Dalla letteratura

In collaborazione con l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane
www.associali.it

Manca un controllo sulla pubblicità online

La forza vendita di gran parte delle industrie farmaceutiche italiane è molto meno numerosa di un tempo: l’utilità dell’informatore è assai minore in un mercato determinato dalla vendita di pochi prodotti ad altissimo costo. La fortuna – o la disgrazia – dei medicinali si costruisce ai piani alti delle agenzie regolatorie, delle Regioni e delle aziende sanitarie. Meno di frequente nei reparti ospedalieri o negli ambulatori del medico di medicina generale.

Per non perdere contatto con i prescrittori, le aziende ricorrono sempre di più ai media digitali, investendo in questa direzione almeno il 25% del budget promozionale: producendo o sponsorizzando siti web, aprendo e gestendo pagine Facebook, essendo presenti attivamente su Twitter, pubblicando video su YouTube, realizzando app. Soprattutto, però, investendo nella produzione di sistemi per la gestione elettronica dei dati del paziente. Questi software di gestione delle cartelle cliniche sono offerti in dono al medico: in cambio, l’azienda ha accesso a ogni informazione riguardante la diagnosi e la terapia. In forma anonima, d’accordo, ma comunque preziosa per monitorare in tempo reale la fedeltà del medico ai prodotti aziendali, indicatore infallibile dell’efficacia degli investimenti promozionali in viaggi, partecipazione a congressi e attività accreditate ECM: tutte cose che ancora si continuano a fare come e più di prima. Per adesso, la sanità informatizzata monitora il medico e non il malato. E a investire non sono le istituzioni ma le industrie.

Come spiega un articolo uscito da poco sul New England Journal of Medicine1, la produzione di app e l’apertura di canali di comunicazione sui social media sono delle opportunità straordinarie per tenere sotto controllo le conversazioni in rete: si determinano i flussi di informazione e si individuano i key opinion leader reali, capaci di orientare il pensiero collettivo su web. Il ricorso ad app molto utilizzate dai medici statunitensi innesca immediatamente dei flash pubblicitari capaci di influenzare la decisione clinica del medico: la grande novità del marketing digitale è che non si svolge nelle sale dei congressi né all’interno dei corridoi degli ospedali, ma direttamente al letto del paziente.

L’informazione pubblicitaria farmaceutica – diretta e indiretta – è sostanzialmente priva di regole. Negli Stati Uniti, la Food and Drug Administration ha proposto una guidance sul comportamento delle industrie su internet: un orientamento, insomma, non regole. Cosa dicono? Innanzi tutto, fate i bravi. Secondo: vi consideriamo responsabili solo dei contenuti prodotti direttamente da voi. Terzo (corollario del precedente): se sponsorizzate blog o siti di altri non vi diremo nulla: «If a firm provides only financial support (e.g., though an unrestricted educational grant) and has no other control or influence on that site, then the firm is not responsible for the information on a third-party site and has no obligation to submit to the FDA». Quarto, la trasparenza è fondamentale, quindi siate sinceri. Quinto: partecipare al confronto sui social media in tempo reale non presuppone il deposito dei materiali presso la FDA.

E in Italia? Dal decreto legislativo n. 541 del 1992 è possibile dedurre delle norme di comportamento generale che difficilmente si adattano ai nuovi scenari. Ma nulla di più. Nessuna indicazione precisa, né riguardo la presenza su internet né circa le caratteristiche che dovrebbe avere una app per essere messa in commercio. Eppure, nascono ogni giorno nuovi siti finanziati da aziende farmaceutiche per aumentare la nostra “consapevolezza” sulle malattie più impensate. Così come escono quotidianamente nuove applicazioni destinate ad avere un impatto forte e diretto sulla salute dei cittadini. Come diceva Frederick Mosteller, «nothing improves the performance of an innovation as the lack of control».

Bibliografia

1. Manz C, Ross JS, Grande D. Marketing to physicians in a digital world- N Engl J Med 2014; 271: 1857-9.

2. Guidance for industry Internet/Social media platforms with character space limitations. Food and Drug Administration. Giugno 2014. http://www.fda.gov/downloads/drugs/guidancecomplianceregulatoryinformation/guidances/ucm401087.pdf

Luca De Fiore




Open access in primo piano

In occasione della open access week1 che ricorre ogni ottobre è stata pubblicata una piccola guida, How open is it?2, tradotta anche in italiano3, per rispondere alla domanda “in che misura questa rivista è ad accesso aperto?”. La Public Library of Science a ottobre ha celebrato i 10 anni della sua rivista ammiraglia, PLoS Medicine: alla sua nascita, si ricorda nell’editoriale scritto in occasione dell’anniversario4, le principali riviste generaliste avevano almeno settanta anni di storia. In poche stagioni PLoS Medicine, con un impact factor di 14 punti (anche se proprio PLoS mette in discussione tale strumento per valutare l’impatto di una rivista), ha raggiunto la sesta posizione, ma non era questo l’obiettivo al quale mirava, voleva piuttosto dimostrare che era possibile cambiare le regole del gioco dell’editoria medica, non accogliendo la pubblicità delle industrie farmaceutiche, e aderendo a quelli che vengono definiti due imperativi etici, assicurare sia l’affidabilità della ricerca pubblicata, sia l’accesso e la possibilità di riutilizzo universali.

