Recenti studi sulla patogenesi della cardiomiopatia ipertrofica



È noto che la cardiomiopatia ipertrofica è causata da mutazioni genetiche del sarcomero (Richard P, Villard E, Charron P, et al. The genetic bases of cardiomyopathies. J Am Coll Card 2006; 48: 79) e che la diagnosi clinica si basa sull’identificazione di una ipertrofia ventricolare sinistra non altrimenti spiegata: tuttavia questo rilievo è possibile quando la malattia è in fase clinicamente conclamata. Per contro, la diagnosi genetica consente di identificare le mutazioni del sarcomero anche nei portatori senza cardiomiopatia ipertrofica conclamata, che sono a elevato rischio di sviluppare la malattia. Inoltre lo studio di questi portatori consente la dimostrazione di iniziali manifestazioni subcliniche che precedono il rimodellamento patologico della malattia clinicamente conclamata e che influenzano la funzione diastolica.
Caratteristica fondamentale della cardiomiopatia ipertrofica è la fibrosi miocardica, che contribuisce alla morte cardiaca improvvisa, alla tachiaritmia ventricolare, alla disfunzione ventricolare sinistra e all’insufficienza cardiaca.
Recenti studi hanno indicato che nei pazienti con cardiomiopatia ipertrofica conclamata il metabolismo del collageno è aumentato e i marcatori di questo metabolismo sono stati misurati per valutare i processi che preludono alla fibrosi in pazienti con malattia conclamata e in soggetti nei quali non si è ancora sviluppata l’ipertrofia ventricolare sinistra (Ho CY, Lopez B, Coelho-Filho OR, et al. Myocardial fibrosis as an early manifestation of hyperthrophic cardiomyophaty. N Engl J Med 2010; 363: 552).
Gli autori ricordano che i biomarcatori della sintesi e della degradazione del collageno ne riflettono il metabolismo; durante la sintesi del collageno, dal precursore procollageno tipo 1 viene liberato il propeptide terminale C del procollageno  tipo 1 (PIPC) e il livello sierico di questo marcatore riflette la sintesi del collageno miocardico di tipo 1; infatti l’aumento della concentrazione di PICP nel siero è in correlazione con gravità di ipertensione, insufficienza cardiaca e infarto miocardico.
Ho et al (loc cit) hanno studiato 38 soggetti con mutazione del sarcomero e cardiomiopatia ipertrofica  clinicamente conclamata, 39 soggetti con mutazioni, ma senza ipertrofia ventricolare sinistra e 30 controlli esenti da mutazioni.
È stato osservato che il livello sierico di PICP è significativamente più elevato nei soggetti portatori di mutazioni, ma senza ipertrofia ventricolare e in quelli con cardiomiopatia ipertrofica conclamata rispetto ai soggetti di controllo. Inoltre, il rapporto tra PICP e terminale C del collageno di tipo 1 (CITP), che è indice di equilibrio dinamico tra sintesi e degradazione del collageno di tipo 1, non è risultato modificato nei portatori di mutazioni senza ipertrofia ventricolare sinistra, mentre è risultato aumentato nei pazienti con malattia conclamata. Gli autori ritengono che le mutazioni del sarcomero provochino l’aumento della sintesi del collageno, inizialmente bilanciato dalla degradazione, e quindi limitando la fibrogenesi. Nella cardiomiopatia ipertrofica conclamata la sintesi prevale sulla degradazione, con conseguente sviluppo di marcata fibrosi. Gli autori osservano, in proposito, che questi eventi possono spiegare, almeno in parte, il rinforzo tardivo al gadolinio nella risonanza magnetica nucleare cardiaca, che è risultato presente nella maggioranza dei pazienti con malattia conclamata e assente nei portatori di mutazioni senza ipertrofia ventricolare sinistra nonostante elevati livelli sierici di PICP. Gli autori rilevano che queste osservazioni contrastano con l’interpretazione della fibrosi miocardica come risposta secondaria al rimodellamento fisiopatologico in varie condizioni cardiache, come ischemia e anomalie microvascolari, mentre sarebbero confermate da studi su modelli animali che indicano una iniziale attivazione di meccanismi genetici profibrotici. Questi dati sperimentali potrebbero essere trasferiti alla patologia umana, indicando che la fibrosi miocardica è una conseguenza di mutazioni del sarcomero.
