Vasi d’argilla e d’oro

Qualunque sforzo di darci la salute è vano.
Questa non può appartenere che alla bestia,
che conosce un solo progresso,
quello del proprio organismo
Italo Svevo

Eppure, anche tra la viltà, anche nell’angoscia,
nulla vi è di così prezioso come il tempo della nostra esistenza,
questo mattino infinitesimale,
questo puntino impercettibile nel firmamento dell’eternità,
questa primavera minuscola
che fiorirà una volta sola, e poi mai più…
Vladimir Jankélévitch


Nel Simposio, Platone racconta così la condizione umana: «Un giorno, Zeus, volendo castigare l’uomo senza distruggerlo, lo tagliò in due. Da allora ciascuno di noi è il simbolo di un uomo, la metà che cerca l’altra metà… In seguito, per curare l’antica ferita, Zeus inviò Amore, fra gli dèi l’amico degli uomini, il medico: colui che vorremmo ci riconducesse alla condizione primitiva; ed infatti, cercando di far uno ciò che è due, Amore cerca di medicare l’umana natura» (Galimberti). Tentativo generoso ma vano, perché a differenza dell’animale, all’uomo è dato un mondo da costruire con fatica e dolore e chi pretendesse l’immunità dalla sofferenza pretenderebbe di guarire dalla essenza sua propria, che è la vulnerabilità: possibilità che ci è preclusa. A tale tema si ispirano due testi, apparsi di recente, il primo incentrato sui rischi di una medicina noncurante di limiti, l’altro dedicato alle illusioni delle terapie dell’anima: Il malato immaginato, di Marco Bobbio (pagine 218, Einaudi, Torino; euro 18) e Perché siamo infelici, a cura di Paolo Crepet. Con scritti dello stesso Crepet, di Vittorino Andreoli, Edoardo Boncinelli, Eugenio Borgna, Maurizio Andolfi, Bruno Callieri (pagine 184, Einaudi, Torino; euro 15,50).

Bobbio muove da una citazione inquietante: «deve esserci qualcosa che non funziona se una persona, quando non ha alcun problema, va a farsi visitare da un medico» (è l’incipit di un articolo di Clifton Meador sul New England Journal of Medicine del 1994, che destò grande scalpore). E si chiede: «È questo il progresso della medicina che desideriamo? Siamo così ben curati da sentirci tutti ammalati?». Vale dunque la pena interrogarsi sulla pratica di una medicina sempre più invadente, che diffonde il timore, su basi meramente statistiche, di minacciose malattie, una medicina che induce il bisogno di cure anche quando si sta bene, che non sa riconoscere i propri limiti e ci impone trattamenti standardizzati. Dati, numeri, trend hanno sostituito l’individuo, le sue preferenze e i suoi valori, ma questo castello di certezze mostra sempre di più la sua fragilità. Con il risultato che siamo curati meglio rispetto a cinquant’anni fa, ma stiamo peggio. Il libro ce ne offre non pochi esempi in duecento pagine nutrite da esperienze vissute, dottrina ed umanità. Pagine di denuncia: là dove svela il meccanismo di una medicina che «per allargare il mercato e accumulare risorse economiche non si limita a curare i veri malati, ma anche quelli che sono poco malati e quelli che forse (ma non sicuramente) si ammaleranno». Si creano così malattie alla moda (spesso attinenti con prodotti farmaceutici) e, addirittura, “nuove” malattie. Ciò in ossequio all’imperativo del “fare tutto il possibile”: che può essere, sì, impegno di solidarietà e perizia, ma pure potenziale strumento di auto giustificazione [la medicina difensiva], e/o panacea illusoria per l’impazienza dei malati. A volte, invece – ammonisce Bobbio – occorre saper desistere, rinunziando alla convinzione che ci sia sempre una soluzione estrema capace di prolungare la salute (o la vita) ad ogni costo. Il che non equivale ad essere rinunciatari: è infatti sul crinale di questa scelta che si cimentano scienza e coscienza del curante; e l’autore non manca di ricordarcelo, così concludendo l’introduzione: «… Si parla di medicina sostenibile, mutuando il termine dai movimenti ambientalisti, per indicare un sistema che sia economicamente accettabile ed equamente distribuito, ma penso che il termine vada utilizzato anche a livello del singolo individuo: un percorso diagnostico e terapeutico complessivamente sostenibile da parte di ogni persona, tenendo conto delle sue preferenze e dei suoi valori». Un percorso che ci suggerisca di riflettere sui limiti della natura umana, delle procedure diagnostiche e dei trattamenti (ciò che può essere benefico per quasi tutti, può essere dannoso per alcuni); e ci esorti ad aiutare i pazienti a rifamiliarizzarsi con la nostra comune precarietà e ad offrire loro spazi di confronto per scegliere come affrontare la propria vita e la propria malattia. A volte sarebbero davvero più efficaci dieci minuti dedicati alla persona malata piuttosto che la ripetizione di una TAC, quando a buon senso si può immaginare che non aggiungerà nulla a quanto già si sapeva. È, questa, una finalità che accresce la virtù del libro, in quanto, oltre a costituire una documentata denuncia di malintesa valutazione costo-beneficio in sanità pubblica e di conseguente sperpero economico-sociale, esso si rivela anche un contributo alla umanizzazione del rapporto con il malato, giungendo a suggerirci una valenza della imperfezione non inferiore a quella della salute, fino a ricondurci al sillogismo alto di Thomas Mann, che così scrisse ne “La montagna incantata”: «Ciò che distingue l’uomo dal resto della vita organica è lo spirito. Nello spirito, dunque, nella malattia, consiste la dignità dell’uomo, consiste la sua nobiltà».
Siamo vasi di argilla e d’oro.
Concludiamo. Francis Bacon soleva distinguere i libri: alcuni vanno assaggiati, altri inghiottiti, pochi masticati e digeriti. A quest’ultima specie appartiene la testimonianza di Marco Bobbio: cui auguriamo meritato successo, ampia diffusione anche al di fuori di ambienti specialistici e prossime ristampe (ed in tal caso, perché non pensare ad una copertina meno convenzionale?).