Per ripercorrere questo decennio, il blog Speaking of medicine5 ha pubblicato 8 post con una selezione di 7 articoli e una serie, Big Food6, per “sottolineare l’ampiezza di argomenti trattati e l’influenza di PLoS Medicine, dall’etica della pubblicazione, alle politiche di salute pubblica, ai progressi nella medicina traslazionale”. Qui ci soffermiamo sull’ultimo post, I’ve got a (lot of) little (check)lists, a cura della direttrice editoriale, Virginia Barbour7, sulla pubblicazione delle linee-guida per la redazione CONSORT (per i trial clinici) e PRISMA (per le revisioni sistematiche e le meta-analisi) e sull’importanza di tali checklist: per quanto possa essere noioso seguirle, bisogna ricordare che «se si danno ai pazienti trattamenti che scaturiscono da studi descritti in modo inadeguato, si rischia di assisterli in modo subottimale, nella migliore delle ipotesi, di danneggiarli o ucciderli, nella peggiore».

Sul blog di BioMed Central viene presentato il nuovissimo open access button8, ovvero la versione del terzo millennio della magica formula “apriti sesamo”: basta scaricarlo e ogni volta che si incontra un articolo a pagamento si “spinge il bottone”, avviando così una ricerca per una versione accessibile; se non si trova una versione open, il magico bottone invierà una email all’autore, alla ricerca di ulteriori informazioni. Nella serie di post dedicati alla settimana dell’open access si possono leggere le testimonianze dei direttori di cinque delle riviste targate BioMed Central che fanno il bilancio di 10 anni di pubblicazioni; trovano spazio anche altre voci, come quella di due giovani ricercatrici e di una docente; nella serie Generation Open un giro del mondo attraverso le interviste a studenti di tutte le latitudini9.

Ricordiamo che sono open tutti gli articoli di ricerca di The BMJ.

La Cochrane Library si definisce un provider open access, ma “in che misura è ad accesso aperto”?: molte revisioni sono liberamente accessibili al momento della pubblicazione (gold open access), le revisioni pubblicate a partire dal 2013 lo sono dopo 12 mesi. Ma l’impegno della Cochrane Library nell’open access si declina anche nella sua recente collaborazione con Wikipedia, nell’ambito del Wiki Project Med Foundation10.

Proprio in questi giorni il New York Times11 ha dedicato un articolo al ruolo di Wikipedia nella diffusione di informazioni mediche autorevoli: la voce “Ebola Virus Disease” è stata visitata 17 milioni di volte ed è tradotta in un gran numero di lingue. Dalla collaborazione di Wikipedia con la rivista canadese Open Medicine è nata infine la voce Dengue Fever: James Maskalyk, uno degli editor della rivista, racconta questo esperimento12.

Bibliografia

1. http://www.openaccessweek.org/

2. http://www.plos.org/open-access/howopenisit/

3. http://www.plos.org/wp-content/uploads/2014/10/PLOS-HOII-leaflet_Italian-V2_final.pdf

4. The PLOS Medicine Editors. PLOS Medicine at 10 years: two imperatives. PLoS Med 2014; 11: e1001749. doi:10.1371/journal.pmed.1001749.

5. McBride T. Happy birthday PLOS Medicine. http://blogs.plos.org/speakingofmedicine/2014/10/13/happy-birthday-plos-medicine/

6. Simpson P. PLOS Medicine’s big food series: shining a spotlight on industry’s influence on health. http://blogs.plos.org/speakingofmedicine/2014/10/14/plos-medicines-big-food-series-shining-spotlight-industrys-influence-health/

7. Barbor V. I’ve got a (lot of) little (check)list. http://blogs.plos.org/speakingofmedicine/2014/10/17/ive-got-lot-little-checklists/

8. BioMedCentral. New open access button launched. http://blogs.biomedcentral.com/bmcblog/2014/10/29/new-open-access-button-launched/

9. BioMedCentral. The theory and the practice: what open access publishing means to an early career researcher. http://blogs.biomedcentral.com/bmcblog/tag/open-access-week-2014/