Gli autori concludono ritenendo che i loro risultati indicano che il monitoraggio dei livelli dei biomarcatori della sintesi del collageno possa identificare i soggetti a rischio di aritmie, di morte improvvisa o di insufficienza cardiaca e, in ultima analisi, possa indicare nuove prospettive di prevenzione..
Sui rapporti tra obesità,
apnea del sonno
e disfunzione endoteliale
Dal 50 al 70% dei soggetti sovrappeso od obesi hanno un’apnea ostruttiva del sonno (OSA, secondo l’acronimo d’uso internazionale: “obstructive sleep apnea”) e, ciò nonostante, l’OSA, nella maggioranza dei casi, non è riconosciuta  (Kapur V, Strohl KP, Redline S, et al. Underdiagnosis of sleep apnea syndrome in U.S. communities. Sleep Breath 2002; 6: 49). D’altra parte è noto che sia l’obesità che l’OSA sono associate alle alterazioni vascolari endoteliali che sono alla base della progressione del processo arteriosclerotico.
Recentemente è stato ipotizzato che sia soprattutto l’OSA, piuttosto che l’obesità, il fattore responsabile delle alterazioni vascolari endoteliali presenti nei soggetti obesi e, per confermare questa ipotesi, sono stati studiati 71 soggetti con indice di massa corporea da normale a sovrappeso ed a obesità, esaminati con polisonnografia (Jelic S, Lederer DJ, Adams T, et al. Vascular inflammation in obesity and sleep apnea. Circulation 2010; 121: 1014). Per valutare l’infiammazione vascolare e lo stress ossidativo, gli autori  hanno misurato l’espressione del fattore nucleare kB e della nitrotirosina mediante immunofluorescenza in cellule endoteliali venose.



La produzione e l’attività dell’ossido nitrico (NO) endoteliale in condizioni basali sono state misurate in base all’espressione della sintetasi di NO endoteliale (eNOS) e di eNOS fosforilata. Mediante la misura della dilatazione mediata dal flusso nell’arteria brachiale, è stata valutata anche la reattività vascolare.
È stato osservato che l’espressione di eNOS e di eNOS fosforilata e la dilatazione mediata dal flusso sono ridotte in maniera significativa nei pazienti con OSA a confronto con i pazienti senza OSA, indipendentemente dalla presenza di adiposità centrale. Per contro, l’espressione di nitrotirosina è risultata significativamente maggiore nei soggetti con OSA rispetto a quelli senza OSA, anche in questo caso indipendentemente dall’adiposità centrale. Per quanto concerne lo stress ossidativo, l’espressione di fattore nucleare kB è risultata maggiore nei pazienti con OSA rispetto a quelli senza OSA. Gli autori sottolineano che, dopo trattamento per 4 settimane con pressione positiva continua sulle vie aeree, la dilatazione mediata dal flusso e l’espressione di eNOS e di eNOS fosforilata sono aumentate in maniera significativa, mentre l’espressione di nitrotirosina e di fattore nucleare kB si è ridotta significativamente nei pazienti con OSA trattati per  ≥4 ore al giorno.
Gli autori ritengono che questi risultati indichino che è l’OSA, piuttosto che l’obesità, la più importante determinante della disfunzione endoteliale dell’infiammazione e dell’elevato stress ossidativo che si osservano negli obesi; in assenza di OSA l’aumento del peso e l’obesità centrale non si associano a disfunzione vascolare endoteliale, a infiammazione e ad aumentato stress ossidativo; inoltre l’aumento dell’adiposità non sembrerebbe aggravare gli effetti dell’OSA sull’endotelio vascolare.
 È stato inoltre osservato che i pazienti con OSA presentano alterazioni della funzione endoteliale che sono reversibili con pressione positiva continua sulle vie aeree indipendentemente dalla gravità dell’obesità e ciò dimostrerebbe che l’OSA è in grande parte responsabile di queste alterazioni ed è il più importante fattore che contribuisce alla disfunzione endoteliale, all’infiammazione e allo stress ossidativo dei pazienti obesi. A questo proposito gli autori ritengono che gli episodi ciclici di ipossia associata a interruzione del respiro, caratteristici dell’OSA, possano promuovere ipossia e infiammazione del tessuto adiposo.
