Dalla letteratura



Le cellule staminali mesenchimali
nella patogenesi
della brochiolite obliterante
post-trapianto polmonare
È noto che la sopravvivenza a lungo termine dopo trapianto del polmone è ostacolata dall’insorgenza di una bronchiolite obliterante (BO), che è una malattia fibroproliferativa delle vie aeree terminali caratterizzata da infiltrazione di cellule mesenchimali. Il restringimento progressivo e obliterante delle vie aeree conduce a progressivo e irreversibile declino della funzione polmonare che prende il nome di “sindrome della bronchiolite obliterante” (SBO) (Estenne M, Maurer JR, Boehler A, et al. Bronchiolitis obliterans syndrome 2001; an update of the diagnostic criteria. J Heart Lung Transplant 2002; 21: 297).

È stato recentemente dimostrato che cellule ottenute da liquido di lavaggio broncoalveolare (BAL = broncoalveolar lavage) di impianti polmonari umani presentano, in coltura, evidenti unità formanti colonie fibroblastoidi di cellule progenitrici mesenchimali, con potenziale di differenziazione multilineare; le cellule mesenchimali sono le principali cellule effettrici nel processo di fibroproliferazione. Senonché, al momento attuale, non è stato ancora chiarito il rapporto tra questa popolazione di cellule mesenchimali e lo sviluppo della SBO. Badri et al hanno valutato quantitativamente le colonie formanti unità (CFU = colony forming unit) di cellule mesenchimali in campioni di BAL ottenuti da riceventi trapianto polmonare, dimostrando che un aumento di queste cellule nel BAL di tali pazienti costituisce un segno predittivo di SBO ( Badri L, Murray S, Liu LX, et al. Mesenchimal stromal cells in bronchoalveolar lavage as predictors of bronchiolitis obliterans syndrome. Am J Resp Crit Care Med 2011; 183: 1062).

Gli autori hanno dimostrato la presenza di una SBO associata all’aumento di CFU di cellule mesenchimali nel BAL di pazienti che hanno avuto un trapianto di polmone, concorremente alla diagnosi istologica di polmonite alla biopsia transbronchiale e ritengono che l’aumento del numero delle CFU di cellule mesenchimali nel BAL è significativo di futura insorgenza di SBO entro un periodo di 90 giorni. A questo proposito ricordano che la biopsia transbronchiale ha una bassa sensibilità per la diagnosi di BO, che costituisce la manifestazione della SBO. Gli autori rilevano che, sebbene il loro studio dimostri, per la prima volta, la modificazione del numero delle cellule mesenchimali staminali nel BAL dei pazienti con trapianto del polmone, tuttavia il ruolo di queste cellule nelle risposte, adattative o maladattative, in queste condizioni permane non completamente chiarito. È noto che le cellule staminali mesenchimali possiedono evidenti proprietà immunomodulatrici ( Rasmusson I. Immune modulation by mesenchimal stem cells. Exp Cell Res 2006; 312: 2169. Uccelli A, Pistoia V, Moretta L. Mesenchimal stem cells: a new strategy for immunosoppression? Trends Immunol 2007; 28: 219).

Inoltre queste cellule inibiscono cellule T in vitro attraverso la secrezione di mediatori solubili e possono avere un ruolo importante nella fibrosi; le cellule mesenchimali derivate dal midollo osseo possono differenziarsi in vitro in miofibroblasti ed è stato osservato che progenitori di cellule mesenchimali partecipano alla risposta fibrotica. Sulla base di queste osservazioni si può ritenere che le cellule mesenchimali residenti nel polmone e che vi si raccolgono in risposta al danno polmonare possono essere influenzate dalla presenza di un ambiente profibrotico che potenzialmente contribuisce alla fibrogenesi. Su questo punto saranno necessari ulteriori studi, per chiarire il ruolo di queste cellule nella patogenesi della SBO.
Enfisema come fattore predittivo di osteoporosi nella broncopatia cronica ostruttiva

Molti studi clinici ed epidemiologici hanno dimostrato i rapporti tra enfisema radiograficamente evidente e ridotta densità minerale ossea (BMD: bone mineral density, secondo l’acronimo d’uso internazionale) nei pazienti con broncopatia cronica ostruttiva (BPCO), indipendentemente dalle tradizionali misure fisiologiche di ostruzione delle vie aeree. Infatti la variabilità interindividuale della risposta infiammatoria sistemica di questi pazienti spiega i rapporti tra tale pneumopatia e le sue molte comorbilità. Uno studio osservazionale incrociato è stato recentemente condotto al fine di identificare i fattori fisiologici e demografici che predicono una ridotta BMD, misurata mediante assorbimetria in un gruppo di fumatori, in atto o in passato, con e senza ostruzione delle vie aeree ( Bon J, Fuhrman CR, Weissfeld JL, et al. Radiographic emphysema predicts low bone mineral density in a tobacco exposed cohort. Am J Respir Crit Care Med 2011; 183: 885).

