Dalla letteratura



Recenti studi
sulla colite microscopica
Il termine di colite microscopica (CM) si riferisce a due forme di colite idiopatica: la colite collagena e la colite linfocitica. Clinicamente questa forma di colite è caratterizzata da diarrea acquosa cronica e ricorrente, senza sanguinamento. La mucosa del colon appare normale alla colonscopia e normali appaiono i quadri radiografici e della tomografia computerizzata. Per dimostrare la presenza di colite è richiesta l’analisi istologica di campioni di colon. La colite linfocitica presenta un aumentato numero di linfociti intraepiteliali nell’epitelio del colon e un aumentato numero di cellule infiammatorie croniche sottoepiteliali.
Recenti studi hanno indicato un aumento dell’incidenza della CM e sono state emesse varie ipotesi sulla sua patogenesi.
Pardi e Kelly hanno recentemente passato in rassegna i problemi riguardanti gli aspetti clinici, la diagnosi, l’epidemiologia, la fisiopatologia e il trattamento della CM (Pardi D, Kelly CP. Microscopic colitis. Gastroenterology 2011; 140: 1155).
Gli autori ricordano che il termine “colite collagena” fu coniato nel 1976 a seguito dell’osservazione di un paziente con diarrea cronica che alla biopsia del colon rivelò uno strato collageno subepiteliale ispessito, simile a quello che si osserva nella sprue. Al momento attuale, non appare chiaro se le coliti linfocitica e collagena siano due entità distinte o parte di un unico quadro morboso. In realtà esiste una sovrapposizione di quadri istologici, anche se sono evidenti ispessimenti di bande collagene che configurano differenti aspetti istologici.
La CM può comparire a qualsiasi età ma è più frequente nella media età e nell’età avanzata, e può associarsi a disordini autoimmunitari e, in particolare, a malattia celiaca.
Secondo l’esperienza degli autori, la CM è relativamente frequente tra i pazienti che hanno una colonscopia con biopsia per valutare una diarrea cronica ricorrente non ematica (Pardi DS, Loftus EV Jr, Smyrk TC, et al. The epidemiology of microscopic colitis: a population based study in Olmsted County, Minnesota. Gut 2007; 56: 504).
L’incidenza della CM varia da 1 a 12 per 100.000 persone per anno; in Europa è stato osservato che la colite collagena ha un’incidenza variabile da 1,1 a 5,2 per 100.000 persone per anno e la colite linfocitica un’incidenza variabile da 3,1 a 4,0 per 100.000 persone per anno. Negli Stati Uniti e in Europa la CM (collagena e linfocitica) ha presentato un aumento di incidenza negli ultimi anni. Le ragioni di questo incremento non sono chiare, ma ad esso potrebbe avere contribuito il progredire delle conoscenze su questi problemi e la più frequente occasione di biopsie.
La CM sembra più frequente nel sesso femminile; il rapporto sesso maschile: sesso maschile varia da 3:1 a 9:1. Non è chiaro se vi è una predisposizione genetica alla CM; sono stati descritti casi famigliari, ma non è chiaro se questi casi riflettano un’associazione con un tratto famigliare o un’associazione casuale.
Non è stato osservato un evidente incremento del rischio di carcinoma colonrettale. Sono stati segnalati in realtà alcuni casi di carcinoma polmonare in pazienti con CM, ma ciò potrebbe essere dovuto a casi di carcinoma polmonare in pazienti con colite collagena, nei quali il fumo di tabacco è più frequente che tra i pazienti con colite linfocitica.
Vari meccanismi sono stati proposti nella patogenesi della CM. La gravità della diarrea è in rapporto all’intensità dell’infiammazione. Numerosi studi hanno indicato che nella CM si osserva un alterato assorbimento di elettroliti o un’aumentata secrezione. La sottoregolazione delle molecole che costituiscono le strette giunzioni intraepiteliali contribuisce alla perdita di funzione di barriera, causando perdita di liquidi e di elettroliti.
