Storia naturale dell’ostruzione cronica del flusso aereo
La broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) è uno dei maggiori problemi di sanità pubblica, colpendo dal 5 al 15% della popolazione adulta nei paesi industrializzati con prevalenza crescente con l’età. Negli ultimi anni un particolare interesse è stato rivolto allo studio dello sviluppo normale del polmone e delle sue anomalie con l’avanzare degli anni, sia negli uomini che nelle donne (Holgate ST. Priorities for respiratory research in the UK. Thorax 2007; 62: 5).






Nell’ambito del Framingham Offspring Cohort Study è stato effettuato uno studio dello sviluppo del polmone con l’avanzare degli anni anche al fine di interpretare gli eventuali criteri terapeutici (Kohansal R, Martinez-Camblor P, Augusti A, et al. The natural history of chronic airflow obstruction revisited. An analysis of the Framingham Offspring Cohort. Am J Respir Crit Care Med 2009; 180: 3).
Gli autori hanno controllato lo sviluppo polmonare di 4391 soggetti (2121 maschi), di età da 13 a 71 anni, seguiti in media per 23 anni; il controllo è stato eseguito mediante misura della capacità vitale forzata (FVC), del volume espiratorio massimo nel primo secondo (FEV1) e del rapporto tra questi due indici.
È stato osservato che i soggetti sani mai fumatori di sesso femminile acquisiscono un normale sviluppo polmonare prima dei maschi.
Inoltre, è stato rilevato che l’inizio del fumo di tabacco nei maschi si verifica in media a 17,5 anni, mentre è ancora in corso lo sviluppo del polmone, là dove, nelle femmine si verifica in media a 18,5 anni, quando i polmoni sono completamente sviluppati. Gli autori sottolineano che negli ultimi anni l’inizio del fumo si verifica più precocemente con conseguente più grave effetto sullo sviluppo polmonare.
È stato inoltre osservato che, nelle donne, il FEV1 presenta una più prolungata fase di valori stabilizzati rispetto ai maschi e che il declino della funzione polmonare con l’età è di poco e non significativamente più lento che nei maschi.
I risultati di questo studio confermano che il fumo di tabacco accresce la velocità di declino della funzione polmonare sia nei maschi che nelle femmine, come rilevato in precedenti ricerche (Mannino DM, Davis KJ. Lung function decline and outcomes in an adult population Am J Respir Crit Care Med 2006; 173: 985). Questo declino ha peraltro presentato un significativo andamento variabile nei soggetti definiti “continui fumatori” con un declino del FEV1 di poco, ma significativamente, più rapido nei maschi rispetto alle femmine. Tuttavia gli autori ritengono che la predisposizione al danno da fumo di tabacco sia uguale in maschi e femmine, poiché la percentuale dei continui fumatori che hanno presentato una limitazione del flusso aereo è risultata uguale in ambo i sessi.
Contrariamente a quanto riportato in precedenti studi, gli autori hanno rilevato che la presenza di sintomatologia respiratoria all’inizio dello studio e/o una diagnosi di malattia respiratoria nel corso del controllo identificano una sottopopolazione di fumatori particolarmente predisposta ai deleteri effetti polmonari del fumo, in accordo del resto con quanto segnalato da altri autori (De Marco R, Accordini S, Cerveri I, et al. Incidence of chronic obstructive pulmonary disease in a cohort of young adults according to the presence of chronic cough and. Am J Respir Crit Care Med 2007; 175: 32). Secondo gli autori, i risultati da loro ottenuti inducono a ritenere che, almeno nei maschi, il fumo nell’adolescenza può ridurre lo sviluppo del polmone e pertanto il mancato raggiungimento di uno sviluppo ottimale del polmone rappresenta un potenziale fattore di rischio per lo sviluppo di ostruzione del flusso aereo negli anni successivi.
