Libri: recensioni
Così piena d’irrefrenabili sospetti è la colpa, ch’ella si scopre da sé
per timore d’essere scoperta

Shakespeare, Amleto, IV, 4
E per tutto il tempo continuò a guardare
il giavellotto che seguiva la propria traiettoria
in un alto, vasto arco sopra il campo

La colpa e la malattia
Due sono i protagonisti dell’ultimo romanzo di Philip Roth, Nemesi. Traduzione di Norman Gobetti, pp. 184. Einaudi, Torino, 2011. Euro 19,00. ISBN 978-88-06-20094-7: la malattia e la colpa.
Al centro della storia, che comincia nel 1944, è un animatore di un campo giochi, il ventitreenne Bucky Cantor, lanciatore di giavellotto, che si dedica con diligenza al suo lavoro e soffre d’essere stato riformato alla leva per difetto di vista («… Non aveva superato la vergogna di non essere coi suoi coetanei ed amici in una Unità aviotrasportata, a saltar giù dall’aereo nel mezzo della battaglia», pagina 84). In quella stessa estate, la poliomielite comincia a falcidiare Newark: la cittadina, il quartiere e la palestra di Cantor. La comunità vive giorno dopo giorno l’angoscia crescente dell’epidemia: panico, sofferenza, sospetto; man mano che la malattia si diffonde, il timore del contagio avvelena ambienti ed abitanti e, con esso, la caccia all’untore, alimentata dai pregiudizi che covano sotto la cenere d’un aggregato multietnico ancora in fieri. Tutto ciò che passa di mano diviene pericoloso: il denaro, la posta: («fai un respiro profondo e rischi di restarci secco…», pagina 161). È il modello di malattia che il Laplantine ha definito “la malattia-punizione”. Avvertita come espiazione di una colpa, collettiva o individuale. Nemesi.
Nel crescendo del dramma, i pensieri e le ansie di Bucky Cantor sono una tormentosa altalena tra richiamo al dovere e senso di colpa, tra recuperata occasione di militanza e desiderabile recidiva di diserzione. Vano il suo proteggere, confortare; vano il mendicare pronostici e rassicurazioni dal bonario dottor Steinberg, saggio medico di famiglia e mancato suocero: («Perché non tutti i bambini cui viene il mal di testa si prendono una polio? Non lo so... Nessuno lo sa. Tu hai una coscienza, ed una coscienza è un lodevole attributo, ma non, se ti spinge a considerarti colpevole di cose che non sono alla portata della tua responsabilità ...», pagina 68).
È anche nel tentativo di liberarsi di questa ossessione, del super Io che lo giudica e lo condanna ogni giorno, che il diligente, altruista mister Cantor cede alla tentazione e diserta. Fugge. Fugge dal campus, dai ragazzi, dalla nonna-madre, dall’affanno quotidiano della Newark equatoriale ed infetta, lontana anni luce dalla salubrità delle incontaminate colline, dove l’accoglie l’affetto protettivo di Marcia, in una sorta di paese delle meraviglie («Là era preda della malattia, qui cibo per le farfalle », pagina 118). Ma il rifugio si torce presto in una straziante piaga dell’anima, ove la Nemesi, da fantomatica vendetta per una colpa presunta, si fa castigo ed espiazione per maleficio di codardia, capace di tramutare una promessa felicità nell’attualità persecutoria d’una interpellanza radicale («come ho potuto fare ciò che ho fatto?»), fino ad una umiliata rinuncia a qualsiasi consolazione: affetti, matrimonio, efficienza, socialità. L’atleta, il sodale Burky, finirà anche lui su una sedia a rotelle, e, convinto d’esser stato egli stesso un untore, continuerà, dopo quasi sei lustri, a trasformare una tragedia in colpa; invalido, anziano, modesto impiegato in un ufficio postale di periferia. («Quel che è stato è stato – disse – quel che ho fatto ho fatto. E di quel che non ho, faccio a meno», pagina 162).