Nella CM sono stati segnalate aumentate concentrazioni di ossido nitrico e di prostaglandine e aumento di sintetasi inducibile di ossido nitrico. Inoltre, nei pazienti con CM è presente nella mucosa colica il fattore nucleare kB, che è mediatore delle risposte infiammatorie. Nonostante queste conoscenze, l’etiologia della CM è tuttora ignota, anche se i più probabili modelli patogenetici comprendono un processo autoimmunitario o una risposta infiammatoria a fattori luminali e, per quanto riguarda la colite collagena, una disfunzione miofibroblastica.
Per quanto concerne l’autoimmunità, gli autori ricordano che è evidente un’associazione tra CM e parecchi fattori autoimmunitari. In effetti la CM è associata ad altre condizioni autoimmunitarie e circa il 40% dei pazienti con CM ha una patologia autoimmunitaria, come ad esempio malattia celiaca, tiroidite, diabete mellito tipo 1 o artrite reumatoide. È stato riportato che pazienti con colite collagena presentano un significativo aumento della concentrazione sierica di immunoglobulina M e una tendenza all’aumento di anticorpi antinucleari. Gli autori sottolineano, a questo riguardo, che ciò nonostante non esistono distinti e clinicamente utili marcatori autoimmunitari della CM.
Nella patogenesi della CM sono stati implicati vari fattori luminali, come antigeni dietetici, farmaci, sali biliari e prodotti batterici e tossine. Il ruolo di questi fattori ha trovato conferma nell’osservazione che il quadro istologico della CM si risolve qualora la corrente fecale venga deviata da un’ileostomia (Jarnerot G, Bohr J, Tysk C, et al. Faecal stream diversion in patients with collagenous colitis. Gut 1996; 38: 154).
Tra i farmaci più studiati nella patogenesi delle CM sono gli antiinfiammatori non steroidei (FANS), anche se alcuni studi non hanno confermato questa associazione. Le ricerche in tal campo sono state rivolte soprattutto alla colite collagena e alla sua associazione con sindrome dell’intestino irritabile o malattia diverticolare del colon. Uno dei fattori maggiormente confondenti in questi studi è rappresentato dalla frequente presenza di artralgie nei pazienti con CM, presenza che ha favorito l’uso di FANS.



Questi possono provocare danno alla mucosa del tenue e del colon e aggravare una malattia infiammatoria intestinale ed è probabile che aggravino una CM. I pazienti con colite collagena che assumono FANS richiedono spesso anche corticosteroidi ed è stata proposto che la colite associata ai FANS sia una condizione patologica distinta che comprende un’enteropatia proteino-disperdente, una ipoproteinemia e il quadro istologico della colite collagena: quadro che può evolvere verso l’ulcerazione e anche la perforazione della mucosa. Gli autori si soffermano sull’uso degli inibitori della pompa protonica nell’intento di proteggere la mucosa intestinale dei FANS (
Wilcox GM, Mattia AR. Microscopic colitis associated with omeprazole and esomeprazole exposure. J Clin Gastroenterol 2009; 43: 551). A questo proposito viene rilevato che, a motivo dell’associazione tra CM e FANS, l’uso di questi farmaci deve essere attentamente controllato nei pazienti con diarrea acquosa o con CM di nuova diagnosi. Molti studi hanno indicato che infezioni batteriche o produzione di tossine possono causare CM e che la colestiramina può fissare le tossine batteriche e alleviare la diarrea di tali pazienti, determinando, a volte, anche un miglioramento del quadro istologico. In queste condizioni è stato usato con successo anche il bismuto orale, che possiede attività antibatterica.
