Libri: recensioni

Storie in cui non restano segreti
i percorsi offerti all’oblio
dalla misericordia del cuore

La mente, il cuore,
la condizione umana
Un tratto della recente narrativa è l’attitudine a rappresentare la malattia: dell’individuo che ne è affetto e delle persone che ne condividono la sofferenza. Di numerosi esempi questa Rivista non ha mancato di dar conto, sia con commenti analitici (nelle recensioni di libri e film), sia riproducendone passi significativi (nell’antologia di letteratura e medicina).
Particolare attenzione è stata dedicata alle ferite della memoria – le nevrosi, le amnesie, l’Alzheimer – lo scrigno ove albergano le nostre risorse di soggettività e di relazione.
Si può individuare un filo conduttore comune in queste opere, lo stesso che ci si era rivelato, a suo tempo, nell’essenziale racconto di Alice Munro, L’orso che ha attraversato la montagna (in: “Nemico, amico, amante”, Einaudi, Torino 2008): è l’auspicio che, nel pianificare assistenza e misura di sostegno ai malati di Alzheimer, lo specifico clinico faccia un passo indietro, al fine di privilegiare l’attenzione sul valore primario della persona e sulle sue (residue) capacità di rapportarsi, di comunicare, nonché di dissimulare dignitosamente deficit e disfunzione; sottolineando il ruolo palliativo dell’ambiente affettivo. La descrizione dell’empatia idonea a calmierare l’eccesso di medicalizzazione è un mirabile contributo di virtù etica al fascino della scrittura della scrittrice canadese, in sintonia con lo scenario che lo ha generato e ­reso artisticamente convincente: la provincia innevata di un Ontario all’esterno tanto gelido e duro, quanto acceso – all’interno delle sue case e delle sue istituzioni – di calore umano e solidarietà. Un racconto fatto di sguardi, silenzi, gesti essenziali più che di discorsi e di eventi: scrigno che contiene bagliori di dignità e sapienza di cuore. Sono questi valori ad integrare provvidenzialmente i farmaci, che Grant, marito innamorato e dolente, e l’équipe dell’Health Center di Kitchner – ospedale realmente operante nella regione di Toronto – debbono pur dispensare alla vacillante coscienza di Fiona ed alle sempre minori resistenze che può opporre alla malattia. Qui – nella dialettica tra memoria e speranza, tra smarrimento del passato e recupero di un avvenire – qui «è il mistero delle realtà umane che solo si dischiudono all’intuizione, come negazione delle categorie intellettuali della conoscenza» (Borgna), cui non restano segreti i percorsi offerti all’oblio dalla misericordia del cuore («consolazione assoluta» li ha definiti Kundera). Come quello che, a fronte di un Grant pietrificato da una ragionevole/paradossale gelosia, conduce Fiona – attraverso le sue ingravescenti nebbie mentali – ad una progressiva estraneità, parallela, invece, ad una intimità trepida con Aubrey, un finora sconosciuto sodale di sventura, malato ancor più gravemente di lei.




«Le medicine, a volte non servono – ebbe a scrivere Mauro Mancia – e un modo per ricordare è amare od odiare, perché la memoria è certamente una funzione collegata all’affettività». Dunque anche Gray, lui che «ricorda ed ama» [qualcuno ha detto che autentica misura dell’amore è la perdita], convince Marian, moglie che ha consumato invano lagrime e desiderio, a cedere Aubrey – il suo ormai perduto compagno – ai consolatorii fantasmi di Fiona. E sarà ancora lui, Grant, desiderato e salvifico, ad offrire alla stessa Marian, alla di lei mortificata femminilità (che palpita sotterranea in una rattenuta dignità di “vedova bianca”) il soccorso di una superstite sessualità.
La Munro non ha scritto una storia clinica: ci ha donato un racconto d’amore e sull’amore, sulla memoria e sull’oblio; testimonianza sulla fragilità del nostro corpo e – insieme – sulle provvidenziali risorse delle emozioni.

Ed un recupero delle emozioni – benefica decantazione di sequenze temporali – è un altro itinerario di compassione e di affetto descritto da Arno Geiger, giovane narratore austriaco, nel romanzo Il vecchio re nel suo esilio, da poco introdotto in Italia dall’editore Bompiani, Milano 2012: un diario che con filiale pietà narra della malattia del padre, colpito dal processo di demenza e svuotamento di sé. Un padre che sta progressivamente perdendo i propri ricordi ed il cui comportamento nella vita quotidiana e negli affetti vacilla sempre di più. Come se una luce si stesse spegnendo nella sua mente e, negli intervalli di buio, un genio maligno si divertisse a cambiare la disposizione degli oggetti nello spazio e delle persone nel tempo. «Qui tra noi c’è qualcosa che mi ha portato ad aprirmi al mondo. È, per così dire, il contrario di quello che dicono di solito della malattia di Alzheimer, e cioè che tronca i rapporti.

La condizione umana:
vulnerabile e mendica

A volte si stringono rapporti», annota Arno. La scoperta che suo padre August è affetto dall’Alzheimer è, infatti, l’occasione, l’ultima, per conoscerlo di nuovo, forse per la prima volta: senza schermi e infingimenti, con un amore mai avvertito prima così forte, acceso dalla percezione di un lento abbandono; è l’occasione per riscoprire dettagli sepolti dell’infanzia e della storia della propria famiglia, persino segreti, nascosti in un diario scritto e lasciato in una soffitta; è la possibilità di confrontarsi con i silenzi di un uomo e con le improvvise e fulminanti combinazioni di u na mente che ha smesso di funzionare secondo i criteri correnti e che procede per conto proprio, per associazioni iperboliche ispirate da una logica tortuosa, labirintica, ma vitale. Il vecchio re nel suo esilio diviene così non soltanto il confronto di un padre e un figlio, ma anche il confronto di un figlio con se stesso, con la propria capacità di comprendere oltre la comprensione razionale, di raccontare il mistero della vita, di amare senza rete e senza l’attesa di una risposta. Ha detto l’Autore in una intervista: «C’è persino un nuovo aspetto di tenerezza fisica; mio padre non aveva mai avuto nessuna dimestichezza col corpo: quando ero bambino era incapace di tenermi per mano. Mentre ora lo fa… In questa crisi la nostra famiglia è diventata più unita. E questa è una fortuna». Ove – trasfigurandosi la sintomatologia del male, giorno dopo giorno, in traiettoria esistenziale – l’accompagnamento dell’infermo, la condivisione del soffrire non sono più soltanto gesto di sodalizio assistenziale, bensì si elevano a scelta di vita, a disciplina morale.




Queste esperienze, questi libri hanno aura di perennità. Nonostante i progressi della farmacoterapia, nonostante l’affinamento degli interventi sociali e sanitari, malgrado la consapevolezza d’un contesto sempre più complesso, quantunque si possa contare su mète sempre più avanzate per la ricerca medico-biologica ed i protagonisti ne celebrino successi scrutando all’orizzonte aurore di longevità e benessere, ebbene – nonostante tutto ciò – la condizione umana resta la stessa: vulnerabile e mendìca.

Alice Morgan