Ancora una volta è da sottolineare, in Roth, l’equilibrio tra fascino della narrazione ed universo morale ad essa sotteso. Il titolo di questo romanzo breve, ineccepibilmente costruito per tempi e per scadenze, ci introduce, con determinazione, nella temperie della tragedia greca: il precipitare degli eventi, la disarmata consapevolezza dei personaggi sfidano l’Autore a tessere il filo del suo incandescente confronto con il fato. («... La sua rabbia non era rivolta contro il virus della polio, ma contro la fonte, contro il Dio che aveva creato il virus», pagina82). Si avvertono echi de “La peste” di Camus e de “La morte a Venezia”, così come, a proposito del peccato di codardia di Bucky Cantor (quello presunto e quello commesso), viene alla mente il Lord Jim di Conrad. Ma l’originalità di “Nemesi” si nutre della sua duplice possibilità di lettura: il ritratto devastato della scissione cui può pervenire una indifesa coscienza e l’interpellanza dell’arte all’irredimibile dramma della vulnerabilità umana. Roth capovolge l’assunto consolatorio del “giovane” quale privilegiato oggetto d’amore degli dei; a costoro elevando, piuttosto, l’urlo del lutto per l’innocenza tradita, il rifiuto della rassegnazione di un Giobbe che si confronta con una onnipotenza malvagia.
È sulla scia di questo scandalo esistenziale – «la vulnerabile invulnerabilità della giovinezza» (secondo la felice espressione di Antonio D’Orrico) – che si forgia gran parte della poetica rothiana: il conflitto costante – da “Controvita” ad “Everyman”, da “La macchia umana” a “L’animale morente” – fra desiderio e destino, pienezza e deficit, immortalità e finitudine. («Mentre correva con il giavellotto in alto, mentre allungava il braccio ben dietro il corpo, mentre lo riportava in avanti per rilanciare il giavellotto in alto sopra la spalla, e poi lo rilasciava come una esplosione – ci sembrava invincibile» (pagina 183). Con nobile icasticità – «ci sembrava invincibile» – si conclude il romanzo. Non si può non aggiungere – ed è una costante per l’intera stesura – l’incantamento per la perfezione della prosa, la musicalità del linguaggio, l’aderenza del veicolo metaforico. Roth possiede quel di più che Nietzsche definì «il terzo orecchio»: la capacità di trasmettere contenuti complessi in una forma che non ha bisogno d’interpreti; «grazie ad una sorta di definitività matematica, una frase perfetta non ammette un numero infinito di varianti, non può essere prolungata senza danni estetici», scrive James Wood nella sua Storia delle tecniche narrative; ed aggiunge: «La sua perfezione è la soluzione del proprio enigma: non lo si poteva dir meglio».
E si può, “dir meglio”, descrivere con più alta liricità, l’umbratile atmosfera che sublima, lieve e misericordiosa come un sudario, l’intero capitolo-epilogo del romanzo? il colloquio tra Cantar, ormai invecchiato e deluso, ed Arnold Mesnikoff, uno dei “suoi” ragazzi che nel ’44 aveva contratto la malattia e che, dopo quasi trent’anni, rivanga memorie, rimpianti, rimorsi?
In un confronto che alterna modi sommessi e radenti a vibrati irosi e ribelli, si testimonia il tempo che fugge: l’amarezza per il declino dell’onnipotenza e l’urgenza del vivere. E non è questo lo strale che ferisce da sempre – come una Nemesi – ogni umana creatura?

Alice Morgan
USA, il medico ieri e oggi:
onore e verità?