Per quanto riguarda la cessazione del fumo, gli autori hanno osservato che questa esplica un benefico effetto sul declino del FEV1 con l’età. Nei fumatori di ambo i sessi che cessano di fumare prima dei 30 anni, i valori di FEV1 non sono distinguibili da quelli dei soggetti sani mai fumatori; al contrario, il declino del FEV1 è risultato significativamente accelerato e non differente da quello dei continui fumatori nei soggetti che cessano di fumare dopo i 40 anni. Tuttavia i risultati su questo punto potrebbero essere dovuti ad insufficiente significatività, dato che le curve ottenute nei due sessi hanno un differente decorso. Gli autori dichiarano di non avere l’intenzione di inviare con le loro ricerche un messaggio di scoraggiamento, affermando che una più tardiva cessazione del fumo possa non avere un benefico effetto; al contrario, le loro osservazioni vogliono richiamare l’attenzione sull’importanza di una quanto più precoce possibile cessazione del fumo.

Rivalutazione della digossina nella terapia dell’insufficienza cardiaca acuta
Gli studi clinici condotti negli ultimi anni sull’insufficienza cardiaca (IC) hanno evidenziato una notevole diminuzione dell’uso della digossina, calcolato da circa l’80% a meno del 30% (Gheorghiade M, van Veldhuisen DJ, Colucci WS. Contemporary use of digoxin in the management of cardiovascular disorders. Circulation 2006; 113: 2556). Ciò è stato attribuito a vari fattori, fra i quali l’introduzione di nuove efficaci terapie mediante beta-bloccanti, bloccanti del recettore per l’angiotensina, ACE-inibitori, bloccanti l’aldosterone e tecniche di risincronizzazione e, non ultimo, il diminuito interesse dell’industria farmaceutica a motivo del basso costo. Un altro rilevante fattore che ha determinato questo fenomeno è stato il relativamente basso rapporto tra dose terapeutica e dose tossica.
Più recentemente l’attenzione è stata attratta dalle sindromi d’insufficienza cardiaca acuta (ICA) richiedenti ricovero in ospedale, che con accresciuta frequenza hanno richiesto un nuovo ricovero, comportando altresì un’aumentata mortalità, nonostante adeguata terapia con diuretici dell’ansa, beta-bloccanti, ACE-inibitori e bloccanti il recettore dell’angiotensina (Gheorghiade M, Pang SP. Acute heart failure syndromes. J Am Coll Cardiol 2009; 53: 558). È noto che questi eventi sono stati soprattutto correlati a instabilità emodinamica dovuta a elevata pressione di riempimento ventricolare sinistro e/o ridotta portata cardiaca.
In un recente commento su questa situazione, Gheorghiade e Braunwald si sono domandati se nel trattamento della sindrome di ICA non sia venuto il tempo di ritornare all’uso della digossina (Gheorghiade M, Braunwald E. Reconsidering the role of digoxin in the management of acute heart syndromes. JAMA 2009; 302: 2146). Gli autori ricordano che, in queste sindromi, ad un farmaco si richiedono: 1) migliorare l’emodinamica senza determinare avversi effetti su frequenza cardiaca, pressione arteriosa, aumento della domanda di ossigeno del miocardio e riduzione della perfusione coronarica, 2) prevenire un’attivazione neuroumorale, 3) poter essere usato in associazione con i farmaci attualmente adoperati, 4) consentire il controllo della frequenza ventricolare in presenza di fibrillazione atriale, 5) poter essere usato sia per via venosa nella fase acuta dell’IC sia per via orale nel lungo termine e 6) migliorare il quadro clinico, riducendo la necessità di nuovo ricovero e migliorando la sopravvivenza.



Gli autori ritengono che la digossina possegga molti di questi requisiti e sottolineano che questo farmaco, fra l’altro, non compromette la funzione renale ed esplica o un effetto benefico o nessun effetto su frequenza cardiaca e pressione arteriosa.
Nel trattamento con digossina è possibile, inoltre, controllarne la concentrazione nel siero, che ha particolare importanza nei pazienti con grave diminuizione della frazione di eiezione ventricolare sinistra. A questo proposito gli autori ricordano che la digossina ha dimostrato la sua utilità anche nei casi di ICA con frazione di eiezione conservata che, come noto, sono diventati più frequenti negli ultimi anni.
Tuttavia che l’uso della digossina può presentare alcuni problemi, soprattutto collegati al suo relativamente basso rapporto tra dose tossica e dose terapeutica; in queste evenienze è prudente attenersi a basse dosi che si sono dimostrate efficaci ed innocue (Ahmed A, Rich MW, Love TE et al. Digoxin and reduction in mortality and hospitalization in heart failure: a comprehensive post hoc analysis of the DIG trial. Eur Heart J 2006; 27: 178).