Analogamente, nella raccolta Perché siamo infelici, Crepet e collaboratori, muovendo dall’assunto che l’infelicità è una condizione insita nell’essere umano, si propongono di denunciarne la pur diffusa quanto ingannevole interpretazione: quella che la considera sintomo di malattia, macchia da detergere, a costo di azzerare dubbi e pensiero critico e correndo il rischio di un appiattimento culturale ed emotivo. «Spero vivamente – scrive il Curatore – che il lettore possa essere aiutato a comprendere quanto il sentimento della infelicità debba essere riconosciuto come fondamento dell’architettura psichica dell’uomo. Ciò fornirà elementi utili a dubitare di recenti e superficiali tendenze a considerare la felicità come icona universale per misurare e descrivere una buona esistenza».
E dunque, diversi specialisti, ciascuno per la propria competenza, si domandano e spiegano al lettore – in sei capitoli – cosa tutti noi saremmo senza la infelicità. La risposta è: saremmo nulla, o poco; perché l’infelicità, nell’essere umano, è spinta, forza di reazione, segno di vitalità. Questo è l’assunto del primo capitolo a firma del genetista Edoardo Boncinelli, dall’inequivocabile titolo: “L’infelicità come destino e come spinta”. «La nostra vitalità – scrive l’Autore – deriva tutta dalla spinta in avanti…, spinta che comunque non ci basta mai. Quindi la infelicità essenziale, immotivata, e la finitezza indicano proprio la condizione fondamentale dell’animo umano.» … E conclude: «Io non lo vedo un discorso pessimista. Siamo infelici perché siamo infelici. Punto».
Nel secondo contributo, Eugenio Borgna, esponente di spicco della psicopatologia fenomenologica, delinea le diverse figure della felicità. Sulle orme di suoi celebratissimi libri (Le emozioni ferite, 2009; Come in uno specchio oscuramente, 2007; Malinconia, 1992) e con l’apporto di autori a lui congeniali e per lui abitualmente oblativi di suggestioni ed esperienze (Hillesum, Antonia Pozzi, Natoli, Bachmann, Sylvia Plath, Kirkegaard, Jaspers e Galimberti), lo psichiatra novarese ribadisce alcune definizioni: la felicità come stato di grazia, condizione da vivere piuttosto che da conoscere (non troppo discostandosi dalla saggezza di Cechov che ci aveva allertato: «la felicità è come la salute; quando la possiedi non te ne accorgi»), la differenza della felicità rispetto alla gioia (riproponendo le convincenti pagine che ci aveva offerto l’ultimo, succitato, suo saggio sulle emozioni), la capacità di contagio della felicità e la correlazione con la speranza, quantunque mediante sentieri nascosti e non sempre decifrabili. Né poteva mancare, nella nosografia antropo-fenomenologica, l’analisi della felicità patologica (quella derivante dall’esperienza psicotica) ed il rifiuto di quella illusoria (la felicità della droga).
Il terzo capitolo è a firma di Paolo Crepet ed è intitolato: “Perché dovremmo essere felici?”. La tesi dell’autore è severa e dolente. Leggiamo a pagina 76: «Abbiamo imbalsamato i figli di superfluo, sottraendo loro la forza di costruire ciò che ancora non si è raggiunto. E si è perso così il gusto, la gioia di assaporare il presente pensando al futuro… Come può esserci felicità senza curiosità? Ma come si fa ad essere curiosi dell’oggi quando esso non apre a ciò che ignoriamo, ovvero al domani? La peggiore delle violenze comminata a un giovane è sottrargli il domani» (p. 94). Per combattere l’infelicità dobbiamo partire dalla bellezza: si potrebbe insegnare ai giovani di perdere un po’ più di tempo per dedicarlo a faccende come leggere una poesia, passeggiare al tramonto, ricambiare lo sguardo di un cane, accarezzare una seta d’Oriente, gustarsi lentamente una magnifica pasta e fagioli, odorare una manciata di menta» (p. 99).






