Cinema e medicina

a cura di Luciano De Fiore

Se il malato è la Libertà.
A proposito di Taxi Teheran,
di Jafar Pahani

Tutto e niente. Per un verso, quel che ci accomuna alla Teheran ritratta dalla telecamerina nel taxi di Jafar Panahi è niente, tanta è la rabbia che si prova per lo squarcio di oppressione e di illibertà che si avverte tra le strade e le parole dei clienti; per un altro verso, i sentimenti delle persone via via raccolte dall’autista-regista sono universali. Pietà, dolore, amore, ingenuità sono apparentabili alle loro versioni occidentali, mentre si susseguono gli ospiti a bordo dell’auto dell’improbabile tassista. Il quale ha, nella realtà, sulle spalle una condanna a sei anni ai domiciliari ed a venti d’interdizione dal suo mestiere. Il che non gli ha impedito però di confezionare, un paio d’anni fa ma appena distribuito in Italia, il suo terzo prodotto cinematografico dopo la condanna, Taxi Teheran, girato in un taxi giallo con gusto minimalista e tre videocamere e alcuni smartphone, e montato ad arte, al punto da esser premiato l’anno passato con l’Orso d’Oro a Berlino.




Dai finestrini non si scorge certo la capitale monumentale del nuovo Iran, potenza atomica. Piuttosto, una città in grigio, impolverata ed arruffata, senza acuti. Nella quale salgono e scendono dal taxi persone comuni: il primo si rivelerà un borseggiatore, intransigente - a parole - sull’applicazione della sharia, ed in polemica con la seconda passeggera (in Iran, su taluni taxi, il servizio non è individuale e possono salire diversi clienti), un’insegnante d’asilo contraria invece alla pena di morte. Poi, un venditore clandestino di dvd, proibiti in Iran (chi avrebbe mai detto che anche Midnight in Paris di Woody Allen possa esser considerato un’arma dell’Occidente?), che fa visita ad un cliente, un giovane appassionato di cinema, interpretato dal nipote dello stesso Panahi.




Il senso del male e della precarietà della vita sono affidati forse soprattutto ad una moglie con il marito ferito in un incidente di moto: dei passanti caricano l’uomo insanguinato sul taxi, ingiungendo all’autista di raggiungere non il più vicino ospedale, precluso ai poveri, ma un altro più lontano. La miseria si dichiara dalle urla disperate del ferito, preoccupato di morire senza poter lasciar nulla in eredità alla moglie. Ed ecco che il venditore di dvd si fa strumento di verità, testimoniando le ultime volontà dell’uomo, grazie ad un cellulare che lo riprende mentre Panahi si fa strada verso il pronto soccorso. Poco oltre, la quotidianità riconquista la scena, grazie a due donne di mezz’età, superstiziose al punto di ritener legata la propria sorte a quella di due pesci rossi, tenuti in una boule per esser liberati in una fontana del centro città. Per una frenata improvvisa del taxi, le due perderanno per un attimo i due pesciolini, salvati dal pronto intervento dell’autista e regista. Perdono anche il borsellino, scivolato per terra. A ritrovarlo sarà la piccola nipote, che lo zio (tale anche nella realtà) è andato a prendere a scuola col taxi. Lasciata sola in macchina, la ragazzina vede un coetaneo, ridotto a cercare bottiglie di plastica nei cassonetti, raccogliere dei soldi caduti di tasca ad un giovane e abbiente sposo. La bambina lo invita pressantemente a ridare i cinquanta toman a chi li aveva persi, mettendo in crisi il ragazzino, anche se alla fine in lui prevale la necessità.

L’ultima scena torna sul medesimo tema, la giustizia, con un omaggio alla filosofia ed al diritto, oltre che al grande cinema. Panahi cerca e ritrova infatti le due donne superstiziose, intente a ridare libertà ai due pesci rossi nella fontana: perfino per le due anziane signore la libertà è quindi, immediatamente, un valore. Solo che – direbbe Hegel - non lo sanno, cioè non ne hanno coscienza. Mentre l’autista, sceso dal taxi accompagnato dalla nipotina, s’inserisce nel lungo e splendido piano-sequenza andando a restituire il borsellino alle due, altri due tipi in moto, mascherati dai caschi, effrangono il finestrino e rubano le telecamere. Giustizia ed ingiustizia si compiono nello stesso istante. Giustizia è dare a ognuno il suo. È bello che i pesci possano tornare a nuotare liberi nella corrente, che un portafogli torni nella tasca di chi lo aveva perso. Il diritto è giusto se è capace di dare a ciascuno il suo, ma perché ciò avvenga, è necessaria la libertà: libertà consiste nel poter vivere secondo giustizia.

Il piccolo film del regista iraniano dimostra che libertà e giustizia sono valori veri, come testimoniano alcuni personaggi della pellicola, soprattutto femminili, e il fatto che non lo siano per tutti ne garantisce ancor più l’autenticità, perché è chiaro così che non lo sono “naturalmente”. Per sbocciare, occorre che la gente sia libera: anche di filmare, di esprimere la propria arte, di ritrarre la realtà, come fanno – ognuno a proprio modo – diversi dei personaggi del film, aiutandosi con cellulari e videocamere di fortuna.

Già nel 2002 un altro maestro dei cinema iraniano, Abbas Kiarostami, aveva girato un intero film – Dieci – all’interno di un’auto, raccontando le storie di alcuni passeggeri. Dieci anni dopo, la società iraniana filmata da quello che un tempo era stato l’aiuto-regista di Kiarostami appare ancor più isterilita in un ordine formale, prodigo di regole e norme severe al punto da punire con la pena di morte lo scippo, ma incapace di sopportare l’autonomia dei soggetti, “costretti” di continuo al sotterfugio, al contrabbando, alla menzogna. Libertà e giustizia sono malate, nella Teheran piatta e ingrigita ritratta da Panahi, il quale nel 2012 ha ricevuto il Premio Sacharov per la libertà di pensiero del Parlamento europeo.