Concludendo: il ruolo della digoxina nelle sindromi di ICA deve essere rivalutato, data l’ “inaccettabile” frequenza di nuovi ricoveri ospedalieri che comportano elevata mortalità e anche costi elevati, nonostante le attuali terapie con beta-bloccanti e farmaci diretti al sistema renina-angiotensina-aldosterone. Su questi problemi gli autori ritengono necessari ulteriori studi clinici controllati.

Recenti ricerche sulle neoplasie colonrettali avanzate diagnosticate dopo polipectomia colonscopica
Studi epidemiologici e clinici hanno dimostrato che lo screening mediante colonscopia con rimozione degli adenomi rappresenta il metodo razionale per ridurre l’incidenza e la mortalità per carcinoma colonrettale. I dati più recenti indicano che, tra i soggetti nei quali sono rimossi uno o più adenomi alla colonscopia, dal 20 al 50% dei casi si può rinvenire una lesione metacrona entro un periodo da 3 a 5 anni; inoltre, circa il 20% dei pazienti nei quali è diagnosticata una neoplasia nel corso di una campagna di sorveglianza, presenta un adenoma del colon in fase avanzata, definito come una lesione di diametro uguale o superiore a 10 mm, di aspetto villoso in oltre il 25% dei casi o con displasia di alto grado; oppure mostra, in una bassa, se pur non trascurabile, percentuale, un carcinoma colonrettale invasivo, di nuova diagnosi ( Lin OS. Clinical update: postpolypectomy colonscopy surveillance. Lancet 2007; 370: 1674).
Per stabilire i rapporti tra le caratteristiche dei pazienti, gli aspetti morfologici dell’adenoma rimosso alla colonscopia e il rischio di lesioni metacrone, è stato eseguito uno studio prospettico multicentrico al fine di definire il rischio assoluto di adenoma avanzato metacrono, carcinoma colonrettale e loro associazione (definita “neoplasia colonrettale in fase avanzata”) e identificare le caratteristiche dei pazienti e gli aspetti dell’adenoma che sono associati, indipendentemente, al rischio di questi eventi. ( Martinez ME, Baron JA, Lieberman DA, et al. A pooled analysis of advanced colorectal neoplasia diagnoses after colonscopic polypectomy. Gastroenterology 2009; 136: 832).



Sono stati esaminati 9167 soggetti di ambo i sessi, di età compresa tra 22 e 80 anni, che avevano avuto una precedente resezione di adenoma colonrettale, quantificando il rischio di sviluppare un adenoma avanzato o un carcinoma e identificando i fattori associati a questo rischio.
È stato osservato che, dopo un periodo di 4 anni (in media) di sorveglianza, circa 1 su 150 pazienti ha avuto diagnosi di carcinoma colonrettale e circa 1 su 10 diagnosi di neoplasia colonrettale in fase avanzata. Lo sviluppo di una lesione metacrona è risultato associato a numero, dimensione, localizzazione e quadro istologico dei precedenti adenomi e, inoltre, all’età e al sesso del paziente. L’associazione più netta è stata rilevata con età, dimensione e numero degli adenomi.
Gli autori ricordano che precedenti studi hanno indicato che il rischio di adenomi avanzati e carcinomi aumenta in caso di molteplicità degli adenomi, dell’aspetto villoso, di un grado elevato di displasia, delle dimensioni degli adenomi e della localizzazione prossimale di questi.
Nella loro casistica, gli Autori hanno rilevato che la presenza di un quadro villoso in un precedente adenoma, una volta che si sia tenuto conto di altri fattori, è risultata soltanto modestamente associata a susseguente neoplasia avanzata. Inoltre non è stata osservata una associazione indipendente tra storia famigliare e susseguente neoplasia colonrettale avanzata nei pazienti polipectomizzati, in contrasto con precedenti segnalazioni (Butterworth AS, Higgins JPT, Pharoah P. Relative and absolute risk of colorettal cancer for individuals with a family history: a meta-analysis. Eur J Cancer 2008; 42: 216).



