Misura dell’emoglobina glicata A1C nella diagnosi di diabete

Un rapporto dell’International Expert Committee

Un Comitato Internazionale di esperti dell’American Diabetes Association (ADA), dell’European Association for the Study of Diabetes (EASD) e dell’International Diabetes Federation (IDF) ha pubblicato un rapporto sui metodi attuali e futuri per la diagnosi del diabete non in gravidanza (International Expert Committee Report on the role of the A1C assay in the diagnosis of diabetes. Diabetes Care 2009; 32: 1327). Scopo del rapporto è quello di stimolare l’approfondimento delle conoscenze sull’uso della misura dell’emoglobina glicata A1C nella diagnosi del diabete.



Il rapporto ricorda che, storicamente, la diagnosi di diabete è stata basata sulla misura della glicemia; mentre nel diabete mellito di tipo 1 (DM1) l’estremo aumento acuto della glicemia, accompagnato da tipiche caratteristiche cliniche non rende necessario stabilire specifici valori limite della glicemia, nel diabete di tipo 2 (DM2) la sua più graduale insorgenza richiede, per la diagnosi, specifici valori di glicemia che debbono consentire di distinguere valori patologici da quelli della popolazione non diabetica.
Il comitato sostiene che se un’iperglicemia prolungata che provoca le complicanze del diabete rappresenta la caratteristica fondamentale di questa malattia, dovrebbe essere evidente che esami di laboratorio che indichino una esposizione prolungata nel tempo ad aumentati livelli glicemici costituiscono un marcatore della presenza e della gravità del diabete, più valido di una singola determinazione della glicemia. A questo proposito sono riferiti i risultati di recenti studi che hanno dimostrato una stretta correlazione tra complicanze diabetiche e livello di emoglobina glicata A1C e, per contro, un meno evidente rapporto con il valore della glicemia a digiuno; pertanto l’identificazione di una situazione iperglicemica prolungata, quale è possibile con la misura di A1C, consente di valutare il grado di esposizione nel tempo ad elevati livelli glicemici, che sono più strettamente correlati al rischio di complicanze.
Mentre inizialmente le difficoltà nella standardizzazione dei metodi di misura dell’A1C ne avevano sconsigliato l’uso nella diagnosi del DM2 (The Expert Committee on the Classification of Diabetes Mellitus. Follow-up report on the diagnosis of diabetes mellitus. Diabetes Care 2003; 26: 3160), successivi miglioramenti nelle tecniche di misura hanno consentito di ottenere accuratezza e precisione metodologiche maggiori. (Little RR, Rohlfing CL, Tennill AL, et al. Effect of sample storing conditions on glycated hemoglobin measurement: evaluation of five different high performance liquid chromatography methods. Diabetes Technol Ther 2007; 9: 36). Si ritiene pertanto che, a confronto con la misura della glicemia, la misura di A1C abbia un valore almeno pari nel definire il livello di iperglicemia al quale aumenta la prevalenza di una complicanza diabetica come la retinopatia. Inoltre, la misura di A1C presenta alcuni importanti vantaggi, come minore instabilità preanalitica e minore variabilità biologica; non richiede prelievo di sangue a digiuno e il livello di A1C è relativamente non influenzato da acuti perturbamenti del livello glicemico.









Per quanto concerne il valore limite di A1C al di sopra del quale si può porre diagnosi di DM2, il rapporto indica il valore di 6,5% che è considerato sufficientemente sensibile e specifico per identificare soggetti che dovrebbero essere diagnosticati diabetici e a rischio di complicanze diabetiche; in questo senso il livello di A1C è “almeno” predittivo come i valori di glicemia a digiuno e di glicemia 2 ore dopo carico di 75 g di glucosio. È da rilevare che su questo punto il rapporto insiste sulla specificità piuttosto che sulla sensibilità della prova, sottolineando che il valore limite di 6,5% non deve essere considerato come una linea di rigida divisione tra glicemia normale e diabete. Infatti si consiglia di attuare un’efficace strategia di prevenzione nei soggetti a rischio che presentano un valore di A1C tra 6,0 e 6,5%.

Vengono discussi i limiti della misura di A1C nella diagnosi di DM2:
1) Alcune emoglobine, come HbS, HbC, HbF e HgE interferiscono con i metodi di misura di A1C; attualmente sono proposti alcuni metodi di affinità che non sono influenzati da queste emoglobine (Roberts WL, Safa-Pour S, De BK et al. Effects of hemoglobin C and S traits on glicohemoglobin measurements by eleven methods. Clin Chem 2005; 51: 776).
2) La presenza di alcune condizioni che modificano il turn-over cellulare dà luogo a risultati alterati: anemia emolitica, malaria cronica, gravi emorragie.
3) Il livello di A1C aumenta con l’età: tuttavia non è noto se queste modificazioni siamo correlate oppur no a fattori diversi dal metabolismo glicidico e se l’effetto correlato all’età si accresca con lo sviluppo delle complicanze.
4) Le differenze correlate all’etnia, osservate nei valori di A1C, non sono, al momento attuale, completamente chiarite ed è prematuro stabilire valori specifici per le diverse etnie.
5) Raramente lo sviluppo rapido di un DM1 può non consentire al livello di A1C di avere tempo per “captare” l’acuto aumento della glicemia; in questi casi, come detto sopra, il diabete è diagnosticato dalla sintomatologia e da valori glicemici >200 mg/dL (11,1 mmol/L) nonostante valori di A1C non diagnostici.

