Medicina e letteratura: un’antologia
Amore mio, lasciati andare
Di nuovo le si è steso accanto, ma stavolta più comodamente, quasi come se fossero nel loro letto, a casa. Lei respirava in modo fluido, sembrava che non soffrisse più, Scivolava in uno stato crepuscolare che a un certo punto sarebbe diventato morte, e fino a quel punto lui l’ha accompagnata. Ha iniziato a parlarle all’orecchio, a voce molto bassa, e parlando a toccarle dolcemente la mano, il viso, il seno, ogni tanto la baciava, con la punta delle labbra. Pur sapendo che il suo cervello non era più in grado di analizzare le vibrazioni della sua voce né il contatto della sua pelle, era sicuro che la sua carne le percepiva ancora, che entrava nell’ignoto sentendosi avvolta da qualcosa di amorevole e familiare. Lui era lì. Le ha raccontato la loro vita e la felicità che lei gli aveva regalato. Le ha detto quanto aveva amato ridere con lei, parlare con lei di tutto e niente, e perfino litigare. Le ha promesso che sarebbe andato avanti senza cedimenti, che si sarebbe preso cura delle piccole, non doveva preoccuparsi. Sarebbe stato attento a che mettessero la sciarpa, non avrebbero preso freddo. Le ha cantato delle canzoni che amava, descritto il momento della morte come un grande flash, un’onda di pace di cui non abbiamo idea, un beato ritorno all’energia collettiva. Un giorno ci sarebbe passato anche lui, l’avrebbe raggiunta. Queste parole gli venivano facili, le articolava a voce molto bassa, molto calma, ne restava a sua volta suggestionato. È la vita che fa male resistendo, ma il tormento di essere vivi volgeva al termine. L’infermiera gli aveva detto: le persone che lottano muoiono più in fretta. Se durava tanto, pensava Patrice, forse era perché aveva smesso di lottare, e quello che ancora viveva in lei era tranquillo, disteso. Smetti di lottare, amore mio, molla, molla, lasciati andare.
Verso mezzanotte, tuttavia, si è detto che non era possibile, non era possibile che il giorno dopo fosse ancora in quello stato. Alle quattro di mattina, ha deciso, stacco il respiratore. Ma all’una non ne poteva più di aspettare, ha pensato che fosse lei a trasmettergli quell’impazienza ed è andato in cerca dell’infermiera di guardia per chiederle se non si poteva staccarla perché, secondo lui, il momento era arrivato. L’infermiera ha detto che no, rischiava di essere troppo violento, meglio non intervenire.
Più tardi si è addormentato. Un elicottero l’ha svegliato un po’ prima delle tre, ha stazionato a lungo sopra l’ospedale. In segui­to ha tenuto gli occhi fissi sulla sveglia. Alle quattro meno un quarto la respirazione di Juliette, ormai ridotta a un filo d’aria, si è arrestata. Lui è rimasto un istante in allerta ma non c’era più nulla, il suo cuore non batteva più. Si è detto che lei doveva aver intuito quello che intendeva fare alle quattro e che gliel’aveva risparmiato.

Da: Vite che non sono la mia,
di Emmanuel Carrère.
Traduzione di Maurizia Balinelli.
Einaudi, Torino 2011.
Pagg. 220-221.