Non è stata posta in evidenza una chiara associazione tra neoplasia metacrona avanzata, fumo di tabacco e obesità. Per contro, si è osservata una chiara associazione della displasia di alto grado con il rischio neoplastico e questa associazione è apparsa correlata ad altri fattori, quali dimensioni del precedente adenoma e aspetto villoso.
Questi rilievi, in contrasto con precedenti studi, possono spiegarsi con differenze nella popolazione esaminata, nella definizione di displasia di grado elevato e nel peso attribuito ai vari fattori di rischio nei differenti studi. Gli AA. sottolineano, in proposito, che nella loro casistica soltanto il 3% dei pazienti con piccoli adenomi tubulari presentava una displasia di grado elevato, ma che tale esiguo numero di soggetti non consente di stabilire se un isolato reperto di displasia di grado elevato possa essere associato ad aumentato rischio. Si rileva anche che la qualità della tecnica colonscopica può rappresentare un fattore che influenza il risultato dell’indagine; infatti è possibile che lesioni non evidenziate oppure incompletamente rimosse possano spiegare il riscontro di qualche adenoma avanzato o di qualche carcinoma nel corso del periodo di sorveglianza.
Gli autori sottolineano anche che scopo del controllo è quello di ridurre al minimo –  non di eliminare – il rischio di un carcinoma e rilevano che i dati raccolti consentono una soddisfacente discriminazione tra soggetti a basso e ad alto rischio (6,9% contro 15,5% nella loro casistica) avvalendosi delle attuali linee guida (Winawer SJ, Zauber AG, Fletcher RH, et al. Guidelines for colonscopy surveillance after polypectomy: a consensus update by the US Multi-Society Task Force on Colorectal Cancer and the American Cancer Society CA Cancer J Clin 2006; 56: 143; 184). A questo proposito osservano che le attuali linee guida non sempre sono perfette; ad esempio, nella loro casistica, il 7,4% dei pazienti che, secondo le linee guida, sarebbero stati considerati a basso rischio, hanno presentato un adenoma avanzato o un carcinoma invasivo nel corso della sorveglianza.



L’articolo conclude rilevando che i dati raccolti dallo studio multicentrico mostrano che le neoplasie del colon sono frequenti dopo polipectomia colonscopica e che molte caratteristiche dei pazienti e alcuni aspetti istologici del precedente adenoma si associano a neoplasia colonrettale avanzata, dimostrata al controllo colonscopico; i più importanti di questi fattori sono il numero e la dimensione dell’adenoma precedente e l’età del paziente. Gli autori ritengono che, anche se le attuali linee guida sono utili nel distinguere soggetti a basso e ad alto rischio, i futuri studi potranno consentire una più precisa stima del rischio, sviluppando adeguati modelli statistici predittivi.

Complicanze cardiovascolari nella broncopneumopatia cronica ostruttiva
Le malattie cardiovascolari sono le principali cause di morbilità e mortalità della broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO). Questa correlazione è in parte dovuta e comuni fattori di rischio, come fumo di tabacco, abitudine di vita sedentaria e condizioni socio-economiche. Studi recenti hanno indicato che aumento della rigidità arteriosa e alterata funzione vasomotoria hanno un ruolo importante nella disfunzione vascolare sistemica che comporta il rischio cardiovascolare (Eickhoff P, Valipour A, Kiss D, et al. Determinants of systemic vascular function in patients with stable COPD. Am J Respir Crit Care Med 2008; 178: 1211).
Alla rigidità arteriosa contribuiscono le componenti strutturali della parete vasale, come la matrice extracellulare e l’endotelio; quest’ultimo, inoltre, ha un ruolo essenziale nel controllo del flusso ematico, della coagulazione, della fibrinolisi e dell’infiammazione, mentre il rilascio dell’attivatore tessutale del plasminogeno (t-PA) consente di mantenere la pervietà vasale prevenendo la trombosi. Sia la disfunzione vasomotoria che la rigidità arteriosa rappresentano fattori predittivi indipendenti di eventi cardiovascolari.
Rigidità arteriosa, disfunzione vasomotoria e alterata fibrinolisi endogena sono aspetti del danno da fumo di tabacco e attualmente non è stabilito se la disfunzione vascolare presente nei pazienti con BPCO sia attribuibile al fumo di tabacco oppure sia una conseguenza della stessa BPCO.