Sindrome da sovrapposizione tra BPCO ed apnea ostruttiva
del sonno
L’associazione di broncopatia cronica ostruttiva (BPCO) con apnea ostruttiva del sonno (OSA) è chiamata “sindrome da sovrapposizione” (SSP). I pazienti con questa sindrome hanno una prognosi peggiore rispetto a quelli con  OSA o BPCO isolate. Ciò è dovuto ai più frequenti episodi di desaturazione di ossigeno e al più prolungato tempo di ipossiemia e ipercapnia durante il sonno; inoltre in questi soggetti gli episodi di apnea comportano una più accentuata ipossiemia e una maggiore frequenza di aritmie con frequente comparsa di ipertensione polmonare e insufficienza cardiaca destra. Infine la SSP comporta una minore sopravvivenza a 5 anni.
In un recente studio su pazienti con BPCO sono state valutate le seguenti ipotesi: 1) l’OSA non trattata in pazienti con BPCO (SSP) è associata a più alta mortalità che nei pazienti con BPCO, ma senza OSA e 2) la pressione continua positiva continua sulle vie aeree (CPAP, secondo l’acronimo d’uso internazionale: “continuous positive airway pressure”) influenza favorevolmente la prognosi, il decorso e la prognosi dei pazienti con SSP (Marin JM, Soriano JB, Carrizo SJ, et al. Outcomes in patients with chronic obstructive pulmonary disease and obstructive sleep apnea. The overlap syndrome. Am J Respir Crit Care Med 2010; 182: 325).
Sono stati studiati 228 pazienti con SSP trattati con CPAP, 213 con SSP non trattati con CPAP e 210 pazienti con BPCO senza OSA; tutti questi soggetti erano esenti da insufficienza cardiaca, infarto miocardico o ictus; il periodo di osservazione è stato in media di 9,4 anni. Sono stati considerati punti di riferimento la mortalità per tutte le cause e la prima riacutizzazione di BPCO richiedente ricovero in ospedale.
Gli autori hanno potuto confermare che l’associazione di BPCO e OSA comporta un’aumentata mortalità a confronto con la BPCO da sola. Inoltre un efficace trattamento dell’OSA riduce la mortalità nei pazienti con SSP. Infine i pazienti con SSP, all’inizio dello studio, hanno presentato una aumentata incidenza di riacutizzazioni di BPCO, pur presentando gli stessi marcatori di gravità della malattia e ricevendo lo stesso trattamento. Gli autori richiamano l’attenzione sul fatto che, durante il periodo di studio, i pazienti con SSP trattati con CPAP hanno presentato un periodo di tempo senza complicazioni dopo il primo ricovero simile a quello dei pazienti con sola BPCO.
Gli autori passano in rassegna le ipotesi emerse per spiegare i meccanismi che conducono alla mortalità per SSP. A questo proposito osservano che nei pazienti con OSA e con simile indice di apnea-ipopnea (AHI) la presenza di BPCO si associa a più intensa ipossiemia notturna e che, mentre nei pazienti con OSA l’ipossiemia è rara nelle ore diurne, essa è molto frequente nei pazienti con SSP. Inoltre nei pazienti con SSP e con BPCO da lieve a moderata è stata osservata frequentemente ipertensione polmonare associata a ipossiemia diurna. È noto che, sia OSA sia BPCO si associano a disfunzione endoteliale, aumento del numero di mediatori dell’infiammazione e accelerata arteriosclerosi, tutti fattori associati a ridotta sopravvivenza. Infine, l’OSA, attraverso stimolazione simpatica, infiammazione e stress ossidativo, può condurre a insulinoresistenza, ipertensione e cardiopatie. In questo studio è stato rilevato che un efficace trattamento dell’OSA ha ridotto la mortalità nei pazienti con SSP e che i benefici effetti della CPAP sembrano correlati a una significativa riduzione nella mortalità cardiovascolare osservata nei pazienti con SSP trattati con CPAP rispetto a quelli non trattati.



Gli autori richiamano l’attenzione sul benefico effetto della CPAP nel ridurre il numero delle riacutizzazioni della BPCO nei pazienti con OSA associata, sebbene non sia determinato il meccanismo per il quale questo effetto si verifica. È stato ipotizzato che la ventilazione non invasiva risolva l’aumentato carico meccanico imposto dall’iperinflazione su muscoli respiratori ipofunzionanti, normalizzi l’ipossiemia notturna, migliorando la qualità del sono e ripristinando la responsività al CO 2 che è ridotta in questi pazienti.
L’obesità come fattore di rischio della fibrillazione atriale
La prevalenza della fibrillazione atriale (FA) è rapidamente aumentata negli ultimi trenta anni e tale aumento non è apparso interamente spiegato dall’invecchiamento della popolazione. Contemporaneamente si è verificato un notevole aumento dell’obesità e del sovrappeso (Wanahita N, Messerli FH, Bangalore S, et al. Atrial fibrillation and obesity: results of a meta-analysis. Am Heart J 2008; 155: 310).