Gli autori hanno osservato che un enfisema, evidente alla radiografia, da solo, è il più valido fattore predittivo di ridotta BMD in fumatori con vari gradi di ostruzione delle vie aeree. È stato anche rilevato che la BPCO presenta manifestazioni cliniche eterogenee con variabile contributo di enfisema parenchimale associato a infiammazione delle piccole vie aeree e fibrosi. L’associazione indipendente tra enfisema radiografico e ridotta BMD indica una comune patogenesi della distruzione parenchimale e della perdita d’osso. Tale patogenesi potrebbe essere correlata a fattori infiammatori locali che operano contemporaneamente sul polmone e sulla matrice ossea. Del resto, osservano, sono state descritte associazioni tra BPCO e molteplici comorbilità.



Gli autori hanno segnalato un’associazione tra mediatori infiammatori e misura quantitativa (mediante tomografia computerizzata) di enfisema e spessore delle pareti delle vie aeree e inoltre tra livello sierico di interleuchina-6 (IL-6) ed enfisema.
Notano, inoltre, che, sebbene nella letteratura frequentemente venga citata l’infiammazione sistemica nella patogenesi dell’osteoporosi dei pazienti con BPCO, questo concetto non si è ancora diffuso. Per contro, gli studi epidemiologici hanno dimostrato un collegamento tra malattie ostruttive polmonari e osteoporosi. L’osteoporosi dei pazienti con BPCO è quasi certamente multifattoriale, specialmente nei soggetti con più grave ostruzione delle vie aeree, anche perché questi hanno una limitata attività fisica e più frequentemente usano steroidi.
L’auspicio è che lo studio del rapporto tra enfisema e bassa BMD possa preludere allo sviluppo di nuovi mezzi terapeutici.
Controversie nel trattamento
del “wheezing” dei bambini
È noto che i bambini che hanno gravi infezioni virali respiratorie nei primi anni di vita hanno grande probabilità di presentare asma bronchiale negli anni successivi. È stata avanzata l’ipotesi secondo cui in questi bambini il sistema immunitario presenta un ritardo nel suo sviluppo, dando luogo a una sensibilizzazione allergica che ostacola l’instaurazione di un’adeguata difesa antivirale. A ciò conseguono la diffusione del virus e una grave infezione respiratoria. La presenza di una sensibilizzazione allergica precoce può provocare anche la comparsa di ciò che la letteratura di lingua inglese chiama “wheezing”, che non è ancora asma, ma è un “respiro soffiante” che conferisce un alto rischio di vera e propria asma.
Sul trattamento di questi episodi di “wheezing” vi sono ancora molte controversie, recentemente discusse (Guilbert TW, Bacharier LB. Controversies in the treatment of the acutely wheezing infant. Am J Resp Crit Care Med 2011; 183: 1284).
Gli autori si soffermano su due importanti aspetti del problema: il trattamento dell’episodio iniziale di wheezing causato da virus e il trattamento con corticosteroidi orali negli episodi ricorrenti di wheezing da virus. Per quanto riguarda l’episodio iniziale di wheezing definito “bronchiolite”, si ricorda che questo è responsabile di significativa morbilità e può essere particolarmente difficile da trattare. Infatti non è stato osservato un consistente beneficio con broncodilatatori per inalazione, corticoidi sistemici per inalazione o monteleukast, usati nel corso della bronchiolite ( Wainuright C. Acute viral bronchiolitis in children: a very common condition with few therapeutic options. Paediatr Respir Rev 2010; 11: 39). Tuttavia la revisione post hoc di questi risultati ha indicato che i soggetti con “wheezing” da rhinovirus non traggono beneficio da corticosteroidi orali durante l’episodio acuto e presentano un “wheezing” ricorrente entro l’anno; ciò indicherebbe, secondo gli autori, una patogenesi distinta e una differente risposta terapeutica del “wheezing” indotto da rhinovirus.
Gli autori segnalano che nel trattamento della bronchiolite acuta dei bambini sono stati utilizzati con successo un’associazione di epinefrina nebulizzata con desametasone per os e soluzione salina ipertonica per inalazione. Sono anche stati adoperati soluzione salina ipertonica al 3% per inalazione, ottenendo una riduzione del “wheezing” e la prevenzione del ricovero ospedaliero, riducendo complessivamente la gravità della malattia e l’assenza di effetti secondari qualora non siano aggiunti broncodilatatori.
Queste forme di trattamento richiedono ulteriori studi.
Per quanto riguarda il trattamento con corticosteroidi per os degli episodi di “wheezing” ricorrenti da virus, vengono riportati i risultati ottenuti recentemente, osservando che, nel complesso, questa terapia non ha apportato esiti soddisfacenti, in contraddizione con gli effetti positivi rilevati nei bambini di maggiore età. Queste discrepanze possono essere dovute alla presenza o all’assenza di precedenti episodi di “wheezing” (cioè di bronchiolite versus ricorrente “wheezing” da virus) e la presenza o l’assenza di una sottostante diatesi atopica. A questo proposito gli autori ricordano che i soggetti con diatesi atopica rispondono meglio ai corticosteroidi per via orale di quelli senza questa diatesi e ciò può dar luogo a differenze nelle risposte terapeutiche. Un’altra spiegazione potrebbe consistere nella troppo breve durata del trattamento e nella relativamente troppo bassa dose di corticosteroidi orali. Anche su questi problemi si ritengono necessari ulteriori studi clinici controllati. In base a questi recenti risultati è stata riconsiderato l’uso dei corticosteroidi per via orale nel “wheezing” in età prescolare riservandolo soltanto ai bambini più gravi ricoverati in ospedale. In attesa di conferme cliniche, il trattamento ottimale di queste condizioni permane incerto. Secondo gli autori, i problemi principali sono: 1) la terapia con corticosteroidi orali nei bambini con “wheezing” ricorrente, il che esclude quelli con bronchiolite, 2) individuare esattamente i sottogruppi specifici nei quali il trattamento con corticosteroidi orali è sicuramente utile, come, ad esempio, precedente episodio di “wheezing”, presenza di fattori di asma bronchiale e sottostante diatesi atopica e 3) studio di nuovi farmaci e nuovi criteri terapeutici per affrontare questi problemi.
Osteoporosi in pazienti con
colangite sclerosante primitiva
È noto che le osteopatie metaboliche compaiono frequentemente in soggetti con varie patologie epatiche croniche, predisponendo alla comparsa di fratture e di dolori ossei. Particolarmente studiata è l’associazione di malattie ossee con epatopatie croniche colestatiche, come la cirrosi biliare primitiva (CBP) e la colangite sclerosante primitiva (CSP) che colpisce prevalentemente soggetti di più giovane età e di sesso maschile. È stato rilevato che i pazienti con CBP presentano spesso malattie infiammatorie intestinali che accrescono significativamente il rischio di osteoporosi ulteriormente incrementato dal trattamento con corticosteroidi.



