Dalla letteratura
In collaborazione con l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane
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Come i pazienti e il pubblico possono aiutare a ridurre gli sprechi nella ricerca



Un intervento denso di spunti significativi quello di Iain Chalmers – fondatore della Cochrane Collaboration e animatore della James Lind Alliance – alla Riunione Annuale della Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane del 13 dicembre 2013. Intervento che riassume in poco più di 20 minuti il lavoro di una vita e che, di fatto, costituisce uno spartiacque. Sarà infatti la sua ultima relazione pubblica rivolta ai professionisti sanitari: dopo trent’anni dedicati a ribadire gli stessi concetti per costruire una ricerca clinica etica e partecipata, non è cambiato nulla. Si rivolgerà dunque, d’ora in poi, ad un pubblico diverso, quello degli studenti delle scuole secondarie, sperando di cambiare le cose alla radice e di imparare a sua volta qualcosa di nuovo.
Cosa ha portato Chalmers a questa decisione radicale? Quali e quanti sono gli sprechi nella ricerca che non si è riusciti sinora ad evitare? In un articolo pubblicato sul Lancet nel 2009 (Lancet 2009; 374: 86-9), Chalmers e Paul Glasziou sottolineavano che l’85% dell’investimento nella ricerca viene sprecato. La cifra è da capogiro: più di 85 miliardi di dollari all’anno. Da questa analisi sono derivati alcuni incoraggianti sviluppi e approfondimenti su come evitare gli sprechi, tra cui una serie di articoli appena pubblicati sul Lancet (Lancet 2014; January 8).
Nella sua relazione, Chalmers si è concentrato sugli sprechi conseguenti la scelta dei temi su cui indirizzare la ricerca, citando un articolo di Tallon et al. pubblicato sul Lancet nel 2000 (Lancet 2000; 355: 2037-40) che dimostrava in modo evidente lo scollamento esistente fra i trial effettuati e le priorità avvertite dai pazienti. Questi ultimi, ha sottolineato Chalmers, non vogliono che l’enfasi nelle ricerche sia posta sui farmaci, essendo più interessati agli aspetti educativi, organizzativi, psicologici e allo stile di vita. È quanto ha dimostrato anche il lavoro della James Lind Alliance, con la costruzione del database delle incertezze circa gli effetti dei trattamenti, per individuare quali fossero i dubbi più importanti di pazienti e medici ed indirizzare la ricerca in quella direzione. Un lavoro globale, trasparente e, per quanto possibile, democratico, basato su una partnership tra pazienti e clinici che ha anche lo scopo di definire le priorità nella ricerca.
Altro elemento importante, secondo Chalmers, è che non si guarda con sistematicità alle evidenze già rese disponibili dalla ricerca. Considerando il caso della nimodipina, ad esempio, elementi già disponibili derivanti da studi su modelli animali avrebbero sconsigliato l’avvio di trial; eppure questi dati sono stati esaminati solo dopo la conduzione di studi su circa 7500 pazienti che hanno dimostrato la tossicità di questi medicinali. Lo stesso vale per la somministrazione di corticosteroidi alle donne in caso di parto prematuro, per l’uso dell’acido tranexamico in caso di trasfusione e per un gran numero di altri studi i cui dati sono stati a lungo ignorati.
Questo aspetto è legato ad un altro problema rilevante: il 50% degli studi non viene pubblicato integralmente. Non importa da chi siano sovvenzionati, se siano di grandi o più modeste dimensioni, semplicemente non vengono pubblicati. I pazienti vengono invitati a partecipare ai trial e poi i dati non vengono resi pubblici: ciò significa tradire le loro aspettative. Se i cittadini devono essere coinvolti nelle strategie di riduzione degli sprechi e di tutela della salute dei malati, devono imparare a valutare criticamente le proposte di ricerca e i report. Invece, come sottolinea Ben Goldacre nel suo libro Bad science (La cattiva scienza. Milano: Mondadori, 2009), «non ti viene insegnato nulla sull’interpretazione delle statistiche, sui rischi e sulle basi scientifiche delle terapie». È una lacuna culturale che diventa sempre più evidente.