Uno studio controllato è stato recentemente condotto per valutare la disfunzione vascolare in pazienti con BPCO e per stabilire se questi pazienti hanno un’aumentata rigidità arteriosa come conseguenza della disfunzione endoteliale sistemica e un’alterata fibrinolisi endogena e se questa disfunzione vascolare è indipendente dall’effetto del fumo (Maclay JD, McAllister DA, Mills NL, et al. Vascular dysfunction in chronic obstructive pulmonay disease. Am Respir Crit Care Med 2009; 180: 513).
Sono stati studiati 18 uomini con BPCO senza evidenza di malattie cardiovascolari e, per controllo, 17 uomini sani, con pari storia di fumo.
È stato osservato che gli uomini con BPCO hanno aumentata rigidità arteriosa, ma che due principali componenti della funzione endoteliale – vasodilatazione misurata all’avambraccio e funzione fibrinolitica endogena – sono simili nei due gruppi. Questi risultati indicano che l’aumentata rigidità arteriosa è una manifestazione sistemica indipendente di BPCO, non dovuta a disfuzione endoteliale e che un processo patologico simile interessa la degradazione della matrice extra cellulare nel polmone e nei vasi di questi pazienti. L’aumentata rigidità arteriosa, rilevata nei pazienti con BPCO, dà luogo ad aumento della pressione sistolica centrale aortica, aumentato postcarico ventricolare sinistro e ridotto riempimento coronarico diastolico, costituendo un’importante determinante del rischio cardiovascolare. Inoltre, la dimostrazione che la rigidità arteriosa è aumentata nei soggetti con BPCO a confronto con i soggetti di controllo con simili abitudini al fumo di tabacco, induce a ritenere che tale associazione sia indipendente dagli effetti del fumo.
Viene ricordato che la patogenesi della rigidità arteriosa è complessa e anche incompletamente conosciuta per quanto riguarda l’interazione tra cellule endoteliali e cellule muscolari lisce, da un lato, e matrice exracellulare, dall’altro, nel modificare la struttura e la funzione della parete vascolare. Vengono citati precedenti studi che hanno indicato che la rigidità arteriosa si associa a gravità dell’enfisema, a dimostrazione di una sensibilità sistemica alla degradazione dei connettivi e in particolare dell’elastina. Un altro fattore patogenetico importante è la cronica infiammazione sistemica caratteristica della BPCO, che pesantemente contribuisce alla rigidità delle grandi arterie, rappresentando un rilevante fattore di rischio cardiovascolare.
Per quanto riguarda la funzione vasomotoria endoteliale, gli autori ricordano che, mentre la rigidità arteriosa di un’arteria di conduttanza, come l’aorta, è influenzata dalla matrice extracellulare, dalle cellule muscolari lisce vasali e dall’endotelio, la regolazione del flusso ematico nei vasi di resistenza è controllata primariamente dalle cellule muscolari lisce e dall’endotelio. Richiamano l’attenzione sulla tecnica da loro seguita per valutare la funzione endoteliale nei vasi di resistenza dell’avanbraccio, avvalendosi di due vasodilatatori endotelio-dipendenti (bradichinina e acetilcolina) e di due endotelio-indipendenti (nitroprussiato sodico e verapamil); mediante tecnica pletismografica non sono state osservate differenze tra i due gruppi nella vasodilatazione endotelio-dipendente ed endotelio-indipendente. Ma ciò non significa che i pazienti con BPCO non presentino una disfunzione endoteliale e gli autori ritengono che in questi soggetti gli effetti del fumo o dell’età prevalgano su eventuali effetti della malattia sulla funzione vasomotoria nei vasi di resistenza.