Al momento attuale, la percentuale di osteoporosi in pazienti con queste condizioni varia ampiamente secondo le casistiche. In alcuni la massa ossea è risultata nei limiti normali, per cui si ritiene che su questo problema siano necessari studi clinici controllati su pazienti non selezionati al fine di determinare la reale prevalenza dell’osteopatia nei pazienti con CSP, di identificare i soggetti con più grave danno osseo ed anche selezionare quelli che potranno trovare migliore beneficio dal trattamento dell’osteopatia.
Su questo tema è stato pubblicato uno studio clinico per definire la prevalenza, la progressività e la possibilità di prevedere l’insorgenza di osteopatie in 237 soggetti con CSP confermata da colangiografia e da biopsia epatica (Angulo P, Grandison GA, Fong DG, et al. Bone disease in patients with primary sclerosing cholangitis. Gastroenterology 2011; 140: 180). In questa casistica è stato trovato che una percentuale del 15% dei pazienti con CSP presentava una stabile osteoporosi alla prima visita, con un rischio di osteoporosi aumentato di 23,8 volte. Inoltre, al momento della prima visita, il 14% dei pazienti aveva un’osteoporosi definita grave. È stato inoltre rilevato che, in base alla valutazione clinica e ai risultati dei dati biochimici e istologici, i fattori che, indipendentemente, predicono la presenza di osteoporosi sono l’età avanzata, la ridotta massa minerale ossea (BMI) e la più lunga durata di malattia infiammatoria intestinale (IBD). È stato rilevato che i pazienti con CSP perdono ogni anno l’1% della massa minerale ossea e sembra che questa perdita sia grandemente influenzata dalla durata dell’IBD.
Gli autori ricordano che l’età avanzata e la ridotta BMI sono noti fattori di rischio di sviluppo di osteoporosi nella popolazione sana (come nella menopausa) e ritengono che le loro osservazioni in pazienti con CSP siano in relazione con analoghi meccanismi fisiopatologici che si verificano nella popolazione generale. Osservano, inoltre, che l’osteoporosi è una delle condizioni in cui l’eccesso di peso corporeo è protettivo e che l’ormone leptina può regolare indirettamente la massa ossea con un effetto centrale ( Ducy P, Amling M, Tokeda S, et al. Leptin inhibits bone formation through a hypothalamic relay: a central control of bone mass. Cell 2000; 100: 197).
Viene ricordato che la CSP è considerata una malattia che colpisce prevalentemente il sesso maschile; ciò nonostante, il 42% dei casi donna potrebbe essere dovuto a un cambiamento demografico nel corso degli anni. La prevalenza del 15% dell’osteoporosi nei pazienti con CSP è inferiore a quella tra il 20% e il 37% osservata in pazienti con CBP (Guanabens N, Cerda D, Monegal A. Low bone mass and severity of cholestasis affect fracture risk in patients with primary biliary cirrhosis. Gastroenterology 2010; 138: 2348). In questi pazienti, l’età avanzata, la ridotta BMI, la menopausa e la più avanzata compromissione della funzione epatica sono correlate, indipendentemente, con la presenza di osteoporosi. Tuttavia l’esatta patogenesi dell’osteoporosi nelle malattie colestatiche croniche rimane oscura, anche se certamente la colestasi contribuisce di per se stessa in maniera significativa alla perdita di osso, sia nella CSP che nella CBP. Infatti è stato dimostrato che la bilirubina inibisce, in vitro, la funzione degli osteoblasti e tale effetto può avere un ruolo nella riduzione della formazione di osso. Al proposito si ricorda che in queste condizioni si osserva iperbilirubinemia e che gli aspetti istologici sono significativamente associati con la gravità dell’osteoporosi. Gli autori citano recenti dati che mostrano simili alterazioni istomorfometriche nella CSP e nella CBP; una ridotta formazione di osso – piuttosto che un aumentato riassorbimento – può essere un importante meccanismo patogenetico ( Guichelaar MM, Malinchoc M, Sibonga J, et al. Bone metabolism in advanced cholestatic liver disease: analysis by bone histomorphometry. Hepatology 2002; 36: 895). Questi studi istomorfometrici sono stati eseguiti in soggetti con CSP e CBP in fase avanzata, avviati al trapianto, e pertanto gli autori ritengono che siano necessari ulteriori studi che stabiliscano se analoghe alterazioni istomorfometriche si verificano in fase iniziale di malattia epatica.
Gli autori non hanno potuto confermare il noto rischio di osteoporosi determinato dal trattamento corticosteroideo nei pazienti della loro casistica affetti da IBD. Probabilmente ciò può essere spiegato dal fatto che le IBD associate a CSP dei loro pazienti erano meno gravi di quelle dei soggetti senza CSP. Infatti, solamente il 25% dei loro pazienti ha richiesto terapia corticosteroidea e questa percentuale è molto più bassa di quella riportata nei soggetti con IBD senza CSP. Ciò può spiegare la mancanza di significativo effetto dei corticosteroidi sulla massa ossea rilevato nella casistica degli autori. La più lunga durata dell’IBD, che è in significativa correlazione con la gravità del danno osseo, può rappresentare l’unico fattore indipendentemente associato a più grave perdita di osso, nel tempo, nei pazienti con CSP che hanno anche una IBD. I pazienti con IBD possono inoltre presentare ridotta massa ossea prima dell’inizio della terapia corticosteroidea.
Gli autori ritengono che nei pazienti con CSP sia “ragionevole” misurare la densità ossea al momento della diagnosi, ripetendo la misura ogni 2 o 3 anni, considerando, come detto, che, in media, questi malati hanno una perdita ossea annua dell’1%.



