La memoria, i profeti
«Una favola orientale racconta di un uomo cui strisciò in bocca, mentre dormiva, un serpente. Il serpente gli scivolò nello stomaco e vi si stabilì e di là impose all’uomo la sua volontà, così da privarlo della libertà. L’uomo era alla mercè del serpente: non apparteneva più a se stesso. Finché, un mattino, l’uomo sentì che il serpente se n’era andato e lui era di nuovo libero. Ma allora si accorse di non sapere cosa fare della sua libertà: nel lungo periodo del dominio assoluto del serpente egli si era talmente abituato a sottomettere la sua propria volontà alla volontà di questo, i suoi propri desideri ai desideri di questo, i suoi propri impulsi agli impulsi di questo, che aveva perso la capacità di desiderare, di tendere a qualcosa, di agire autonomamente. In luogo della libertà aveva trovato il vuoto, perché insieme col serpente gli era uscita fuori la sua “essenza” nuova, acquistata nella cattività e a lui non restava che riconquistare a poco a poco il precedente contenuto umano della sua vita.



L’analogia di questa favola con la condizione istituzionale del malato mentale è sorprendente, dato che sembra la parabola fantastica dell’incorporazione da parte del malato di un nemico che lo distrugge, con gli stessi atti di prevaricazione e violenza con cui l’uomo della favola è stato dominato e distrutto dal serpente. Ma l’incontro con il malato mentale ci ha anche dimostrato che – in questa società – siamo tutti schiavi del serpente e che qualora non tentiamo di distruggerlo o di vomitarlo, non ci sarà più un tempo per riconquistare il contenuto umano della nostra vita».
È una pagina di quel monumento dell’antipsichiatria – stupefacente: celebrato, discusso, ancor oggi testo sacro o maudit della letteratura sociopolitica (sanitaria?) non solo italiana – che un gruppo di operatori, mossi dall’esperienza manicomiale di Gorizia prima, poi di Reggio Emilia e di Trieste, ebbe l’audacia e la pietas di erigere alla negazione della realtà istituzionale, «mettendo in evidenza l’ambigua posizione di una comunità come microsocietà che vuole costituirsi su premesse pratiche e teoriche in opposizione ai valori dominanti» (Franco Basaglia, L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico. Giulio Einaudi editore, Torino 1968; pagina 8). La sofferta passione che li animò viene lodevolmente ricordata (commemorata?) in questi giorni (lontani/attuali?) di ricorrenze: la legge 180 che riformò l’intervento psichiatrico (1978), la prematura scomparsa del protagonista (1980). Ed apprezzabile in tal clima – per l’ampiezza di audience e tempestività del messaggio – ne è stata la raffigurazione in una sobria ed efficace fiction televisiva: C’era una volta la città dei matti, diretta con sensibilità partecipe dal regista Marco Turco e interpretata da un Fabrizio Gifuni in una delle sue prove più consonanti. Come ha felicemente commentato Eugenio Borgna (anch’egli profeta e anima di una psichiatria a misura dell’uomo), il film ha saputo trasmettere il segno «di fiducia e speranza in una operazione scaturita da una straordinaria coscienza morale e da una meravigliosa solidarietà nei confronti di persone lacerate e sconfitte non dalla malattia, ma dalle condizioni di vita in cui si trovavano recluse». Ed è segno attuale, pur a distanza di un trentennio. Vale la pena rileggere – infatti – alcune pagine a rischio di ingiallire, anch’esse di Franco Basaglia, a quei tempi ancor più disarmato profeta, su questa stessa rivista: «Soggetti e oggetti della violenza del potere, continueremmo a scaricare su chi è stato ridotto alla sola condizione di oggetto, la violenza e l’aggressività implicite nel nostro ruolo di detentori del potere: confondendo in un gioco ambiguo e indecifrabile ciò che ci provie ne dal nostro ruolo tecnico... e ciò che la società vuole che noi siamo: dei “flichiatri”: psichiatri-poliziotti» (Franco Basaglia. Appunti di psichiatria istituzionale. Recenti Progressi in Medicina, 1969; 46: 486).




Ma in che modo è possibile questa comunicazione con l’esterno «se non si pongono in discussione le strutture della società che si oppongono alla riabilitazione dei malati, la cui unica funzione sociale è quella di essere internati? «Se la violenza, l’esclusione, lo sfruttamento continuano ad essere l’unico mezzo di smistamento fra i privilegiati e gli oppressi?» (loc. cit. p. 500).
Occorre dunque restare fedeli al messaggio dell’illuminazione originaria: quella che rimise in discussione valori a monte di istituti “dati”, affrancandosi dall’equivoco di una malintesa neutralità della scienza e convinti che il progresso di una cultura (anche medica) non è e non deve essere privilegio di pochi, bensì verifica quotidianamente impegnata di responsabilità collettiva.

Cecilia Bruno