Nel commentare questi risultati, Burghuber e Valipour (Burghuber OC, Valipour A. Knowing chronic obstructive pulmonary disease by heart. Cumulating evidence of systemic vascular dysfunction. Am J Respir Crit Care Med 2009; 180: 487) si domandano se essi hanno una rilevanza clinica e rispondono che, in effetti, questo studio può generare nuove ipotesi sulla terapia e sulla prevenzione delle complicanze sistemiche della BPCO. Tenendo presenti le correlazioni tra BPCO, infiammazione sistemica e disfunzione vascolare sistemica, dovrebbe essere rivolta una particolare attenzione alle statine. Vengono citati, in proposito, recenti studi che hanno indicato una significativa riduzione degli eventi cardiovascolari in soggetti trattati con rosuvastatina, i quali presentavano elevati livelli di proteina C-reattiva, ma normale colesterolemia ( Ridker PM, Danielson E, Fonseca FA, et al. Jupiter Study Group. Rosuvastatin to prevent vascular events in men and women with elevated C-reactive protein. N Engl J Med 2008; 359: 2195) e alcune ricerche sperimentali che inducono a ritenere che le statine consentono l’inibizione della distruzione del parenchina polmonare e del rimodellamento vascolare polmonare, poiché determinano l’attenuazione dell’infiltrazione peribronchiale e perivascolare di cellule infiammatorie in soggetti con danno polmonare da fumo di tabacco (Mäki-Petäjä KM, Booth AD, Hall FC, et al. Ezetimibe and simvastatin reduce inflammation, disease activity and aortic stiffness and improve endothelial function in rheumatoid arthritis. J Am Coll Cardiol 2008; 50: 852).







Recenti studi sulla faringite acuta
Le attuali linee guida per il trattamento della faringite acuta sono prevalentemente indirizzate alla faringite da streptococco β-emolitico di gruppo A e hanno lo scopo di ridurre l’incidenza della febbre reumatica (Bisno AL, Gerber MA, Gwaltney JM, et al. Practice guidelines for the diagnosis and management of group A streptococcal pharingitis. Infectious Disease Society of America. Clin Infect Dis 2002; 35: 113). È stato osservato che frequentemente la faringite è causata da Fusobacterium necrophorum e può evolvere in una forma grave, la cosiddetta sindrome di Lemierre. Questa sindrome è stata descritta nel 1936 in adolescenti con tonsillite e ascesso peritonsillare e con quadro clinico evolvente verso una batteriemia con febbre e brividi e spesso con tromboflebite della vena giugulare interna e infezioni metastatiche; la causa è stata identificata nel F. necrophorum (originariamente denominato Bacillus funduliformis); la mortalità è stata del 90% (Lemierre A. On certain septicemias due to anaerobic microrganisms. Lancet 1936; 1: 701).
In una recente rassegna su questi nuovi aspetti della faringite acuta ne sono stati esaminati i caratteri clinici, microbiologici e terapeutici (Centor RM. Expand the pharingitis paradigm for adolescents and young adults. Ann Intern Med 2009; 151: 812).






L’autore riporta i risultati di recenti studi che hanno indicato che l’isolamento di F. necrophorum da colture di tampone faringeo in pazienti con faringite acuta è stato di circa il 10% e che questa forma interessa pressoché esclusivamente adolescenti e giovani adulti; è stato inoltre segnalato che in questi pazienti la morbilità per sindrome di Lemierre è stata del 10%, peraltro con ampie variazioni dal 2 al 22% secondo le casistiche (Hagelskjaer Kristensen L, Prag J. Lemierre’s syndrome and other disseminated Fusobacterium necrophorum infections in Danemark: a prospective epidemiological and clinical survey. Eur J Clin Microbiol Jnfect Dis 2008; 27: 779).
Viene sottolineato che i dati più recenti indicano che in molti pazienti la sindrome di Lemierre compare dopo “parecchi” giorni di faringite e ciò induce a ritenere necessario in questi casi un trattamento antibiotico efficace. Le recenti linee guida (Bisno et al, loc cit) consigliano di trattare con antibiotici “soltanto” i pazienti con faringite streptococcica, ma l’A. ritiene che, in assenza di dati più precisi, si debbano trattare gli adolescenti e i giovani adulti con faringite da F. necrophorum che presentino almeno tre dei seguenti caratteri: storia di febbre, essudati tonsillari, adenopatia dolente cervicale anteriore, assenza di tosse (Centor RM, Allison JJ, Cohen SJ, Pharyngitis management: defining the controversy. J Gen Intern Med 2007; 22: 127).