«Abbiamo cercato di fare qualcosa per colmare questo gap con il libro Come sapere se una cura funziona, che ha registrato due edizioni di successo e molte traduzioni», ha ricordato Chalmers, «ma poi abbiamo sentito l’esigenza di avere qualcosa di più dei contenuti scritti, delle parole, per illustrare adeguatamente questi concetti. Da qui l’esperienza della versione interattiva di Testing treatments, disponibile in molte lingue» (www.testingtreatments.org/). È importante che il pubblico promuova la ricerca, ma è altrettanto importante che la conosca per potervi partecipare attivamente. Un nuovo trattamento, infatti, ha meno probabilità di essere migliore che peggiore di quello già esistente. Sapendolo, i pazienti possono decidere di non partecipare ad un trial clinico se alcune condizioni fondamentali non vengono rispettate. In particolare: il protocollo dello studio deve essere stato registrato e reso disponibile pubblicamente; deve fare riferimento a revisioni sistematiche di evidenze esistenti che giustifichino il trial; il paziente deve ricevere assicurazione scritta che i risultati della ricerca verranno pubblicati.
Se non sussistono queste condizioni, il paziente deve rifiutarsi di partecipare allo studio.
Apertura e partecipazione: il medical publishing deve cambiare?



«Alessandro Liberati è stato una grande ispirazione per molti di noi». Così Fiona Godlee, BMJ editor, ha voluto aprire la propria relazione alla Riunione Annuale 2013 dell’Associazione Alessandro Liberati – Network italiano Cochrane. E nel parlare di “openness”, partecipazione e cambiamenti possibili ed opportuni, ha articolato la discussione in cinque punti ripercorrendo le tappe fondamentali – “open” – del medical publishing: open peer review, open access, open data, openness rispetto ai pazienti e openness rispetto al conflitto di interessi.
Il sistema di peer review attualmente è un sistema difettoso. Per migliorarlo può essere di grande aiuto una open peer review che permetta di aumentare l’affidabilità del sistema di revisione critica, aumentando anche la credibilità del lavoro dei referee. All’interno di questo sistema di open peer review, il BMJ inoltre esplicita i commenti dei revisori. Ulteriori margini di miglioramento del sistema possono derivare dalla revisione post-pubblicazione e nella creazione di un dibattito successivo all’uscita degli studi; di questo confronto, le riviste dovrebbero farsi promotrici e garanti dando spazio a lettere, risposte e commenti anche critici circa i lavori pubblicati. «Vogliamo essere responsabili anche dopo la pubblicazione e il BMJ ha ereditato da Richard Smith un ottimo sistema di risposte rapide».
«Sono completamente a favore dell’open access», ha dichiarato Goodle introducendo la seconda tappa fondamentale, che ha rappresentato una novità molto importante per l’editoria scientifica. Molte riviste, tra cui il BMJ per gli articoli originali che presentano i risultati di studi e ricerche, hanno optato per l’open access, il metodo migliore di diffondere la conoscenza scientifica. Circa il rapporto tra open access e qualità della peer review, Goodle ha sottolineato che l’open access non implica affatto una peer review di scarsa qualità; che ci può essere open access e tassi di accettazione molto bassi così come una peer review poco accurata da parte di riviste che permettono l’accesso ai soli abbonati.