Non sono ancora del tutto chiariti i meccanismi per cui l’obesità rappresenta un rischio di FA. Sono stati ipotizzati, quali importanti fattori di rischio, le dimensioni dell’atrio sinistro e la compromessa funzione diastolica, ma è stata anche attribuita importanza all’associazione tra adiposità addominale e marcatori dell’infiammazione, sebbene non sia ancora definito il ruolo di questi marcatori in questa associazione (Aviles RJ, Martin DO, Apperson-Hansen C, et al. Inflammation as a risk factor of atrial fibrillation. Circulation 2003; 108: 3006).
Nell’ambito del Women’s Health Study (WHS) è stata recentemente esaminata la correlazione tra la misura dell’indice di massa corporea (BMI) e l’incidenza di FA in un gruppo di 34309 donne esenti da malattie cardiovascolari (Tedrow UB, Conen D, Ridker PM, et al. The long- and short-term inpact of elevated body mass index on the risk of new atrial fibrillation. The WHS (Women’s Health Study). J Am Coll Cardiol 2010; 55: 2318).
È stato osservato che il BMI è nettamente associato a rischio di FA, anche tenendo conto dell’influenza di cardiovasculopatie e di altri fattori di rischio, come diabete e ipertensione. Questa correlazione è lineare, con un aumento del 4,7% del rischio di incidenza di FA per ogni kg/m2 di aumento del BMI. Inoltre, un aumento da 1,65 a 1,77 volte del rischio di FA è stato osservato nei soggetti con BMI>30 km/m2, con aumento di rischio di oltre 2 volte nelle donne obese di età inferiore a 60 anni all’inizio dello studio. La valutazione dei marcatori dell’infiammazione effettuata all’inizio dello studio ha ridotto in maniera minima il rischio di FA rappresentato dall’obesità; secondo gli autori, ciò significherebbe che l’infiammazione non è un mediatore importante del rischio di FA costituito dall’obesità.
Un’altra osservazione importante risiede nell’avere notato che l’aggiornamento dei valori di BMI, effettuato nel corso dello studio, ha determinato un significativo aumento di rischio di FA associato con aumento di BMI, sia nei soggetti obesi che in quelli sovrappeso, anche dopo correzione per altri marcatori biologici. Infatti i partecipanti allo studio che sono diventati obesi durante i primi 60 mesi di controllo hanno presentato un aumento del 41% del rischio di incidenza di FA, rispetto ai soggetti che hanno mantenuto il BMI al di sotto di 30 km/m 2; ciò indicherebbe che il rischio di FA può essere modificato con il cambiamento di peso.
Vi sono molte ragioni per cui le modificazioni del BMI modificano il rischio di FA, indipendentemente da condizioni patologiche associate all’obesità. Infatti l’obesità si associa a ingrandimento dell’atrio sinistro e a diminuita funzione diastolica ventricolare sinistra, con conseguente aumento della pressione interatriale sinistra ed è noto che la riduzione del peso si associa a diminuzione dell’ingrandimento dell’atrio sinistro. Inoltre modificazioni dinamiche delle dimensioni e della pressione atriali sinistre rappresentano stimoli alla FA, modificando il substrato atriale sinistro. A ciò si aggiunge la fibrosi atriale determinata dalla prolungata stimolazione atriale associata all’aumento del BMI. Gli autori riconoscono che una limitazione ai loro risultati è data dal fatto che lo studio è stato condotto su soggetti di sesso femminile e ciò riduce la possibilità di generalizzarli a soggetti di sesso maschile e a soggetti di etnia non-caucasica, i quali potrebbero presentare differenti fattori di rischio.
Studi sul tessuto adiposo
in condizioni cliniche critiche
Recenti studi hanno indotto a ritenere che il tessuto adiposo possa avere un ruolo protettivo in occasione di gravi condizioni patologiche. È noto infatti che i pazienti in condizioni critiche, richiedenti una prolungata terapia intensiva, presentano una notevole riduzione della massa magra con conseguente profonda astenia e compromissione della riabilitazione. In queste condizioni, paradossalmente, il tessuto adiposo è risparmiato e i soggetti sovrappeso (indice di massa corporea [BMI] 25-30 kg/m 2) e obesi (BMI 30-40 kg/m2) in condizioni critiche presentano un rischio di obitus minore di quello dei soggetti con BMI normale.