Per quanto concerne il trattamento antibiotico, si avverte che i macrolidi non sono efficaci contro F. necrophorum e che, in rapporto ai risultati di laboratorio, possono essere usati metronidazolo e clindamicina.
L’autore conclude ritenendo che i dati recenti sulla faringite da F. necrophorum impongano una modificazione del paradigma diagnostico della faringite, includendovi, oltre allo streptococco β-emolitico di gruppo A, anche F. necrophorum.

Otite media acuta da Moraxella catarrhalis
Gli agenti microbici più frequentemente responsabili di otite media acuta (OMA) sono Streptococcus pneumoniae, Hemophilus influenzae non tipizzabile, Moraxella catarrhalis e streptococco di gruppo A (SGA). L’OMA da S. pneumoniae è caratterizzata da temperatura elevata, grave otalgia, frequente iperemia e tumefazione della membrana timpanica, elevato contenuto liquido nell’orecchio medio e leucocitosi neutrofila. L’OMA da H. influenzae è spesso associata a congiuntivite, interessamento bilaterale, presenza di precedenti trattamenti antibiotici e frequenti ricorrenze. L’OMA da SGA, soprattutto grave nei bambini, è caratterizzata da frequente perforazione della membrana timpanica e da mastoidite.
Un recente studio è stato condotto sull’OMA causata da M. catarrhalis, che è di solito considerata relativamente meno grave e che pertanto è stata scarsamente studiata (Broides A, Dagan R, Greenberg D, et al. Acute otitis media caused by Moraxella catarrhalis: epidemiologic and clinical characteristics. Clin Infect Dis 2009; 49: 1641).
Gli autori hanno studiato pazienti di età inferiore a 5 anni con OMA e coltura positiva da campione di liquido dell’orecchio medio, nel periodo dal 1999 al 2006. Su un totale di 12.799 episodi di OMA, 8198 (64%) episodi sono stati con coltura positiva; sono stati isolati H. influenzae nel 48,0% dei casi, S. pneumoniae nel 42,9%, SGA nel 4,3% e M. catarrhalis nel 4,8%.
Nei pazienti con OMA da M. catarrhalis è stata osservata una percentuale significativamente elevata di infezioni miste nel corso del primo episodio e una percentuale significativamente inferiore di perforazione spontanea della membrana timpanica, senza mastoidite al momento della diagnosi.
Viene ricordato, in proposito, che studi sperimentali su animali hanno indicato che l’OMA da M. catarrhalis causa forme istopatologicamente più lievi di OMA rispetto a quella da S. pneumoniae e H. influenzae, con minore produzione di cellule caliciformi e minore durata del loro addensamento, come anche minore neoformazione di osso, di polipi della mucosa e di tessuto fibroso. Inoltre, studi sull’OMA in bambini hanno indicato che quella da M. catarrhalis è caratterizzata da una meno intensa risposta immunitaria, con minore produzione di IgG, IgM e IgA, minore secrezione purulenta e minore conta batterica alla coltura del liquido dell’orecchio medio. Tali rilievi hanno indotto a ritenere che questa forma di OMA presenti un quadro clinico meno grave di quella da altre etiologie. In effetti, nella loro casistica, gli autori hanno rilevato una percentuale significativamente più bassa di perforazione della membrana timpanica al momento della diagnosi e, come detto, assenza di mastoidite. Nel complesso, M. catarrhalis è apparsa associata a infezioni miste con altri patogeni notoriamente responsabili di otite in una percentuale significativamente più elevata rispetto alle otiti da altri patogeni. Gli autori hanno osservato, a questo proposito, che alcune popolazioni in via di sviluppo sono risultate più predisposte all’OMA, alle otiti medie suppurative croniche o alla perforazione timpanica spontanea; questa caratteristica potrebbe essere correlata alla produzione di biofilm da parte dei patogeni in causa oppure da altri meccanismi genetici.
Nel concludere, gli autori rilevano che la frequenza di infezioni miste, la minore tendenza alla perforazione spontanea della membrana timpanica, l’assenza di mastoidite e la più lieve risposta immunitaria, osservate nell’OMA da M. catarrhalis unitamente al decorso relativamente non grave, debbano essere presi in considerazione nell’indirizzare campagne di immunizzazione.