10. http://meta.wikimedia.org/wiki/Wiki_Project_Med/it

11. Cohen N. Wikipedia emerges as trusted internet source for Ebola information. New York Times, 26 ottobre 2014. http://www.nytimes.com/2014/10/27/business/media/wikipedia-is-emerging-as-trusted-internet-source-for-information-on-ebola-.html?_r=4

12. Maskalyk J. Modern medicine comes online. Open Medicine 2014; 8 (4). www.openmedicine.ca/article/view/652/565

Arabella Festa
Biblioteca Alessandro Liberati
www.bal.lazio.it




La peer review condizionata

L’ultimo aggiornamento della lista degli editori-predatori è del gennaio 2014 e, con l’apertura del nuovo anno, si attende la sua revisione da parte del blog Scholarly Open Access. I criteri per la definizione di predatory publisher sono talmente tanti e articolati che non si può che rimandare al post di Jeffrey Beall pubblicato nel dicembre 2012 e disponibile sul sito prima citato1. Anche in questo caso, si tratta di un elenco in continuo divenire, perché il marketing editoriale è così fantasioso da inventare quotidianamente varianti nuove al medical publishing.

La malpractice, però, non riguarda solo gli editori d’assalto e meno conosciuti ma anche case editrici che si sono meritate comunque un generalizzato rispetto da parte della comunità scientifica, come BioMedCentral. È di questi giorni la notizia del ritiro di diverse decine di articoli da parte di BMC: all’origine della decisione sarebbe la constatazione di una manipolazione del processo di peer review. Da parte di ignoti che si sarebbero introdotti nel sistema di gestione degli articoli sottoposti per pubblicazione, alterando i nomi dei revisori e i giudizi di qualità sui lavori. Qualcosa di molto simile è accaduto prima della scorsa estate al Journal of Vibration and Control pubblicato dalla casa editrice californiana SAGE. È tornato a parlarne il blog di the Scientist: oltre 60 articoli ritirati dopo la scoperta di circa 130 account di posta elettronica falsi di altrettanti referee3.

I sistemi di gestione editoriale sono molto vulnerabili e lo spiega un articolo di Nature firmato anche da uno dei curatori di Retraction Watch, Ivan Oransky4. Ma anche il processo di revisione di molti periodici fa acqua: basti pensare alla abitudine di non poche riviste di chiedere a chi propone un articolo di segnalare il nome di alcuni possibili referee. È accaduto (o accade regolarmente?) che l’aspirante autore abbia creato degli account di posta con il nome di colleghi di altre università o centri ospedalieri. Dopo tutto, è un’idea banale: Robert Smith esiste e lavora alla University of California. Chiedete dunque a lui un parere sul mio articolo e la sua e-mail è robert.smith123@gmail.com. Beninteso, a ricevere la e-mail con la proposta di revisione sarà l’autore stesso (del resto: perché disturbare Robert Smith con tutto quello che ha da fare?). Come sappiamo, però, l’intelligenza non è equamente distribuita e restituire un parere sull’articolo da revisionare a distanza di pochi minuti deve aver insospettito anche il meno sospettoso dei redattori editoriali. È così che è stato scoperto quello che è stato subito definito “the peer review ring”: un giro fatto di mogli, figli, amanti, mariti e allievi. Tutti espertissimi revisori.

Adesso, la tendenza è quella di associare queste pessime abitudini sul modello di pubblicazione in open access. La sensazione, però, è che sia una spiegazione sbrigativa. “Il problema è a monte”, come si diceva una volta. Più attuale, però, la frase di Bruce Schneier del Berkman Center for Internet and Society di Harvard: «Non c’è quasi mai una soluzione tecnica di problemi sociali».

Bibliografia

1. Ball J. Criteria for Determining Predatory Open-Access Publishers. Scholarly Open Access. 2a ed. 1 dicembre 2012. http://scholarlyoa.com/2012/11/30/criteria-for-determining-predatory-open-access-publishers-2nd-edition/

2. Vence T. Peer review manipulation. The Scientist blog. 26 novembre 2014. http://www.the-scientist.com/?articles.view/articleNo/41534/title/Peer-Review-Manipulation-/

3. Barbash F. Scholarly journal retracts 60 articles, smashes ‘peer review ring’. Washington Post. 10 luglio 2014. http://www.washingtonpost.com/news/morning-mix/wp/2014/07/10/scholarly-journal-retracts-60-articles-smashes-peer-review-ring/

4. Ferguson C, Marcus A, Oransky I. Publishing: the peer review scam. Nature. 26 novembre 2014. http://www.nature.com/news/publishing-the-peer-review-scam-1.16400

Luca De Fiore