Concludendo, si conferma che l’osteoporosi si verifica frequentemente nei pazienti con CSP e che una concomitante IBD, specialmente se di lunga durata, contribuisce ad aggravare l’osteopatia e ad accelerarne la progressione; ciò indipendentemente da altri fattori di rischio.
Recenti studi sul decorso clinico della fibrosi polmonare
La fibrosi polmonare idiopatica (FPI) è una pneumopatia interstiziale idiopatica gravata da una prognosi sfavorevole, con una sopravvivenza media che varia da 2,5 a 3,5 anni (American Thoracic Sociaty/European Respiratory Society: International multidisciplinary consensus classification of the idiopathic interstitial pneumonias. Am J Respir Crit Care Med 2002; 165: 277), con un decorso clinico variabile da una lenta progressione a uno scompenso acuto con obitus. Al momento attuale non sono noti metodi che consentano di determinare la prognosi o di definire lo stadio della malattia.
In una recente rassegna clinica è stato riassunto il decorso clinico della FPI, valutandone i fattori predittivi di sopravvivenza e i proposti modelli predittivi, discutendo altresì le attuali difficoltà e controversie (Ley B, Collard HR, King TE Jr. Clinical course and prediction of survival in idiopathic pulmonary fibrosis. Am J Respir Crit Care Med 2011; 183: 431).
Gli autori sottolineano che l’evoluzione della malattia verso l’insufficienza respiratoria e l’obitus può assumere diverse forme cliniche, da un lento deterioramento funzionale a un aggravamento della dispnea con periodi di relativa stabilità interposti a episodi di insufficienza respiratoria acuta richiedente ricovero urgente in ospedale.
Distinguono quattro fasi cliniche che variamente si susseguono: 1) FPI subclinica, 2) FPI lentamente progressiva, 3) FPI rapidamente progressiva e 4) aggravamento acuto di FPI).

