace e che in futuro sarà più facile e rapido concentrarsi su ciò che davvero non va in un paziente. Ma ci saranno sempre scelte da fare: tra possibili diagnosi, tra esami da prescrivere, tra opzioni terapeutiche. Decisioni che soltanto un essere umano abile e competente può prendere».

Gaia de Bouvigny