Possono apparire, quest’ultime, esortazioni retoriche, sconfinamento nell’astrazione; eppure, recentemente, qualcuno si è accorto dei piccoli piaceri capaci di alleviare il sentimento quotidiano dell’infelicità, attimi fuggenti che inducono al sorriso. È stato un canadese trentenne, Neil Pasricha, che, durante una fase piuttosto buia della sua vita, come antidoto all’infelicità, ha deciso di scrivere un blog in cui registrare almeno una piccola gioia quotidiana. Lo ha chiamato «1000awesomethings» (1000 cose stupende), ed è partito: una nevicata inaspettata; scoprire che ci sono due sedili liberi e dunque una fila tutta per noi in un lungo viaggio aereo; fare un perfetto palloncino con il chewing-gum; mettere fine a un fastidioso singhiozzo; sciogliere un nodo che sembrava impossibile da sciogliere; prendere una fila di semafori verdi; indossare la propria vecchia maglietta preferita; sorridere a uno sconosciuto in autobus e ricevere un sorriso in risposta; avere il cambio esatto di monetine di un cappuccino al bar. E così via. In pochi mesi il blog è diventato un successo mondiale. È stato già visitato da 17 milioni di persone, 50 mila lo leggono in media tutti i giorni.
Palliativi; brevi, effimere illusioni di ben essere? Forse; ma anche speranza consolatrice, così come ci conferma – a diverso livello – l’accredito di un insigne psico-biologo quale Vittorino Andreoli nel capitolo quarto (“Infelicità e salute”): «Sono un infelice che immagina che ci sia spazio per la felicità… mi propongo in ogni momento di aiutare gli infelici a essere almeno sereni. Molti sostengono che ci riesco, lo dicono per rendermi un poco meno infelice» (p. 133). E “meno infelici” si può divenire: Maurizio Andolfi lo testimonia nel saggio sull’infelicità del bambino (il penultimo della raccolta) e Bruno Callieri nel capitolo conclusivo, una quindicina di pagine di densissima allusività (e talvolta di impervia scrittura), capitolo che sfida il lettore non specialista sul tema dell’ambiguità della scelta fra sicurezza e desiderio, fra speranza e felicità.

A lettura conclusa, può convenirsi col Curatore che in questo libro non ci sono né ricette né rimedi. C’è piuttosto un tentativo di rimettere la parola e l’ascolto al centro del discorso. E di restituire dignità ad una condizione umana. Tentativo che può dirsi riuscito in sufficiente misura. Peccato che il contenuto debba soffrire alcuni deficit formali, seppure di veniale entità: la presenza dissonante di una intervista – l’unica – in un contesto di stesure tutt’altro che discorsive, la rilevante disparità di linguaggio fra i contributi, la disinvoltura di un editing che, ad esempio, ha graziato l’aggettivo «radicale» ventinove volte (!) in trentotto pagine ed una duplice bibliografia – la prima con note in calce e la seconda a fine capitolo – di complessive 36 voci per 14 pagine di testo.

Benedetta Marra