Come sta il nostro paziente?




Appena pronunciate queste parole, il professor Andrea Lotti fu assalito dalla sensazione di aver aperto bocca, come al solito, per emettere una frase oscillante fra la cazzata e la peggiore banalità. Ma come voleva che stesse quel benedetto cristiano? Dopo una chemioterapia che avrebbe steso un toro, nell’attesa di essere squartato come un pollo, come voleva che stesse? Eppure non era riuscito a dire nulla di diverso dalla solita frase di rito seguendo il cliché del medico che visita l’infermo come fosse una scampagnata tra amici. Tutte le volte era la stessa storia.
Abbozzando un sorriso di circostanza, Lotti maledisse la propria timidezza, la propria goffaggine, la propria impreparazione. Già, proprio l’impreparazione gli bruciava, perché, sia durante gli studi di medicina che dopo, nessuno gli aveva mai insegnato nulla a proposito del rapporto col paziente. All’università aveva perso ore e ore a studiare come si disponevano quei benedetti nervi cranici, come si classificavano i vari tipi di leucemie, come si presentavano le più rare malattie metaboliche, argomenti dimenticati dai trenta ai quarantacinque minuti dopo l’esame di profitto e che mai più gli sarebbero serviti, a meno di non essere un super specialista del settore, e anche in quel caso le nozioni inculcate sarebbero state con ogni probabilità completamente abbandonate purché ormai obsolete o non abbastanza precise. Ma mai, mai nessuno aveva considerato né gli aveva offerto delle basi per percorrere quello sdruccioloso e impervio sentiero che era la relazione col malato. E nemmeno aveva potuto nulla la sua pluriennale esperienza maturata sul campo. Dopo trent’anni di lavoro, si trovava ancora lì a cercare di rompere un ghiaccio da banchisa polare con un “… e allora, come sta il nostro paziente?”. Il professor Andrea Lotti, lo doveva miseramente ammettere, era del tutto disarmato di fronte al dolore dei suoi pazienti.

Ma queste considerazioni sembravano non impensierire minimamente Pino. Guardava il suo chirurgo come una donzella rapita dagli indiani avrebbe potuto vedere l”arrivo del settimo cavalleggeri. Totalmente indifferente alle banalità che, date le circostanze, Lotti infilava una dietro l’altra: “… è tranquillo?”, “… riposi bene questa notte eh?”. Su di morale, mi raccomando, queste battaglie si vincono con la voglia di vincere ...”, Pino riguadagnava sicurezza e serenità solo per la presenza del chirurgo. Non era più solo ad affrontare quella catastrofe, insieme avrebbero lottato, potevano vincere o potevano perdere, ma sarebbero stati insieme. Una squadra. In squadra il buio non fa più paura.

Il Lotti cominciò a percepire un lieve stato di benessere che s’infiltrava nella tensione del suo paziente. E come se questo iniziale rilassamento avesse potuto comunicarsi dal corpo di Pino al suo, anche i suoi gesti, il suo atteggiamento, le sue parole persero rigidità, abbandonando cliché e luoghi comuni per farsi più intimi e personali. Gli chiese della mo­glie, dei figli, del lavoro, gli parlò di quella vita che, se proprio avesse dovuto abbandonarlo, non per questo, o per­ché ora si trovava in pigiama come vittima sacrificale, non gli apparteneva più. Le sue parole ridavano energia e sicurezza a Pino e ne ricavavano forza e serenità, e questa scambievole corrente di benessere che s’instaurò tra i due si prolungò in una chiacchierata infinita, fino a che le parole si fusero nei gesti e nel commiato finale. Andrea Lotti abbracciò Pino Ravera come si fa tra camerati prima di perdersi nell’incerto destino della battaglia.
“Allora ci vediamo domattina” salutò il Lotti mettendosi in piedi, appesantito dalla fatica di quell’ennesimo dolore che veniva a incrociare la sua vita e da cui, malgrado l’esperienza e l’abitudine, non riusciva ad affrancarsi e a non restarne contuso.
«Sì, senz’altro, domani... non ho preso impegni” gli rispose con un sorriso il Ravera.
Accennando con la mano un ultimo saluto, la figura del professore svanì dietro la porta.
Pino si ridistese sul letto con le braccia incrociate dietro la testa: nell’animo un’impalpabile sensazione che il domani facesse un po’ meno paura.


Da: Le possibilità della notte,
di Marco Venturino.
Mondadori, Milano 2010.
Pagg. 104-106.