In questo numero

«Vado a incontrare per la milionesima volta la realtà dell’esperienza», scriveva James Joyce. William Gedney, poco conosciuto ma interessantissimo “street photographer” statunitense morto prematuramente nel 1989, nei propri appunti capovolse la frase dell’autore dell’Ulisse: era l’esperienza della realtà che, come fotografo, inseguiva. «Lavoro nel bel mezzo dell’esistenza quotidiana», diceva.

Chissà che non sia questo entrare e uscire e rientrare attraverso lo specchio dell’esistenza a dare forma a quell’expertise che – a giudizio di Luigi Pagliaro e Agostino Colli – colpevolmente il movimento della evidence-based medicine ha mancato di definire. Per restare a Gedney, si dice avesse il dono di integrare la sua straordinaria capacità di osservare con «il piacere di toccare tantissime cose di consistenza diversa». Immaginare il futuro – formulando una diagnosi, avanzando una prognosi – è un percorso “sensato” e quindi assennato, saggio, informato dai sensi. E, allora, in che misura una ricerca, anche esaustiva, di letteratura può di per sé garantire l’esito positivo del percorso clinico? La riduzione del problema del malato – che spesso riguarda anche i suoi familiari o l’organizzazione sanitaria – in un’interrogazione bibliografica schematicamente ricondotta alla struttura del PICO (Paziente – Intervento – Confronto o alternativa – Outcome) è davvero opportuna?

Le perplessità sollevate nel contributo di Pagliaro e Colli non trovano soluzione nell’editoriale di Rodolfo Saracci: il giovane medico non viene formato adeguatamente per rispondere ai «problemi essenziali per un esercizio competente della pratica medica». «Vi è un’enorme sproporzione – sostiene Saracci – tra il volume e il dettaglio con cui sono trattati gli argomenti di biologia di base e di fisiopatologia fino a livello molecolare e la schematicità o sommarietà con cui sono affrontati temi come la valutazione di efficacia di interventi diagnostici e terapeutici o l’uso attivo e critico o passivo e acritico dell’evidence-based medicine e delle linee-guida». L’editoriale sottolinea la circolarità dell’agire del medico (ragionare – fare – valutare e riflettere sugli esiti) e la necessità di porsi in un atteggiamento non dogmatico nei confronti delle “prove”, formalizzate o meno in raccomandazioni o clinical guideline.

Altro elemento importante nell’articolo che apre questo fascicolo è la necessità del lavoro interdisciplinare e del saper comunicare-lavorare in rete: «Agire in concertazione: se questa fallisce, i risultati per i pazienti variano da sub-ottimali a catastrofici, se questa funziona i risultati sono positivi non solo per i pazienti ma anche per i medici che riescono a recuperare nella pratica una prospettiva più comprensiva dei problemi della malattia e della salute».

A questo proposito, il quadro offerto da Giuseppe Fatati sulla presa in carico del malato diabetico non è confortante: «La comunicazione tra cure primarie e specialistiche è scarsa, così come è molto scarsa la continuità di assistenza e cura tra gli ospedali e il territorio inteso in modo globale». E prosegue: «Ancora più scarso appare il coinvolgimento dei familiari, decisamente trascurati dal sistema. Vi sono poi risposte molto differenziate date dagli operatori della sanità: i pareri degli specialisti relativamente agli approcci al paziente differiscono di gran lunga rispetto a quelli dei medici di medicina generale. Anche la comunicazione interpersonale medico/paziente risulta carente: solo un quarto delle persone con diabete afferma di aver discusso efficacemente con il proprio medico gli obiettivi da raggiungere e i comportamenti per ottenerli, mentre l’80% dei sanitari afferma di farlo costantemente. Si tratta di un’evidente contraddizione, che mette in luce preoccupanti carenze di comunicazione».

Converrebbe rimettersi alla lavagna, riprendere in mano i gessi che abbiamo voluto in copertina: fare il medico – e non soltanto guarire – è un processo di cambiamento, come spiega Claudio Graiff: chiede uno sguardo laico, che non si accontenti di certezze rassicuranti ma che induca sempre a mettersi in discussione.

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