Quale dignità al termine della vita?
Considerazioni etico-deontologiche

Davide Mazzon1

“Dignity” at the end of life: ethical and deontologic reflections.

Summary. Bioethical reflection is often raised to qualify medical treatment in relation to the concept of “dignity” of the human being. In philosophy, the concept of human dignity is used to refer to the intrinsic value of every human being but it has been framed in many different ways depending on the theoretical matrix we refer to. According to Christian principles, the dignity of human beings resides on their being created in the image and likeness of God: hence, the holiness of life for the believer and the condemnation of all means of action intended to anticipate death from suicide to euthanasia. On the contrary, according to the liberal tradition, human dignity is especially expressed in the autonomy of every human being. The Italian and the German Constitutions recall the value of human dignity. In the article 32 of the Italian Constitution, the concept of dignity is taken into account when stating the autonomy of the individual decision-making about health treatment. This is confirmed by the Code of Medical Ethics (2014): the right to self-determination and the right of patients to decide for themselves in accordance with their own life plans, are at the core of the concept of “human dignity”. For this reason, doctors should support and encourage the full right of every patient to be considered as an autonomous person until the end of life, affirming his dignity. The acronym ABCD (airway, breathing, circulation, drugs) synthetises the essentials of intensive care procedures in life-threatening events. The same acronym should guide our behavior in promoting dignity in clinical settings. Attitude: moving away from our certainties, to better understand the real nature of the sick person we are approaching. Behavior: always be inspired by kindness and respect. Compassion, that is, deep awareness of the suffering, coupled with the desire to bring relief. Dialogue, being open to know the human being “behind” disease. This approach, developed by Chochinov and called “Dignity in Care”, promotes the expression of the dignity of people and allows them to operate, together with the healthcare team, the choices consistent with their own life plans to the end of life.

Introduzione

Sono sotto gli occhi di tutti i profondi mutamenti che negli ultimi decenni sono avvenuti nelle modalità del morire: la morte non è più un “evento” puntuale, spesso improvviso, imprevisto e imprevedibile, bensì un “processo” gestibile dalla medicina. Oggi, infatti, la morte per malattia avviene sempre più spesso in persone di età avanzata, a conclusione di malattie cronico-degenerative, alla fine di un lungo percorso di cure in cui la fase terminale può essere meno dolorosa ma più protratta rispetto al passato; addirittura il processo del morire può venire ritardato, mediante il ricorso alle cure intensive.

Non è quindi più possibile appellarsi a una presunta “naturalità” degli eventi che portano a compimento il processo del morire, allorquando esso è soggetto al dominio della modulazione da parte delle potenzialità offerte dal progresso tecnico-scientifico. Il filosofo Alberto Schiavone chiama in modo molto efficace “artificialità negoziata” questa trasformazione culturale con cui la percezione della morte viene trasportata da evento affidato a una naturalità immodificabile a evento entrato nelle nostre possibilità di decisione1. Questa “artificialità negoziata” si realizza oggi idealmente in quella camera di compensazione fra autonomia del medico e autonomia del malato che è lo spazio del cosiddetto “consenso informato”, che accompagna tutto il percorso di cura delle malattie sino alle loro fasi finali.

Negli ultimi decenni, in cui quindi la morte si è trasformata da “evento” a “processo”, il ricorso alle opportunità offerte dalla scienza si è avvalso del contributo della riflessione bioetica, denominata ora “coscienza critica del sapere scientifico”, ora “fiume di cui sono tributari numerosi affluenti”, alludendo alla natura multidisciplinare e interprofessionale2. La riflessione bioetica colloca queste opportunità nella dimensione umana della cura e cioè della finitezza dell’esistenza, del contesto relazionale in cui si colloca l’esperienza della vita di ciascuno, in un contesto più ampio che è quello della gestione dei sistemi sanitari, sempre più alle prese con la necessità di bilanciare l’equità con la sostenibilità. Infine, la riflessione bioetica è spesso chiamata in causa per qualificare i trattamenti sanitari in relazione al concetto di “dignità” della persona.

La dignità tra filosofia e normativa

Da oltre 2000 anni, in filosofia, con il concetto di dignità umana si usa riferirsi al valore intrinseco e inestimabile di ogni essere umano. Esso, in questi due millenni, è stato declinato in modo molto diverso a seconda della matrice teorica di riferimento.