1 – FPI subclinica. È stato osservato che la sintomatologia della FPI precede la diagnosi di 1 o 2 anni in media, e i sintomi possono essere preceduti da quadri radiografici. L’evoluzione di una FPI da asintomatica a sintomatica può durare molti anni. Questi aspetti asintomatici di una FPI iniziale presentano spesso una diffusione familiare e si osservano sovente in fumatori. La biopsia polmonare mostra vari quadri istologici di danno polmonare interstiziale. In queste condizioni si è dimostrata utile la tomografia computerizzata ad alta risoluzione, che è preferibile alle prove di funzione polmonare e cardiopolmonare.

2 – FPI lentamente progressiva. Si tratta di una forma clinica che rappresenta il 21% circa dei casi di FPI caratterizzata dal declino lentamente progressivo della funzione polmonare e dal progressivo peggioramento della dispnea che conduce all’obitus entro parecchi anni.

3 – FPI rapidamente progressiva. Questi pazienti mostrano una malattia rapidamente progressiva, entro un periodo inferiore a 6 mesi dalla diagnosi. È stato segnalato che i soggetti con un decorso clinico accelerato mostrano un profilo genetico differente da quello dei pazienti con una forma lentamente progressiva. Lo studio genetico può identificare i soggetti con FPI stabile a confronto con quelli con forma clinica rapidamente progressiva. Inoltre è stato rilevato che si tratta in prevalenza di pazienti di sesso maschile e forti fumatori.
4 – Riacutizzazioni acute di FPI. I pazienti con FPI possono presentare periodi di insufficienza respiratoria acuta dovuti o a note complicazioni come processi infettivi, oppure a causa ignota. Queste riacutizzazioni sono caratterizzate dall’insorgenza di un rapido (entro giorni o poche settimane) deterioramento della funzione polmonare; il quadro radiologico è caratterizzato dalla presenza di opacità bilaterali a vetro smerigliato associate a consolidamenti o aspetti reticolati (alla tomografia computerizzata ad alta risoluzione), in assenza di segni d’infezione, insufficienza cardiaca, embolia polmonare o altre cause identificabili; questo quadro clinico comporta una grave prognosi. Gli autori si soffermano sui fattori predittivi della sopravvivenza dei pazienti con FPI che possono essere suddivisi in: 1) fattori predittivi clinici, 2) fattori predittivi radiografici, 3) fattori predittivi fisiologici, 4) fattori predittivi patologici e 5) biomarcatori predittivi.

Si conclude che la FPI è una malattia dell’età e che l’osservazione clinica ha dimostrato che in questi pazienti sono compromessi lo stato generale di salute e il livello di energia e di indipendenza. Ciò richiede da parte del medico una maggiore attenzione alle comorbilità di natura geriatrica (Fell CD, Martinez FJ, Liu LX, et al. Clinical predictors of a diagnosis of idiopathic pulmonary fibrosis. Am J Respir Crit Care Med 2010; 181: 832). Tuttavia, nonostante molti fattori predittivi identificati negli ultimi anni, soltanto la misura della capacità vitale forzata (FVC) si è rivelata l’indice più appropriato nella valutazione della diagnosi e della prognosi della malattia. Inoltre, secondo gli autori, è molto importante lo studio multidisciplinare di questi pazienti, qualora si tenga presente l’impatto di molte comorbilità sul decorso clinico della FPI.