Viene indagato il ruolo degli acidi biliari quali fattori luminali che possono contribuire alla patogenesi della CM. Il malassorbimento degli acidi biliari causa diarrea secretoria del colon e le alterazioni morfologiche che si verificano nell’intestino durante il malassorbimento degli acidi biliari si sovrappongono a quelle della CM, compresa l’infiltrazione di cellule infiammatorie e la deposizione di collageno. Molti studi hanno dimostrato le anomalie nella produzione del collageno, nella sua struttura e degradazione e nella funzione dei miofibroblasti sotto l’epitelio criptico del colon in pazienti con colite collagena, nei quali lo strato di fibroblasti pericriptico è aumentato di spessore con aumento di cellularità. L’anomalia di struttura e di funzione dei miofibroblasti pericriptici che si osserva nella CM appare una risposta secondaria a mediatori infiammatori della mucosa colica. Gli autori rilevano che vari meccanismi sono stati proposti nella patogenesi della CM, sebbene non ve ne sia uno riconosciuto dominante.
Tra gli aspetti clinici della CM, si sottolina l’importanza della diarrea, che può essere cronica o intermittente e variabile da lieve e autolimitantesi a grave con disidratazione e varie anomalie metaboliche. A volte sono presenti dolore addominale e perdita di peso; il dolore è caratteristicamente lieve, ma a volte può essere notevole. L’intensità della diarrea può compromettere la qualità di vita, specialmente se vi è dolore addominale o incontinenza fecale. È necessario tenere presente che la sintomatologia della CM non è specifica e in realtà molti pazienti con CM confermata alla biopsia presentano una sintomatologia tipica di sindrome da intestino irritabile (IBD) e soltanto la biopsia può consentire la diagnosi.
In molti pazienti con CM sono presenti artralgie e varie condizioni autoimmunitarie, come distiroidismo, artrite reumatoide, psoriasi. In alcuni casi si rileva un aumento della velocità di eritrosedimentazione, oppure una positività degli anticorpi antinucleari o di altri marcatori di autoimmunità.
Una particolare importanza ha l’associazione tra CM e malattia celiaca: in circa il 33% dei pazienti celiaci si rinvengono, alla biopsia del colon, alterazioni istologiche tipiche di CM, mentre la prevalenza di alterazioni istologiche tipiche di malattia celiaca varia dal 2 al 9% dei pazienti con CM. Tuttavia i pazienti con CM non presentano frequentemente marcatori sierologici di malattia celiaca; infatti gli anticorpi antiendomisio si trovano nello 0%-4% dei pazienti e gli anticorpi antitransluminasi non sono presenti in tutti i casi di CM; questi anticorpi sono a titolo più basso nei pazienti con CM rispetto ai pazienti con malattia celiaca. Pertanto l’esame sierologico può non essere utile per rivelare una malattia celiaca in un paziente con CM. Secondo gli autori la presenza di una malattia celiaca dovrebbe essere presa in considerazione in pazienti con CM refrattaria al trattamento e in quelli con significativa perdita di peso, oppure in un’anemia sideropenica non altrimenti spiegata.
Pochi casi di pazienti con CM che successivamente hanno manifestato IBD sono stati segnalati. Alcuni pazienti con CM presentano quadri istologici caratteristici di IBD, come metaplasia delle cellule di Paneth e distorsione della struttura delle cripte. A causa di questa scarsità di casi, gli autori ritengono che l’associazione tra CM e IBD sia casuale.
La storia naturale della CM varia ampiamente. Infatti la percentuale delle remissioni della sintomatologia va dal 60 al 94% nei pazienti con colite linfocitica e dal 2 al 92% in quelli con colite collagena. Altri studi hanno riportato remissioni spontanee nel 15% dei casi e dal 12% al 40 di remissioni al placebo dopo 6-8 settimane.
All’endoscopia, la CM presenta un colon caratteristicamente normale con lievi alterazioni non specifiche, come eritema ed edema. Rare sono le ulcerazioni del colon e quando si verificano sono probabilmente causate dai FANS. Possono essere presenti leucociti nelle feci, ma la presenza di steatorrea, ematochezia e febbre suggerisce una differente diagnosi.