In modo estremamente sintetico, secondo la concezione cattolico-romana, la dignità dell’uomo sta nel suo essere creato a immagine e somiglianza di Dio e nella sua capacità di orientare le proprie scelte in una continua tensione etica verso Dio. Da qui, l’indisponibilità della vita come fondamento dell’agire “buono e giusto”, e la condanna di ogni forma di intervento autodeterminante l’anticipazione della fine della vita, dal suicidio all’eutanasia3. Secondo invece la tradizione laica e liberale, la dignità dell’uomo trova espressione soprattutto nella sua autonomia. Da qui, la disponibilità, entro certi termini, della propria vita, fino al diritto al suicidio e alla legittimità morale dell’eutanasia.




Il tema della dignità, precedentemente affidato alla morale e alla religione, all’indomani del secondo conflitto mondiale, in cui molte vite furono considerate “indegne di essere vissute”, diventa un tema ineludibile per il diritto e si pone come fondamento del costituzionalismo del dopoguerra, in reazione al vilipendio della dignità umana perpetrato dai nazifascismi. Nel panorama giuridico europeo e internazionale vi sono principalmente due costituzioni che richiamano il valore della dignità, non a caso entrambe di paesi protagonisti di palesi negazioni dei diritti.

La Costituzione tedesca afferma all’art. 1: «La Dignità umana è intoccabile». Nella Costituzione italiana il riferimento alla dignità è presente negli artt. 3, 36 e 41, in merito al diritto per tutti i cittadini di avere pari dignità sociale e un lavoro dignitoso.

Nell’art. 32 della nostra Carta, il concetto di dignità viene declinato nella volontarietà dei trattamenti sanitari: «Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge». In questo articolo troviamo quindi lo snodo fra il concetto di dignità, il principio bioetico di autonomia circa le scelte sanitarie che ciascuno è chiamato a fare e il diritto all’autodeterminazione, che ciascuno può esercitare sino al rifiuto di cure salvavita.

E nei principi generali del nostro ordinamento, nei trattati sovranazionali, nonché nella giurisprudenza in materia, trae origine la nuova versione del Codice di Deontologia Medica (CDM) del 2014, che ribadisce che il fondamento etico e deontologico dell’azione sanitaria sta nel consenso informato da parte del paziente ai trattamenti. Per noi medici, quindi, il diritto del paziente all’autodeterminazione, il diritto cioè a decidere per sé in coerenza con il proprio piano di vita, rappresenta il nucleo centrale del concetto stesso di “dignità umana”. Nel nuovo CDM vengono infatti ribaditi:

• il Dovere del medico di informare (art. 33);

• il Diritto del paziente cosciente a rifiutare qualsiasi procedura diagnostico-terapeutica, dopo adeguata informazione (art. 35);

• il Dovere del medico, anche in urgenza (art. 36), a tenere conto di volontà espresse precedentemente e documentate (art. 38);

• il Divieto di praticare procedure diagnostico-terapeutiche clinicamente ed eticamente inappropriate (art.16);

• il Divieto di commettere, anche su richiesta del paziente, atti finalizzati a provocarne la morte (art.17).

Va sottolineata la precisazione contenuta nell’art. 16 secondo cui «il medico che si astiene da trattamenti non proporzionati non pone in essere in alcun caso un comportamento finalizzato a provocare la morte».

Altrettanto, va sottolineato come l’art. 17 veda la sostituzione del termine “eutanasia” con l’allocuzione “trattamenti finalizzati a provocare la morte”. Si tratta di una modifica necessaria in quanto nel nostro paese la parola “eutanasia” è spesso usata come un “ombrello”, sotto il quale vengono fatte ricadere tutte le modalità “non naturali” del morire: dall’eutanasia in senso stretto, ovvero la soppressione della vita di una persona su sua richiesta, al rispetto del rifiuto di cure da parte del malato in grado di comprendere e decidere per sé, anche se questo ne può comportare la morte (caso Welby), alla sospensione di trattamenti sulla base di una volontà ricostruita in un paziente non più capace di intendere e volere (caso Englaro).