(Fonarov GC, Srikanthan P, Costanzo MR, et al. An obesity paradox in acute heart failure: analysis of body mass index and in hospital mortality for 108.927 patients in the Acute Decompensated Heart Failure National Registry. Am Heart J 2007; 153: 74).
Per spiegare questi eventi sono state studiate le alterazioni del tessuto adiposo che si osservano nei pazienti in condizioni critiche (Langouche L, Vander Perre S, Thiessen S, et al. Alterations in adipose tissue during critical illness. An adaptive and protective response? Am J Respir Crit Care Med 2010; 182: 507).
Questo studio è stato condotto per confermare l’ipotesi secondo la quale il tessuto adiposo risponde a condizioni patologiche, accentuando le sue capacità di accumulare tossici metabolici presenti in circolo, migliorando le possibilità di sopravvivenza. Gli autori hanno eseguito post-mortem prelievi di tessuto sottocutaneo addominale e di tessuto adiposo omentale di 61 pazienti non sopravvissuti alle loro condizioni critiche e con un BMI da 16,3 a 31,2 kg/m2; questi reperti sono stati confrontati con quelli ottenuti da 20 soggetti di controllo avviati a interventi chirurgici di elezione. È stata studiata la morfologia del tessuto adiposo e la sua capacità di captare e metabolizzare glucosio e trigliceridi. Inoltre, in 27 pazienti in condizioni critiche, sono state studiate le modificazioni morfologiche del tessuto adiposo in risposta alla situazione critica, in vivo nel tessuto adiposo sottocutaneo; per controllo queste indagini sono state eseguite su modello sperimentale (22 conigli).
Gli autori hanno osservato che, in condizioni cliniche critiche, il tessuto adiposo è alterato, presentando un aumento del numero di adipociti neoformati e una infiltrazione di macrofagi. Un notevole numero di piccoli adipociti presenta accentuata capacità di captare e metabolizzare glucosio e di accumulare trigliceridi, capacità nella quale potrebbe avere un ruolo l’accresciuta attività l’enzima protein-chinasi attivata da AMP (AMPK). Gli autori ritengono che, tenendo presenti l’iperglicemia e la dislipidemia osservate in condizioni critiche, queste alterazioni potrebbero avere un significato adattativo o protettivo.
Gli autori richiamano l’attenzione sull’elevato numero di cellule CD68-positive osservato su tutti gli esami istologici eseguiti nei pazienti in condizioni critiche, sia nel sottocutaneo che nell’omento, e ricordano che la positività CD68 è un marcatore specifico dei macrofagi e che nell’obesità è presente un accumulo di queste cellule nel tessuto adiposo.
A questo proposito passano in rassegna le ipotesi esposte per spiegare l’accumulo di macrofagi nel tessuto adiposo dei soggetti obesi: 1) produzione, da parte di adipociti ipertrofici, di “segnali chemiotattici” che danno luogo a reclutamento di macrofagi nel tentativo di limitare l’espansione del tessuto adiposo, 2) stress ossidativo nell’endotelio causato dalla liberazione di glucosio, con conseguente danno endoteliale nel tessuto adiposo e afflusso di cellule infiammatorie, quali i macrofagi. Al riguardo riferiscono di avere osservato, nei pazienti in condizioni critiche, un aumento di piccoli adipociti nel tessuto adiposo, quale non si osserva in condizioni normali, e ricordano che in condizioni critiche la situazione iperglicemica ha un ruolo nella patogenesi del danno endoteliale. L’accumulo di macrofagi osservato nei pazienti studiati sarebbe in parte dovuto alla complessa condizione ipermetabolica presente in condizioni critiche prolungate, che è molto probabilmente dovuta a una situazione di ipossia. È noto, infatti, che nei pazienti in queste condizioni è presente una riduzione della pressione di ossigeno e del contenuto in ossigeno nel sangue che dà luogo a ipossia cellulare in veri tessuti.
Gli autori concludono ritenendo che i risultati ottenuti indichino che in condizioni critiche è presente un’alterazione del tessuto adiposo, caratterizzata da aumento del numero di piccoli adipociti neoformati e da una infiltrazione di macrofagi. Questo aumentato numero di adipociti provoca captazione di glucosio e di trigliceridi; pertanto il tessuto adiposo diviene metabolicamente attivo con accumulo funzionale di metaboliti potenzialmente tossici, costituendo una reazione protettiva. Su questo aspetto devono essere condotti ulteriori ricerche.