La caratteristica istologica fondamentale della CM è la linfocitosi intraepiteliale. Può essere anche presente un’infiltrazione di cellule infiammatorie croniche della lamina propria. Nella colite collagena è caratteristica una banda inspessita sottoepiteliale collagena. Nella biopsia del colon possono essere presenti neutrofili con un quadro di criptite attiva segnalato nel 30-40% dei pazienti. Queste alterazioni infiammatorie sono spesso associate a danno dell’epitelio superficiale.



Per quanto concerne la terapia della CM, secondo gli autori è necessario, innanzitutto, che i pazienti interrompano l’assunzione di farmaci che potrebbero aver causato la malattia o altri che potrebbero aggravare la diarrea. In questa fase possono essere utili farmaci antidiarroici non specifici, come loperamide o difenossilato/atropina; in caso di insuccesso può essere utile il subsalicilato di bismuto. È stato segnalato che alcuni pazienti rispondono a questa terapia con una prolungata remissione, mentre altri non mostrano giovamento o mostrano una risposta parziale. Nel paziente con diarrea che non risponde al bismuto o con sintomatologia persistentemente grave i corticosteroidi sono i farmaci che si sono mostrati efficaci nei più ampi studi. Budesonide è il corticosteroide più studiato; esso si è dimostrato superiore al placebo in studi a breve termine sulla colite linfocitica e sulla colite collagena. È preferito a prednisone per il minor numero di effetti collaterali. Va comunque ricordato che la percentuale di ricorrenze è elevata, una volta interrotta la somministrazione. Pertanto gli autori consigliano di valutare attentamente la diagnosi di CM prima di iniziare un trattamento corticosteroideo, al fine di escludere altre coesistenti condizioni, come malattia celiaca o infezioni.
Sono utili farmaci immunomodulatori, come azatioprina; 6-mercaptopurina o metotrexato nei pazienti corticosteroido-dipendenti. Gli autori citano, peraltro, l’esperienza di molti clinici con l’uso a lungo termine di budesonide a basse dosi (3-6 mg pro die) proprio come alternativa agli immunomodulatori e aggiungono, come esperienza personale, nella terapia delle ricorrenze immediatamente seguenti, remissione dosi di budesonide 6 mg/die.
In queste eventualità, dopo 6-12 mesi di terapia gli autori hanno fatto un nuovo tentativo di sospensione, per riprendere in seguito il trattamento con budesonide. Nei pazienti che non tollerano corticosteroidi a lungo termine, gli autori ricorrono a un immunomodulatore o ad aminosalicilato oppure ad un agente legante acidi biliari. I pazienti refrattari a tutti i farmaci vanno inviati al chirurgo, sebbene questa eventualità sia rara nell’esperienza degli autori. L’intervento consigliato è un’ileostomia, con o senza colectomia.
Disfunzione miocardica regionale ventricolare sinistra
Studi epidemiologici e clinici hanno indicato che l’ipertrofia ventricolare sinistra e la ridotta frazione ventricolare sinistra consentono di prevedere lo sviluppo di un’insufficienza cardiaca in soggetti asintomatici. Queste alterazioni della struttura e della funzione del ventricolo sinistro sono considerate il bersaglio subclinico degli interventi terapeutici miranti a ritardare la progressione verso l’insufficienza cardiaca sintomatica conclamata. Si ritiene pertanto importante definire meglio queste iniziali manifestazioni subcliniche, sospettando che una iniziale disfunzione miocardica si verifichi in conseguenza di un processo patologico regionale che precede la globale disfunzione ventricolare sinistra.
Una tecnica ritenuta utile per valutare la funzione regionale miocardica ventricolare sinistra è la misura dello spessore della parete ventricolare in sistole mediante risonanza magnetica nucleare (RMN). Recentemente, mediante questa tecnica, sono state valutate struttura regionale e funzione del ventricolo sinistro in  una popolazione multietnica di 6814 soggetti d’ambo i sessi al fine di esaminare la prevalenza, le associazioni e la progressione di alterazioni cardiache subcliniche al fine di verificare i rapporti di queste con l’incidenza di eventi cardiovascolari ( Yan RT, Bluemke D, Gomes A, et al. Regional left ventricular myocardial dysfunction as a predictor of incident cardiovascular events. MESA (Multi-Ethnic Study of Atherosclerosis) J Am Coll Cardiol 2011; 57: 1734).