Il rapporto sottolinea che, mentre precedenti studi hanno indicato l’efficacia della dimostrazione di una alterata glicemia a digiuno (IFG: “impaired fast glycaemia”: [tra ≥110 mg/dL (>6,1 mmol/L) e <126 mg/dL (<7,0 mmol/L)] e di una alterata tolleranza glicidica (IGT: “impaired glucose tolerance”: [tra ≥140 mg/dL (7,8 mmol/L) e <200 mg/dL (11,1 mmol/L)] nel predire lo sviluppo di un diabete, più recenti ricerche hanno identificato una condizione di graduale rischio di diabete a valori glicemici ben al di sotto di quelli finora ritenuti “normali”, cioè glicemia a digiuno <100 mg/dL (5,6 mmol/L) e A1C <6%; inoltre, a questi livelli sono state documentate alterazioni correlate al diabete che vanno aumentando d’intensità con più alti valori glicemici rientranti in quelli normali ( Piche M-E, Arcand-Bosse J-F, Despres J-P, et al. What is a normal glucose value? Differences in indexes of plasma glucose homeostasis in subjects with normal fasting glucose. Diabetes Care 2004; 27: 2470). In questi studi è stato osservato che, analogamente ai valori glicemici, nei riguardi dello sviluppo del diabete, esiste un continuum anche nei valori di A1C. Ciò crea una difficoltà, anche per i valori di A1C, nella classificazione di soggetti in “subdiabetici” o diabetici. Gli autori del rapporto sono pertanto indotti a ritenere che questo continuum nel rischio compreso nell’ambito dei valori glicemici “subdiabetici”, giustifichi l’eliminazione della distinzione tra pre-diabete, IFG e IGT; in questa situazione gli autori del rapporto ritengono che, data la correlazione dei valori di A1C con la diagnosi di diabete, questi valori siano predittivi di rischio di malattia (Edelman D, Olsen MK, Dudley TK, et al. Utility of hemoglobin A1C in predicting diabetes risk. J Gen Intern Med 2004; 19: 1175).
Il rapporto discute dell’uso della misura di A1C nello screening di soggetti ad alto rischio di diabete e ritiene che la decisione terapeutica debba basarsi su quanto tali valori si avvicinino alla diagnosi. In assenza di uno specifico valore soglia inferiore che indichi quando debbano essere prese misure preventive, il rapporto consiglia di assumerle quando il valore di A1C si avvicina a quello del 6,5% e cioè ≥6,0%. Oltre al controllo di A1C, in queste evenienze, debbono essere controllati altri parametri, come trigliceridi, pressione arteriosa, indice di massa corporea e storia famigliare di diabete. Viene sottolineato che, qualunque delle tre differenti prove per la diagnosi di diabete venga adoperata (glicemia a digiuno, glicemia 2 ore dopo carico di 75g di glucosio e A1C), debbono essere eseguite ulteriori prove di controllo dello stesso tipo, perché esse non sono sempre concordanti.

Il rapporto enuncia le seguenti conclusioni:
1) non esiste un solo esame correlato all’iperglicemia che possa essere considerato la prova ideale (il cosiddetto “gold standard”) per quanto riguarda le complicanze diabetiche macro-e microvascolari;
2) una misura che indichi una prolungata esposizione all’iperglicemia fornisce più utili informazioni rispetto alla misura dei valori glicemici al momento;
3) la misura di A1C fornisce utili ragguagli sui valori glicemici nel tempo, correlati inoltre con le complicanze diabetiche a lungo termine;
4) i più recenti metodi di misura di A1C presentano molti vantaggi rispetto ai metodi precedenti, per quanto riguarda tecniche preanalitiche e analitiche;
5) un livello di A1C ≥6,5% consente la diagnosi di diabete, che deve essere confermata da ulteriori controlli, a meno che siano presenti i sintomi caratteristici e una glicemia > 200 mg/dL (>11,1 mmol/L);
6) se non è possibile misurare A1C a causa di fattori che precludono all’interpretazione dei risultati (vedi in precedenza) si deve ricorrere alla misura della glicemia a digiuno e dopo carico;
7) nei bambini e negli adolescenti la misura di A1C è indicata in caso di sospetto di diabete e in assenza di caratteristica sintomatologia e di iperglicemia;
8) per la diagnosi di diabete in gravidanza, quando le modificazioni del turn-over degli eritrociti rendono problematico il risultato della misura di A1C, si deve ricorrere alla misura della glicemia;
9) soggetti con A1C ≥6% ma <6,5% possono essere a rischio di progressione di diabete, anche se questi limiti non rappresentano un valore soglia assoluto per l’inizio di misure preventive;
10) la classificazione di una iperglicemia “subdiabetica” come “pre-diabete” è “problematica”, perché non tutti coloro che sono così classificati sviluppano un diabete; l’uso della misura di A1C può in queste evenienze sostituire quello della misura della glicemia.