Ben consapevoli della spinosa questione dei publication bias, gli open data possono rivelarsi una spinta importante per garantire l’evidenza in medicina. È un altro punto di grande importanza nel medical publishing odierno: la registrazione dei trial è già un traguardo molto positivo. Circa l’importanza degli open data per una ricerca efficace e trasparente, Godlee ha ripercorso – su tutte – tre storie note: Vioxx, Tamiflu e Reboxetina, casi in cui a monte sono state la mancanza di trasparenza e la non accessibilità dei dati da parte dell’industria. Nel caso dello studio sul Vioxx si è trattato di dati nascosti relativamente ad effetti collaterali importanti, nonostante si fosse di fronte ad un farmaco molto buono; per la Reboxetina di una percentuale del 75% di dati non pubblicati, per cui la Germania decise coraggiosamente di non approvare il farmaco di fronte al rifiuto dell’industria di fornire tutti i dati; per il Tamiflu della decisione di autorizzare il farmaco fondata in realtà su dati insufficienti (in questo ultimo caso, a breve sarà pubblicata la revisione Cochrane). È molto importante la collaborazione delle riviste scientifiche che, come il BMJ, dovrebbero accettare solo lavori che rendono disponibili tutti i dati. Così come è fondamentale smuovere e coinvolgere l’opinione pubblica su questi temi. In questa direzione va la grande iniziativa di AllTrials ( http://www.alltrials.net/) che, promuovendo la registrazione di tutti i trial e la pubblicazione di tutti i metodi e i risultati dei trial, accresce, tra l’altro, il senso di indignazione generale rispetto all’attuale situazione.
La quarta tappa “open” riguarda l’impegno per una reale partecipazione dei pazienti non solo in termini di inclusione nei trial ma anche di partecipazione al processo di pubblicazione degli studi. Le riviste devono – in questo senso – dare giusto spazio alle lettere e ai commenti dei pazienti relativi agli articoli pubblicati. Il BMJ introdurrà la patient peer review: un revisore, tra gli altri, sarà un paziente.
E infine il conflitto di interesse, che in medicina è talmente diffuso da rendere difficile trovare chi non ne abbia. Nonostante ciò, per garantire trasparenza e indipendenza bisognerebbe andare oltre la semplice dichiarazione di conflitti di interesse: chi li ha non dovrebbe scrivere. Parallelamente, l’impegno in questo senso sta nel dare visibilità a chi invece l’indipendenza la ha e la mantiene. Per far questo si devono agevolare in tutti i modi la ricerca e l’informazione indipendenti, privilegiare i trial indipendenti (e nel caso di trial di fase III devono essere tutti indipendenti) rendendo pubblici i dati sui pazienti. Le agenzie regolatorie dovrebbero richiedere almeno un trial indipendente prima di approvare e autorizzare al commercio medicinali o dispositivi. E la ricerca, infine, dovrebbe essere accessibile su database aperti e pubblici e non solo su riviste.
La ricerca mai svolta: chi decide l’agenda?



Due storie per raccontare la ricerca non fatta e individuare chi sia la vittima, chi il colpevole e se l’intera storia possa nuocere a uno o a molti pazienti: le ha proposte Francesco Perrone, responsabile della Struttura Complessa di Sperimentazioni Cliniche dell’Istituto Nazionale Tumori IRCCS – Fondazione Pascale di Napoli, in occasione della Riunione Annuale 2013 dell’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane.
La prima riguarda un campo di ricerca molto piccolo, quello del trattamento dell’epatocarcinoma con sorafenib e la pubblicazione nel 2008 e nel 2009 di due studi importanti, lo studio SHARP, che ha coinvolto una popolazione di pazienti occidentali (Lancet 2008; 359: 378-90) e quello condotto su una popolazione di pazienti asiatici (Lancet Oncology 2009; 10: 25-34). Entrambi hanno dimostrato che sorafenib prolunga la sopravvivenza in questi pazienti, anche se con un vantaggio mediano piuttosto piccolo, inferiore ai tre mesi. Entrambi erano indirizzati verso pazienti con una buona funzionalità epatica espressa con lo score Child-Pugh A. Solo pochissimi pazienti con scarsa funzionalità epatica (Child B) erano entrati in questi due studi (20 nel primo e 6 nel secondo studio). Questo particolare non è da trascurare perché sorafenib, che è considerato un farmaco ben tollerato, produce comunque alcuni effetti collaterali che possono diventare particolarmente gravi e impegnativi in un paziente con scadente funzionalità epatica. Inoltre, la sopravvivenza attesa nei pazienti con Child B è di 4 mesi e mezzo, per cui solo nella migliore delle ipotesi – e cioè che sorafenib funzioni nei pazienti Child B tanto quanto nei pazienti Child A – si può ipotizzare un vantaggio di due mesi (che inizia ad essere discutibile in quanto a dimensione del beneficio), ma in tutte le altre ipotesi ci si deve aspettare un vantaggio inferiore ai due mesi, che quindi è altamente discutibile.