È stato osservato che la disfunzione regionale miocardica subclinica, misurata quantitativamente mediante RMN in soggetti adulti asintomatici esenti da malattie cardiovascolari, è associata indipendentemente con il conseguente sviluppo di insufficienza cardiaca o di eventi cardiovascolari avversi. In particolare, è stato constatato che la dimostrazione di disfunzione miocardica regionale consente di evidenziare un rischio doppio di insufficienza cardiaca e un rischio aumentato da 1,50 a 1,75 volte di eventi arteriosclerotici per un periodo di tempo di 4,6 anni in media in adulti asintomatici di varie etnie; e ciò indipendentemente dalla valutazione globale del ventricolo sinistro. Tali risultati indicano che la disfunzione miocardica regionale rappresenta un’importante manifestazione fenotipica di alterazione subclinica e che la sua accurata valutazione quantitativa mediante RMN può consentire una migliorata classificazione di soggetti asintomatici nei riguardi del rischio di insufficienza cardiaca e di cardiopatia clinicamente conclamata.
Gli autori ricordano che precedenti ricerche su questi problemi si sono avvalse prevalentemente dell’ecocardiografia e degli indici della struttura e della funzione globale del ventricolo sinistro per esaminare l’evoluzione del danno miocardico da subclinico a sintomatico. Questi studi hanno stabilito che alterazioni diffuse dell’architettura e della funzione che si manifestano come dilatazione ventricolare e alterata frazione di eiezione sono prevalentemente irreversibili, e, una volta instaurate, evolvono inesorabilmente verso la malattia sintomatica clinicamente conclamata. Ed è per l’appunto questa sfavorevole evoluzione che ha spinto a ricercare mezzi atti a evidenziare precocemente le alterazioni miocardiche asintomatiche prima che si verifichi la disfunzione ventricolare globale.
Si ritiene che le alterazioni ventricolari globali siano dovute a ripetuti episodi di danno miocardico secondari a multipli episodi di silente o anche clinicamente apparente infarto miocardico, con conseguente rimodellamento ventricolare compensatorio. Per quanto concerne la precisa etiologia della disfunzione miocardica regionale asintomatica, essa sarebbe probabilmente multifattoriale e, in parte, correlata all’esposizione a vari fattori di rischio arteriosclerotici o non arteriosclerotici, come disfunzione endoteliale, progressivo sovraccarico miocardico, danno ossidativo o infiammatorio o microembolizzazione.
Viene ricordato che come misura della funzione ventricolare complessiva si ricorre alla misura della frazione di eiezione ventricolare sinistra, ma gli AA. ritengono, secondo la loro esperienza, che questo parametro possa non sempre riflettere la depressione regionale della funzione contrattile a motivo del variabile grado di segmenti ipercontrattili compensatori. A questo proposito sottolineano che i soggetti da loro studiati che presentavano una disfunzione miocardica regionale avevano frazione di eiezione ventricolare sinistra lievemente ridotta, ma ancora normale. A parer loro, ciò conferma che una specifica valutazione della funzione miocardica regionale, quale si ottiene con RMN, consente di identificare le prime manifestazioni subcliniche della malattia e di prevedere il rischio di insufficienza cardiaca oltre la valutazione della funzione globale ventricolare sinistra, che può essere non sensibile all’iniziale alterazione della funzione miocardica.
Gli autori concludono che, ancora oggi, le implicazioni terapeutiche del precoce riconoscimento di una alterazione subclinica in individui per altro a basso rischio, restano da stabilire e ciò consiglia di non ritenere necessario uno screening mediante RMN in queste condizioni. Ritengono tuttavia che i risultati ottenuti consentano di approfondire le conoscenze sulla patogenesi e sull’inizio del processo patologico e sulle possibilità di prevedere e controllare la progressione della malattia.



