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Gioia: preziosa compresenza
di luce e di fragilità
La grande guerra
Il titolo è esplicito ed imperativo e il plot di un film (da poco sugli schermi) lo declina senza infingimenti: “La guerra è dichiarata”, di Valérie Donzelli, narra l’impegno con cui, giorno dopo giorno, una giovane coppia di genitori contrasta il tumore che minaccia la vita del loro bambino. È la lotta contro la malattia del secolo, ingaggiata in tutto il mondo, così come viene anche descritta in un opulento libro di storia di recente edizione italiana: L’imperatore del male, di Siddharta Mukherjee (Neri Pozza, Vicenza 2011): «Si prevede che in un anno circa seicentomila americani e più di sette milioni di persone in tutto il mondo potrebbero morire di cancro. Negli Stati Uniti, una donna su tre e un uomo su due si ammaleranno di tumore nell’arco della propria vita. Un quarto di tutti i decessi americani e intorno al quindici per cento dei decessi nel mondo verranno attribuiti al cancro. In alcuni paesi, il cancro sorpasserà le malattie cardiache e diverrà la più numerosa tra le cause di morte».
Questa guerra – quotidianamente sofferta – è anche quella che conduce Cathy, coraggiosa casalinga, contro un melanoma insidiosamente aggressivo, in un serial televisivo creato da Darlene Hunt e giunto alla sua terza parte su TV Fox: The big C. Il “grande C” è l’“innominabile” grande nemico. Cathy (la brava Laura Linney che Eastwood volle nei suoi Mistic River e Potere assoluto) lo ha finora fronteggiato con sagacia e temporaneo successo. Temporaneo, perché la libertà di chi ha sofferto un tumore è, almeno per qualche anno, una libertà vigilata. Pur restando fedele alla realtà clinica, il tema è trattato con apprezzabile levità: nelle sequenze che descrivono la fase di remissione, con una Cathy che riscopre libertà e gioia anche in piccoli gesti e stato d’animo, regia e sceneggiatura ci regalano immagini, dialoghi e silenzi, toccanti e credibili.



Diversamente dalla condizione di felicità, infatti, la gioia ci viene realisticamente presentata come uno stato friabile ed effimero, assai denso e prezioso di suggestioni tra le quali – fondanti – l’intemporalità, l’immediatezza, l’irrevocabilità. Si dimentica anche il passato e le sue significazioni oppressive e fantasmatiche. «È un segno – la gioia – che, come una stella mattutina, si intravede e scompare tra la notte e l’alba» (Borgna). Qui una trepida commozione autoriale contagia lo spettatore, quale potrebbe provarsi a fronte d’un preziosismo di Murano: compresenza di luce e fragilità. Un patteggiamento con la malattia (dopo le fasi di rimozione e di rifiuto) che, tuttavia, tiene alta la guardia: pronto a riprendere – se necessario – la grande guerra.
Duplice è il messaggio che ci perviene da questa serie di fiction. Da una parte, essa ci dice che salute e malattia, vita e morte non sono altro-da-noi: al contrario, appartengono al senso della nostra esperienza, quella della natura umana: vulnerabilità e finitudine. D’altra parte ci suggerisce, nell’accettazione di tale condizione – nella capacità (pur conflittuale) di conviverci – il presupposto per il raggiungimento di quell’equilibrio biologico e biografico che è finalità primaria di una proficua alleanza terapeutica. Ha scritto, al proposito, Umberto Galimberti: «Lo sguardo del medico può restituire speranza all’attesa iscritta nello sguardo del paziente, perché la speranza, guardando più lontano ed ampliando lo spazio del futuro, distoglie l’attesa della concentrazione sul presente e, liberandola dall’immediato, la dilata in orizzonti che la concentrazione sul presente aveva cancellato». Speranza, infatti, è l’apertura sul possibile… La speranza attiva il nostro comportamento affinché sia nelle nostre mani l’accadere del buon fine. «Una cosa importante – ha detto la Linney a proposito del tema – è sentirsi liberi di parlarne. La voglia di vivere rappresenta il 60% delle chances di sopravvivere.»

Alice Morgan