La storia della medicina in USA non si addice ai deboli di cuore. È andata infatti svolgendosi con modalità spesso crudeli, alcune volte brutali, attraverso piccoli passi, punteggiati da sporadici, clamorosi successi. Così la pensa Ira Rutkow, chirurgo ospedaliero che firma il recente Seeking the cure: a history of Medicine in America. Pp 356. Scribner, New York, 2010. Dollari 28. ISBN 978-1-4165-3828-8. Il libro racconta e commenta episodi e protagonisti significativi della medicina nord-americana dal 1720 ai nostri giorni. Itinerario interessante, anche se non sempre gradevole.
Un esempio fra molti è quello di Benjamin Rush, rispettato gentiluomo ed uno dei cinque medici che firmarono la Dichiarazione di Indipendenza. Ma egli è anche ricordato negli Annali del suo Paese per la “terapia eroica” da lui e dai suoi allievi caldeggiata ed imposta – ahinoi – per lunghi anni ai numerosi pazienti, per i più svariati disturbi, gravi o lievi che fossero. Il rimedio era compendiato in quattro parole: salasso, ventose, purgante e vomito. L’ideatore non lo pose mai in discussione, nonostante vistosi insuccessi e critiche man mano meno timide. La fede di Rush ed adepti in quell’esplosiva “miscela” di sali di mercurio – lo battezzarono «il farmaco-Sansone» – sfidò ad oltranza, per anni, l’evidenza dannosa del trattamento. Rutkow sottolinea due corollari di così macroscopiche anomalie. Il primo: l’acquiescenza acritica alle “mode” (in qualsivoglia area del contesto sociale) che è il principale avversario del vero sapere. Il secondo: personalità prepotenti e personaggi eccentrici di tal grado esercitano un’influenza negativa pari a quella che possono provocare epidemie, conflitti, catastrofi economiche. Tesi che, al di là di ardita apparenza, ha trovato fondamento – non solo nel campo medico – fino ai nostri giorni.
Il libro ci fornisce copiosa casistica di piccole ma ghiotte cronache, fino a ricordare alcuni soprannomi che la dicono lunga e che, al loro tempo, costituirono patenti di autorevolezza ed oggi inducono ilarità: Rush come l’“Ippocrate d’America”; un non meglio noto Zabdiel Boylston quale “Il Grande Inoculatore”; William Welche addirittura con due nomignoli: per gli intimi “Popsy” e per la Storia “Il Decano”. Vengono poi ricordate alcune tragiche biografie di medici che pur ambirono a traguardi ed a meriti pubblici. William Morton, Horace Wells e Charles Jackson: ciascuno vantava diritto e relativo riconoscimento per aver messo a punto la pratica dell’anestesia in sala operatoria. Ma non onori ebbero, bensì tristissimo destino, tutti e tre: Morton, destituito, esitò in paranoia; Wells si suicidò a 33 anni; Jackson, deluso e invalido, concluse in manicomio i suoi ultimi anni. Ed ancora: uno dei pionieri del Johns Hopkins Hospital, il professor William Halsted, celebrato ai suoi giorni come geniale chirurgo, cittadino esemplare, fu riconosciuto, pochi mesi dopo la sua uscita di scena, quale incallito tossicodipendente. Una citazione – continua l’Autore – merita anche Edwin Pratt, ciarlatano della medicina ottocentesca e pioniere della pratica omeopatica di chirurgia “degli orifizi”. Nella triste constatazione che l’irrazionale non conosce confini, ci viene perfino documentato che ci fu un periodo, peraltro non remoto, in cui, in Harvard, venne bandita l’antisepsi!
Il libro – tuttavia – non si limita a raccontarci episodi singoli, più o meno significativi, degni o deprecabili; illustra la storia delle tante Scuole mediche USA, della professione, delle specializzazioni, del giornalismo medico, l’avvento della ricerca e la nascita della medicina scientifica, l’origine e l’ascesa dell’American Medical Association, la nascita di Medicare. Apprendiamo, da queste pagine, che nel 1917 l’oftalmologia divenne la prima specializzazione ufficiale e che la prima testata di medicina negli USA fu il mensile “The Medical Repository”.



Una sezione particolarmente stimolante del volume è dedicata ad un interrogativo tanto fondamentale quanto (apparentemente) semplice da soddisfare: come si fa a diventare un buon medico? La stessa domanda costituì il nucleo originario di un manuale scritto da un certo dottor Cathell nel 1882, più di centoventi anni fa. Il libretto (190 pagine) voleva essere – ed in buona parte, scrive Ira Rutkow, ci è riuscito – una guida etica e comportamentale alla professione, fondata su due virtù pregiudiziali: onore e verità. Cathell aveva ragione: oggi come ieri, tener fede a queste due categorie costituisce un’imprescindibile premessa ad un corretto esercizio della pratica medica. Non a caso, del resto, il libro di Rutkow si apre con una singolare, impegnativa proposizione secondo la quale la medicina sarebbe una «quasi-religione», e si conclude con una sorta di dolente inventario delle sfide con cui attualmente trova a confrontarsi il sistema salute degli Stati Uniti: costi ingravescenti, dilemmi etici di nuova portata, frammentazione dei Servizi, crisi del rapporto medico-paziente, crescente divario tra domanda ed offerta.
L’Autore ha voluto ricordarci che la conoscenza del passato è indispensabile per la costruzione di un futuro: e anche per questa ragione di fondo il libro è raccomandabile; peccato che il testo non sia arrivato ad aggiornarsi alla luce della Riforma fortemente voluta ed attuata (seppure non in toto) dalla presidenza Obama.



Gaia de Bouvigny