La cistatina C
nella diagnosi delle malattie
renali croniche
Le malattie renali croniche (MRC) sono correntemente definite mediante un filtrato glomerulare (GFR, secondo l’acronimo d’uso internazionale: “glomerular filtration rate”) stimato in base ai valori di creatininemia inferiori a 60 ml/min/1,73 m2 oppure a rapporto urinario albumina/creatinina (ACR) di 30 mg/g o superiore (National Kidney Foundation. K/DOQI clinical practice guidelines for chronic kidney disease: evaluation, classification and stratification. Am J Kidney Dis 2002; 39, suppl 1: S1). In effetti, poiché l’ACR è consigliato solamente nei diabetici, nella pratica la valutazione è limitata alla misura della creatininemia ed è noto che il livello di creatininemia è influenzato da vari fattori, come età, massa muscolare, etnia; inoltre la misura del GFR stimato è meno attendibile quando i valori sono superiori a 60 ml/min.
Pertanto, nella pratica, i metodi basati primariamente sulla creatininemia possono non classificare correttamente alcuni soggetti e sono stati proposti metodi alternativi. Uno di questi si avvale della misura della cistatina C quale biomarcatore, un biomarcatore che si è rivelato più valido predittore di eventi cardiovascolari e di obitus della creatinina ed è meno influenzato da età, massa muscolare ed etnia.
Una valutazione prospettica dell’aggiunta della misura della cistatina C alla creatininemia e all’ACR nella diagnosi e nella classificazione delle MRC è stata eseguita recentemente su 26643 soggetti adulti dal gennaio 2003 al giugno 2010, al fine di rivedere gli attuali criteri diagnostici e soprattutto consentire di identificare accuratamente le complicanze delle nefropatie (Peralta CA, Shlipak MG, Judd S, et al. Detection of chronic kidney disease with creatinine, cystatin C and urine albumin-to-creatinine ratio and association with progression to end-stage renal disease and mortality. JAMA 2011; 305: 1545).
Gli autori hanno osservato che la valutazione delle MRC eseguita secondo un approccio con tre marcatori, avvalendosi di creatininemia, cistatina C e ACR, ha consentito di ottenere una migliore identificazione del rischio di insufficienza renale terminale e di obitus. In particolare è stato rilevato che cistatina C e albuminuria sono risultate entrambi nettamente e indipendentemente associate con tutte le cause di mortalità nei soggetti con MRC definite da un GFR stimato in base alla creatinina, mentre il rischio di futura insufficienza renale terminale è risultato concentrato nei soggetti che hanno presentato MRC definite in base ai tre biomarcatori. Gli autori sottolineano, inoltre, che, in un secondo gruppo di soggetti ad alto rischio d’insufficienza renale terminale, questo rischio non è stato identificato dalla creatinina, ma lo è stato da cistatina C e da ACR.
Secondo gli autori, i risultati di questo studio confermano precedenti segnalazioni che hanno indicato che l’albuminuria e la cistatina C migliorano la stratificazione del rischio nei soggetti con nefropatie diagnosticate dalla creatininemia e inoltre indicano che cistatina C e albuminuria sono complementari nell’identificazione di soggetti con MRC ed aumentato rischio di insufficienza renale terminale e di obitus.
I risultati conseguiti hanno potenziali implicazioni sullo screening universale delle MRC usando il criterio del triplo biomarcatore, sebbene occorra riconoscere che tuttora non è noto il ruolo che la cistatina C possa avere in questo screening; gli autori ritengono che, poiché uno screening universale può non essere attuabile, futuri studi dovrebbero essere indirizzati a identificare fattori di rischio associati con MRC occulte, per sviluppare tecniche specifiche ai fini di una nuova strategia di screening delle nefropatie.