Il medico, quindi, realizza in pieno lo scopo della sua missione professionale non solo quando garantisce il prolungamento di una vita di qualità accettata dal paziente, ma anche quando non ne prolunga inutilmente la sopravvivenza, in una condizione di incurabilità certa o di rifiuto da parte del paziente ai trattamenti.

Dignità e autonomia della persona malata

Sorge a questo punto l’interrogativo se il processo del morire, gestibile nei suoi tempi e nelle sue modalità (ricorso o meno a ricovero ospedaliero/cure ordinarie/cure intensive o meno) da parte della medicina, non possa esserlo anche da parte del paziente, e se quindi debba essere data a quest’ultimo la possibilità di scegliere autonomamente il momento del commiato.

Sul piano esemplificativo, il richiamo immediato e attuale è al caso di due donne, ambedue malate terminali di cancro, che hanno recentemente dialogato fra loro e con il mondo sul modo più dignitoso in cui ciascuna di loro riteneva di porre fine al decorso della propria malattia mortale.

Da una parte Brittany Maynard, 29enne malata terminale di glioblastoma multiforme, trasferitasi in Oregon per potere avvalersi della legge che autorizza il suicidio assistito, al fine di autosomministrarsi farmaci letali prima che la malattia le togliesse ciò che per lei era la dignità, cioè la capacità di accomiatarsi dai suoi cari in piena consapevolezza.

Dall’altra Kara Tippets, madre di 3 figli, anche lei malata terminale di cancro, che le scrive: «Sto morendo anch’io, Brittany, ma non prendere quelle pillole, perché il dolore si può controllare, mentre rinunciare agli ultimi istanti dell’esistenza è una perdita senza rimedio»4.

A fronte della drammaticità, dell’autenticità e del rispetto che queste scelte evocano, verrebbe da chiedersi se il concetto di “dignità” debba trovare una riformulazione nel contesto della “artificialità negoziata” del processo di cura, in cui il diritto all’autodeterminazione del paziente deve armonizzarsi con una nuova sensibilità con cui noi medici dobbiamo accostarci alle scelte di coloro che curiamo.

Nel 2003, su The BMJ, Ruth Macklin, bioeticista dell’Albert Einstein College of Medicine di New York, lanciò una provocazione affermando che il concetto di “dignità” non è di alcuna utilità e dovrebbe limitarsi a rappresentare il rispetto per l’autonomia delle persone5. Da un lato verrebbe da darle ragione, per l’ambiguità con cui si usa questo concetto, impiegato sia per esprimere una forte carica di rispetto per l’autonomia e i diritti della persona, sia per sostenere la pretesa di un controllo delle persone in nome dei valori che un’autorità morale vuole imporre agli individui. Questo può accadere, per esempio, quando un’autorità morale esterna giudica “prive di dignità” le scelte di coloro che agiscono in modo difforme dai propri precetti morali, per esempio in tema di contraccezione o aborto, oppure affermando il diritto a morire con il suicidio assistito o l’eutanasia.

Dall’altro lato, io credo che al posto di liquidare frettolosamente il concetto di “dignità” sia invece necessario che i medici si facciano artefici di un approccio che sostenga e favorisca appieno il diritto di ogni malato a essere considerato persona autonoma sino alla fine della vita. Un approccio cioè che promuova non tanto una inoggettivabile e individuale “dignità”, ma che supporti le persone malate nell’affermare in modo pluralistico le “proprie dignità”.