Nonostante questo, sia l’Agenzia regolatoria europea sia la Food and Drug Administration hanno registrato il farmaco per l’uso nell’epatocarcinoma senza alcuna distinzione relativamente alla funzionalità epatica tra Child A e Child B. L’Agenzia italiana del farmaco ha invece scelto di non rimborsare il farmaco per il gruppo di pazienti con Child B: «Scelta corretta ma sgradevole – sostiene Perrone – perché avere un farmaco contro il cancro registrato ma non rimborsato non è mai una bella cosa».
Qual è la vittima di tutta questa storia? Sicuramente la conoscenza: non si saprà forse mai se sorafenib è efficace nei pazienti con Child B. Chi sono i responsabili? Sia l’azienda farmaceutica, che ha chiesto la registrazione del farmaco indipendentemente dalla funzionalità epatica del paziente, sia le agenzie regolatorie, che hanno accettato e approvato il farmaco senza porre una limitazione. Queste decisioni possono ricadere negativamente sui pazienti? Sì, perché c’è un sottogruppo di pazienti con epatocarcinoma che potrebbe avere tossicità da questo trattamento senza che ci sia un’indicazione certa o neanche probabilistica sulla sua efficacia.
La seconda storia raccontata da Perrone riguarda un campo di ricerca molto più ampio, quello del trattamento adiuvante dei tumori della mammella ormonoresponsivi con inibitori delle aromatasi invece che con tamoxifene oppure dopo un paio di anni di tamoxifene. Gli inibitori delle aromatasi di terza generazione hanno fatto la loro comparsa all’inizio degli anni Novanta e il loro meccanismo di azione si basa esclusivamente sulla soppressione degli estrogeni circolanti grazie all’inibizione dell’attività dell’enzima aromatasi. Dal 2003, nel corso di 7-8 anni, sono stati pubblicati ben nove trial sul trattamento adiuvante del carcinoma della mammella, che confrontavano tamoxifene con gli inibitori delle aromatasi, e che hanno coinvolto nel complesso circa 44.000 pazienti. Tutti questi trial erano sostanzialmente controllati (direttamente o indirettamente) da tre aziende farmaceutiche e tutti avevano un endpoint surrogato, spesso un endpoint composto, come “primary endpoint” del trial.
Come mostra una metanalisi pubblicata nel 2010 (J Clin Oncol 2010; 28: 509-18), in tutti questi studi risultava sempre un beneficio per gli inibitori delle aromatasi su tutti gli endpoint surrogati (recidiva locale, tumore controlaterale, DFS, tempo alla metastasi) sia nella strategia up-front (5 anni di trattamento) sia nello switch (2 anni di tamoxifene e 3 di un inibitore dell’aromatasi). «Tutto in questi studi sembrava funzionare alla perfezione» sottolinea Perrone. «Disegno degli studi perfetto, metodologia pure, monitoraggio fatto da importanti CRO internazionali, risultati positivi coerenti tra tutti gli studi e generalizzabilità altissima: l’unica cosa che disturbava era il fatto che nell’up-front non risultava evidente il vantaggio in sopravvivenza degli inibitori dell’aromatasi rispetto al tamoxifene, ma a tranquillizzare gli animi era il piccolissimo vantaggio in sopravvivenza che risultava invece nello switch: hazard ratio 0,94 di sopravvivenza con l’up-front e hazard ratio HR 0,79 con lo switch.
