In questo numero

I dati a supporto della sicurezza del farmaco anticoagulante dabigatran sono incompleti: è quello che sembra dimostrare un rapporto di Deborah Cohen pubblicato su The BMJ: «L’azienda produttrice – leggiamo – non ha condiviso con le agenzie regolatorie le informazioni sui potenziali benefici di un monitoraggio dell’attività anticoagulante e dell’aggiustamento della dose al fine di essere certi che l’azione del medicinale sia la più sicura e efficace possibile. Allo stesso tempo, l’industria ha nascosto le analisi con cui era stato calcolato quanti sanguinamenti maggiori sarebbe stato possibile prevenire proprio in virtù di tale aggiustamento».

Sempre su The BMJ, un editoriale di Blake Charlton e Rita Redberg ricostruisce il percorso registrativo di dabigatran, dalla procedura accelerata di approvazione da parte della Food and Drug Administration, fino ai dati di vendita di un prodotto che ha raggiunto, nel 2014, i due miliardi di dollari di fatturato nei soli Stati Uniti. Una Analysis di Thomas J. Moore, Michael R. Cohen e Donald R. Mattison discute in modo approfondito la metodologia utilizzata nello studio RE-LY, “non-inferiority pivotal trial” di confronto tra dabigatran e warfarin che ha fornito gran parte dei dati per la registrazione del farmaco. Una Editorial’s Choice di Trevor Jackson inquadra l’argomento in una cornice più ampia, spostando l’attenzione dal nuovo anticoagulante alla più generale questione dell’accesso ai dati e alla qualità di questi ultimi.

Prendendo spunto dalle linee-guida del NICE sulla prevenzione cardiovascolare, Jackson riporta quanto sostengono Ben Goldacre e Liam Smeeth: «Servono dati migliori, da studi più ampi e occorre una migliore comunicazione sui rischi a confronto delle terapie convenzionali. In assenza, potremo dire solo che le statine – in linea molto generale – è probabile facciano più bene che male: ma non è abbastanza».

All’analisi di questi temi contribuisce anche questo numero di Recenti Progressi, con l’esperienza d’uso di dabigatran nel Policlinico universitario di Careggi (pag. 322), la rassegna di Marco Marietta et al. sui nuovi anticoagulanti (pag. 333) e la nota di Giuseppe Lippi e Camilla Mattiuzzi sulle linee-guida per la terapia dell’ipercolesterolemia dell’American College of Cardiology e dell’American Heart Association (pag. 317).

La cosa forse più importante, però, è che il fascicolo di The BMJ ripropone il ruolo fondamentale di una rivista scientifica, restituendole la funzione di orientamento in cui il singolo lavoro (o, come qualcuno vorrebbe, la singola tabella o illustrazione o frase contenuta in un articolo) andrebbe letto mantenendo sempre vigile lo sguardo ai materiali che lo accompagnano. In un post già molto letto e citato sul blog Cognitive science and more, Sebastiaan Mathôt parla di ciascun documento come di una raccolta di singoli elementi: «A paper is a collection of figures, datasets, and manuscript sections, each of which should be citable on its own and, in some cases, could have been published on its own». È una prospettiva interessante soprattutto per il medico che scrive. Ma al medico che legge occorre qualcosa di diverso: riviste che siano spazi di confronto, capaci di proporre contributi che dialoghino tra loro prima ancora di parlare al lettore.

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