Medicina e letteratura: un’antologia

Cosa fare se un padre ottantenne, salutista, non finisce di chiederti di sottoporti a una colonscopia? Niente altro che cedere.

Da: David Sedaris.

Esploriamo il diabete coi gufi.

Milano: Mondadori, 2014.

Alla reception mi sono registrato e mi hanno detto che per il resto della giornata non avrei potuto staccare assegni né prendere decisioni legali. «D’accordo?» mi ha chiesto l’impiegata. Era una tipa allegra e emanava un buon profumo, e mentre prendevo in mano la penna per il modulo d’assenso ho notato che sul petto aveva tatuate delle impronte di zampe. Sembrava che una lince con le zampe sporche di fango le fosse passata sopra, o che l’avesse abbracciata.

«Sono adorabili», ha commentato Lisa, e l’impiegata, che si chiamava Vette, l’ha ringraziata. Dietro di noi, nella sala d’attesa, c’erano altre cinque o sei persone. Tutte parecchio più anziane di me, e quasi tutte intente a guardare la televisione, che non era sintonizzata su un qualche telegiornale, ma trasmetteva a ciclo continuo una serie di brevi spot informativi di argomento medico. «Vi siete mai chiesti se soffrite di vescica iperattiva?» chiedeva la voce narrante di uno. Un altro ci invitava a riflettere sulla sindrome da intestino irritabile.




«Oh no» ha sussurrato Lisa, guardando la tv con una smorfia inorridita. Pensavo che avrei avuto un po’ di tempo per stare con lei, e magari imparare qualcosa sull’incontinenza, ma qualche istante dopo aver firmato l’ultimo modulo, mi hanno portato nella sala dove mi avrebbero fatto l’esame. Al centro c’era un letto da ospedale, e su una parete un alto scaffale pieno di roba medica. Sopra ci sarà stata una decina di oggetti, ma a catturare la mia attenzione è stato il gel lubrificante, contenuto in una vaschetta grande quanto un bongo.

«Vuole che le spieghi come si svolgerà la procedura?» mi ha chiesto una tecnica di nome Dawn.

Le ho detto che preferivo non conoscere i dettagli, e lei se n’è andata, lasciandomi solo a svestirmi e infilarmi un camice aperto sulla schiena. Subito dopo, mi ha fatto stendere sul letto e presentato l’anestesista, che reggendo in mano un tubo per l’ossigeno mi ha chiesto se ero allergico al lattice.

Ho risposto di no, pensando: “Oppure sì?”. Lei mi ha sistemato il tubo sul naso, e stava giusto per infilarmi nel braccio l’ago della flebo quand’è entrato il gastroenterologo. Senza nemmeno accorgermene, devo aver raggiunto quell’età in cui i medici che ti curano sono più giovani di te. Quello sembrava avere meno di quarant’anni. «Holmes», così si è presentato, solo con il cognome e senza la qualifica. Ci siamo stretti la mano, e un attimo dopo l’anestesista ha attaccato alla mia flebo una siringa di liquido color crema.

«Adesso le chiederò di raggiungere il suo posto felice» mi ha detto. Mi si è aperto il retro del camice, e ho sentito l’aria fredda sul sedere scoperto.

«Il mio che?»

«Il suo posto felice» ha ripetuto lei. «Ciascuno ha il suo. Il signore che ho anestetizzato prima di lei, per esempio, è andato all campo di golf di Agusta, e quando si è svegliato stava vincendo il Master.»

[…]

Quando mi sono svegliato, ero in un altro posto. […] Mai in vita mia avevo sperimentato una così assoluta sensazione di benessere. Era tutto morbido e bellissimo. Le persone erano tutte meravigliose. Forse, se avessi ancora bevuto e preso droghe gli effetti non sarebbero stati altrettanto forti, ma a parte un po’ di Dilaudid che mi avevano dato nel 2009 per un calcolo renale, ero tristemente sobrio da tredici anni.

«Ringrazi il propofol» mi avrebbe poi spiegato il dottor Holmes. «È quello che si iniettava Michael Jackson quand’è morto.»

Come biasimarlo? Darei qualsiasi cosa per dormire così profondamente, e per svegliarmi ogni mattina avvolto da quella nuvola di indistinto amore. […]

Mentre mi preparavo per fare due passi, ha telefonato mio padre.

«Allora?» mi ha chiesto. «Il verdetto? È stato brutto come pensavi?»

Avrei voluto ringraziarlo per tutti quegli anni passati a tormentarmi, riconoscere che l’aveva fatto solo per il mio bene, e invece, incapace di trattenermi, gli ho detto: «Papà, hanno trovato qualcosa. E… papà… papino… ho un cancro.»

È orribile, lo so, ma era tutta la vita che aspettavo di pronunciare quelle parole. Nei momenti di autocommiserazione, le avevo provate come le battute di uno spettacolo, senza mai pensare alla persona che le avrebbe sentite, ma solo a me stesso e a come mi avrebbero fatto sembrare tragico. Quel “papino”, però, ha sorpreso anche me, tanto che mi sono venute le lacrime agli occhi e mi si è appannata la vista. […]

«L’importante è non darsi per sconfitti» ha detto mio padre, e nel dirlo mi è sembrato così forte, così assolutamente identico all’uomo onnipotente che era stato da giovane, che mi sarebbe dispiaciuto da matti dirgli che scherzavo. «Devi lottare» mi ha detto. «Lo so che hai paura, ma credimi, figlio mio, insieme ce la possiamo fare».

Alla fine gli avrei detto la verità, ma per il momento, almeno per qualche altro istante, volevo rimanere in quel posto felice. Amato, e protetto. Appagato.