Malattie rare e farmaci orfani

Da qualche tempo i rapporti tra cinema e business dell’industria della salute si sono fatti meno infrequenti; un esempio ne è il recente film di Tom Vaughan: Misure straordinarie, nel quale un padre disperato decide di tentare la messa a punto – e ci riesce con l’aiuto di un inventivo ricercatore – di una terapia per una rara patologia genetica, la glicogenosi (o malattia di Pompe), di cui soffrono, senza speranza, due dei suoi tre figli. Questo disordine del metabolismo – dovuto al deficit dell’enzima lisosomiale alfa-glucosidasi – presenta due quadri fenotipici: la forma infantile che si manifesta entro i primi mesi di vita, caratterizzata da grave ipotonia, cardiomegalia, cardiopatia ipertrofica ed insufficienza respiratoria e che, se non diagnosticata e trattata per tempo, è causa di precoce mortalità; e la forma ad esordio tardivo che colpisce, invece, prevalentemente i muscoli e risparmia, di solito, l’organo cardiaco. I sintomi compaiono nell’adolescenza o in età adulta: i pazienti perdono la capacità di deambulare autonomamente, mentre si verifica un deterioramento progressivo della capacità ventilatoria che, se cronica, obbliga a ricorrere alla ventilazione assistita.






Nel film, Brendan Fraser interpreta John Crowley, executive marketing di una industria farmaceutica, che, di fronte al progredire del male e all’impotenza dei medici, decide di affrontare il problema in prima persona. Lo scenario richiama, a grandi linee, due precedenti: “John Q” (del 2002), ove Denzel Washington tiene in ostaggio un intero Reparto di Terapia Intensiva per assicurare al proprio figlio un trapianto cardiaco, e “L’olio di Lorenzo” (del 1992), storia di due coniugi (Susan Sarandon e Nick Nolte) che ingaggiano una solitaria battaglia contro lo sconosciuto morbo del figlio, riuscendo a controllarlo, limitandone i danni: storia ispirata da una situazione e da persone reali, così come questo film di Tom Vaughan.
Crowley, uomo d’affari e d’azione, allenato ad assiduo autocontrollo su persone ed eventi, segue il suo istinto di imprenditore, fiducioso nella forza del mercato e, coadiuvato dal dottor Stonehill, biochimico tanto scontroso quanto creativo (Harrison Ford), convince un gruppo di capitalisti a fondare un gruppo di ricerca per condurre studi clinici controllati, intesi a introdurre nella pratica un farmaco salvavita per i malati di glicogenosi II. Pur con qualche licenza, si ripercorre il ruolo svolto a suo tempo da John Crowley nello sviluppo del farmaco Myozime per i Laboratori della Genzyme, una vicenda descritta in “The Cure”, docu-romanzo di Geeta Anand, pubblicato nel 2006. Le teorie sperimentali di Stonehill sono ben promettenti, ma i fondi stanziati non altrettanto; ed i finanziatori privati accordano fiducia e dollari aggiuntivi a piccole dosi, ponendo, sovrappiù, condizioni e termini alla fase preliminare della ricerca di base. L’industria guarda con sospettoso scetticismo al mercato ristretto – e al conseguente ridotto profitto – di un farmaco orfano: destinato a trattare una malattia rara. Per renderlo remunerativo occorrono interventi straordinari. Tuttavia, il film non si spende più di tanto in dichiarazioni moralistiche: gli è sufficiente celebrare la battaglia della indomita star a difesa dell’indipendenza scientifica, dimensionando potenziali tentazioni di polemica socio-politica, anche perché il profilo interpretativo non sembra essere stato in cima agli intendimenti della regia: Kery Russel (Aileen, moglie di Crowley e madre quotidianamente affranta dall’incombere del male) cura i suoi piccoli con un atteggiamento che richiama quello di una casalinga intenta a passare l’aspirapolvere, ed il ritratto del protagonista (offertoci da un Brendan Fraser alle prese con le dolenti note del difficile lavoro quotidiano) suscita, nello spettatore, la poco comprensibile immagine di un levriero rassegnato alla cuccia. Stereotipato risulta il personaggio di Stonehill, lo scienziato tutto d’un pezzo, eccentrico accademico, animato dal furor sacro della ricerca (noi profani lo ammiriamo intento ad acrobatiche formule algebriche), pronto ad infiammarsi non appena qualcuno osi sfiorarne l’elitaria sensibilità, arroccata nella sua “torre d’avorio”. «Uno scienziato non è in vendita!» è il grido di battaglia del suo status (che, tuttavia, costa al Dipartimento universitario la bella cifra di 6 milioni di dollari!).
L’accento è posto prevalentemente sulle difficoltà della ricerca e sullo spirito di sacrificio dei ricercatori, piuttosto che su tematiche socio-politiche e il film finisce, quindi, col risultare un’occasione non del tutto compiuta, non sottolineando a sufficienza quanto malattie rare e farmaci orfani siano problemi proposti all’attenzione non soltanto degli addetti ai laboratori, bensì anche a quella dei decisori della Sanità Pubblica in ogni paese. Al proposito, ha opportunamente scritto il Presidente dell’Associazione Italiana Glicogenesi: «L’articolo 32 della nostra Costituzione dovrebbe tutelare la salute di tutti i cittadini, ma questo, purtroppo, non sempre accade: i malati rari sono accomunati dal triste destino di dover fare i conti con i budget delle ASL che non sempre riescono a sostenere il peso fiscale di trattamenti innovativi, indispensabili e molto onerosi». Occorre quindi, in Italia, incrementare un’attività di sensibilizzazione presso i Centri regionali di riferimento sulla indispensabilità della cura, indispensabilità che non può in alcun modo sottostare a logiche economiche («la salute non è una merce»). E raggiungere questa mèta non è impresa da eroe solitario; è compito che spetta all’ispirazione solidale di una comunità civile.

Cecilia Bruno