Il punto di vista di H.M. Chochinov

E proprio seguendo il vivacissimo e aspro dibattito evocato dall’articolo di Ruth Macklin, senz’altro condizionato dalla mia pratica professionale di intensivista, io ritengo che questo approccio si possa attuare adottando il suggerimento di Harvey M. Chochinov, uno psichiatra e palliativista che opera in Canada, denominato «Dignity in Care»6-8. Proprio come il semplice abcd (airway, breathing, circulation, drugs) sintetizza efficacemente i fondamenti delle cure che gli intensivisti intraprendono nei pazienti in pericolo di vita, lo stesso acronimo rappresenta un ausilio mnemonico per ricordare a tutti i medici quali siano i comportamenti da adottare per promuovere in ogni contesto clinico la dignità delle persone che curiamo. Abcd quindi, ove a (attitude) sta per atteggiamento, che deve allontanarsi dalle nostre percezioni per ispirarsi il più possibile alla reale natura delle persone malate che abbiamo davanti, affinché esse, che guardano a noi come in uno specchio, ne ricavino una immagine positiva di sé. Infatti, persone trattate come se non contassero più nulla, si sentono di non contare più nulla. B (behaviour) sta per comportamento, che deve essere sempre ispirato a gentilezza e rispetto. C (compassion) sta per empatia, sincronizzazione emotiva, profonda consapevolezza delle sofferenza altrui associata al desiderio di arrecare sollievo e che bisogna sapere veicolare attraverso la comunicazione verbale e non verbale. Infine, D (dialogue), cioè dialogo, che va tenuto sempre aperto per conoscere le persone che sono “dietro” le malattie, favorendo l’espressione delle loro dignità, cioè consentendo loro di operare le scelte più coerenti con i propri piani di vita, secondo le proprie coscienze e accompagnate dall’équipe sanitaria che le assiste.

Conclusioni

A fronte della presenza di un numero sempre più consistente di pazienti fragili, “cronicamente critici”, con traiettorie di malattie contraddistinte da declini progressivi e inesorabili, l’approccio delineato da Chochinov tiene nella massima considerazione la complessità dei bisogni della persona malata. Esso dovrebbe essere adottato non solo nelle fasi finali delle malattie, ma ben prima, cioè quando è ancora possibile pianificare con il malato e la sua rete di prossimità un progetto di cura condiviso9.

Infine, sarebbe quanto mai opportuno l’inserimento dell’insegnamento di bioetica nel Corso di Studi di Medicina e Chirurgia e nelle Scuole di Specializzazione10, con trattazione di temi come: la conoscenza del CDM, la comunicazione e la relazione medico-paziente, la limitazione dei trattamenti sproporzionati da parte dei medici, il rifiuto dei trattamenti da parte dei pazienti, i percorsi di pianificazione anticipate di cura e le dichiarazioni anticipate di trattamento. Attualmente infatti, lo sviluppo di competenze in ambito bioetico è appannaggio pressoché esclusivo della formazione post- ed extra-universitaria e rientra fra i compiti istituzionali dei Comitati Etici per la Pratica Clinica. Ma la complessità delle tematiche bioetiche di fine vita è tale per cui la competenza per affrontarle non può in alcun modo fondarsi sul “buonsenso” e venire acquisita solo con l’“esperienza sul campo”, come oggi molti credono e troppo spesso purtroppo accade.

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Bodei R, De Monticelli R, Reale G, Schiavone A, Severino E, Mancuso V. Che cosa vuol dire morire. Monti D (a cura di). Sei grandi filosofi di fronte all’ultima domanda. Torino: Einaudi, 2010.

2. Scarpelli U. Bioetica laica. Mori M (a cura di). Milano: Baldini & Castoldi, 1998.

3. Küng H, Jens W. Sulla dignità del morire. Una difesa della libera scelta. Milano: Rizzoli, 1998.

4. http://www.aholyexperience.com/2014/10/dear-brittany-why-we-dont-have-to-be-so-afraid-of-dying-suffering-that-we-choose-suicide/

5. Macklin R. Dignity is a useless concept: it means no more than respect for persons or their autonomy. BMJ 2003; 327: 1419-20.

6. Chochinov HM. Dignity and the essence of medicine: the A, B, C, and D of dignity conserving care. BMJ 2007; 335: 184-7.

7. Chochinov HM. Dignity in care: time to take action. J Pain Symptom Manage 2013; 46: 756-9.

8. Chochinov HM. Terapie della dignità. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2015.

9. Gristina GR, Orsi L, Carlucci A, Causarano IR, Formica M, Romanò M, per il Gruppo di Lavoro Insufficienze Croniche d’Organo. Parte I. Il percorso clinico e assistenziale nelle insufficienze croniche d’organo “end-stage”. Documento di consenso per una pianificazione condivisa delle scelte di cura. Recenti Prog Med 2014; 105: 9-24.

10. Mazzon D, Longato C, Barbisan C, et al. Per una lettura bioetica delle Terapie Intensive. Minerva Anestesiol 2000; 66: 829-38.