«La verità – continua Perrone – è che in quegli anni nessuno o pochi riflettevano sulla mancanza di ricerche indipendenti, sull’assenza del tentativo di confrontare i diversi inibitori tra di loro e sul fatto che ognuno di questi farmaci costava 6 euro al giorno contro i 50 centesimi del tamoxifene (certo, quisquilie rispetto al costo dei nuovi farmaci!)».
Solo nel 2007, un gruppo oncologi napoletani (all’Istituto dei Tumori e nelle due Facoltà di Medicina di Napoli) è stato in grado, grazie al finanziamento dell’AIFA, di avviare lo studio fattoriale multicentrico che confronta i tre inibitori delle aromatasi tra di loro e nelle due strategie. I risultati arriveranno, anche se forse un po’ troppo tardi.
Nel frattempo è stato pubblicato dallo stesso gruppo di ricercatori che fa capo a Francesco Perrone un piccolo studio volto a valutare la salute dell’osso nelle donne affette da carcinoma mammario iniziale e trattate con terapia ormonale (Ann Oncol 2012; 23: 2027-33). Quello che ha stupito i ricercatori è stato scoprire che circa il 50% di donne appartenenti al gruppo che ha assunto il letrozolo presentava livelli di estrogeni circolanti tranquillamente misurabili (quando invece gli inibitori delle aromatasi dovrebbero sopprimerli) e un 20% di queste pazienti addirittura valori al di sopra della soglia del test che garantisce un rischio molto basso di dosaggio falsamente positivo.
Qualche mese prima della pubblicazione di questo studio, un altro gruppo di studiosi viennesi aveva reso noti i risultati di un’analisi secondaria di un trial realizzato in quegli anni, in cui si confrontavano anastrozolo e tamoxifene, riscontrando che le donne sovrappeso o obese (secondo quanto indicato dal Body Mass Index – BMI) presentavano un maggior rischio di recidiva o morte solo se trattate con anastrozolo e non con tamoxifene (J Clin Oncol 2011; 29: 2653-2659). Il BMI è una misura indiretta del tessuto adiposo e il tessuto adiposo è il luogo dove gli estrogeni vengono prodotti nelle donne con ovaie non funzionanti. Sulla base di questi risultati, l’ipotesi che secondo Perrone si potrebbe formulare è che anastrozolo potrebbe dare risultati peggiori rispetto a tamoxifene se usato in pazienti in sovrappeso o obese perché in queste pazienti gli inibitori delle aromatasi potrebbero non sopprimere adeguatamente gli estrogeni. In questo caso, l’unico meccanismo di azione ipotizzato per questi farmaci potrebbe non funzionare, la prescrizione potrebbe rivelarsi un placebo o addirittura un danno (a causa della mancata somministrazione di tamoxifene). In base ai risultati dello studio condotto all’Istituto Tumori di Napoli, questo potrebbe accadere a una percentuale di donne compresa tra il 20 e il 50%. «Se fosse vero – sostiene Perrone – che il 35% delle donne in trattamento con un inibitore delle aromatasi assume in realtà un placebo, questo spiegherebbe perfettamente la differenza dell’HR di sopravvivenza tra le due strategie di up-front e switch».
Chi è la vittima di questa seconda storia? Ancora una volta la ricerca mancante: non si sa (e non è chiaro se e quando si saprà) se gli inibitori delle aromatasi funzionano solo in un sottogruppo di pazienti. Chi è il responsabile? In questo caso sia le aziende farmaceutiche sia l’accademia, che è stata complice. Chi ci va di mezzo? Se l’ipotesi di Perrone risultasse corretta, la paziente alla quale si sta somministrando un placebo invece che tamoxifene.
Certo, è singolare che queste nuove ipotesi della letteratura emergano solo 15 anni dopo che si è iniziato a lavorare sugli inibitori delle aromatasi e proprio quando i brevetti di questi farmaci sono ormai scaduti. «Si poteva fare meglio?» si è chiesto provocatoriamente Perrone a conclusione del suo intervento. «Probabilmente sì – è la risposta – e sicuramente in questo anche le agenzie regolatorie hanno giocato un ruolo non sempre trasparente rispetto alla loro missione».