Dalla letteratura

In collaborazione con l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane
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Medici spiati

Dice che viviamo nella società dei dati: che la banca memorizza cosa facciamo dei nostri soldi, che il supermercato analizza quanta Nutella o quanta pasta compriamo, che la app Waze memorizza i percorsi stradali che facciamo, che Google (potrebbe mai mancare?) sa tutto di noi. Sono discorsi che si fanno dopo cena, di solito. Quando siamo tutti un po’ alticci e anche per questo lasciano il tempo che trovano.

“Ogni società corrisponde a un particolare tipo di macchina (...) Quelle cibernetiche e del computer a società del controllo” scriveva Gilles Deleuze nel 1990 e può far sorridere anche solo il termine cibernetica. Fa un po’ meno ridere che la sua previsione si sia sostanzialmente avverata. Un esempio? La gestione delle informazioni sulle prescrizioni dei medicinali. Negli Stati Uniti le farmacie processano le prescrizioni e le archiviano in database che finiscono nella banca dati di società come la IMS Health che li utilizza per le proprie analisi del mercato farmaceutico, vendute a caro prezzo con le consulenze ad agenzie e industrie. Le prescrizioni sono anonime ma sono contrassegnate dallo ID del medico che le ha effettuate, numero identificativo emesso dalla Drug Enforcement Administration.

L’anonimato è facilmente aggirabile: basta incrociare il file degli ID number con quello dei medici statunitensi. Come averlo? Facile, basta comprarlo dalla American Medical Association che ogni anno ricava circa 20 milioni di dollari dalla vendita dei dati dei propri iscritti. Lo hanno raccontato un po’ di anni fa Shannon Brownlee e Jeanne Lenzer in un articolo apparso su Slate,1 spiegando anche le dinamiche che seguono.

“By putting together all of this information, the weekly prescriber reports can show the names of the doctors in a rep’s territory and what each doctor prescribed and how much of it. Reports provide reps with up-to-date feedback on just how effective they’ve been in persuading their doctors to prescribe the two or three drugs each rep pitches. The reps are schooled for weeks in a variety of sales techniques. They memorize tightly crafted speeches and volumes of data on their products, and some are even trained in personality profiling, to help them guess whether a physician is more likely to respond to reams of scientific research or to schmoozing. Prescriber reports play a key role in helping reps boost sales – they’re like weekly focus groups that help reps shape their pitches to individual doctors. If Doctor A increased her prescriptions after being treated to a facial and full-body massage, more expense-paid spa excursions are in order for her. If Doctor B didn’t respond to a courtesy five-course meal, then maybe it’s time to try football tickets, or up the free drug samples, or plug clinical research that touts the proffered drug’s benefits.”

Il marketing farmaceutico funziona così. Per dare spazio a questi sistemi nuovi sono state licenziate diverse migliaia di informatori scientifici. Due riflessioni random tra le tante che ne vengono in mente (tipo: possibile che nessuno sappia queste cose? E in Italia? Sindacati, ordini, società scientifiche vendono i propri database?):

le industrie farmaceutiche sono le paladine della privacy quando si tratta di utilizzare per il bene pubblico i risultati della ricerca: quando si tratta invece di fare i soldi non c’è riservatezza che tenga;

“Se i dati sono di nostra proprietà – scrive Evgeny Morozov in un saggio raccolto nel libro Silicon Valley: i signori del silicio2 – nessuno dovrebbe disporne senza dare qualcosa in cambio”.

“La digitalizzazione della vita quotidiana e l’avidità della finanza – è sempre Morozov che scrive – rischiano di trasformare tutto in valore produttivo”. Dal codice genetico alle ricette per i malati. Non è sorprendente: quello che suscita meraviglia è il silenzio degli interessati: medici e pazienti, che per una volta potrebbero stare dalla stessa parte.




Altro motivo di riflessione è lo sguardo ambivalente nei confronti del problema della riservatezza. “L’iper-visibilità del singolo – registrata da ogni dispositivo intelligente – va di pari passo con la crescente iper-invisibilità di tutti gli altri attori. I governi continuano a secretare sempre più documenti e appaltano le proprie funzioni a società private non tenute a ubbidire alle leggi sulla libertà di informazione. Le aziende fanno di tutto per insabbiare le reali conseguenze delle loro attività e diffondono deliberatamente ignoranza finanziando ricerche pseudo-scientifiche di dubbia affidabilità”. Le osservazioni di Morozov possono sembrare apocalittiche ma non possiamo non pensare all’atteggiamento dell’industria farmaceutica che, da un lato, rivendica il diritto alla riservatezza dei dati raccolti attraverso le sperimentazioni cliniche (negando l’accesso ai metodi e ai risultati anche a chi si è messo a disposizione della ricerca con un sacrificio personale) e, dall’altro, non usa la stessa cautela quando si tratta di accedere e utilizzare i dati prodotti dal lavoro dei medici del servizio sanitario.

“La condivisione di informazioni darà anche vita a un mercato vivace, ma manca di una cornice etica a supporto”, scrive Morozov ed è difficile dargli torto.

Bibliografia

1. Brownlee S, Lenzer J. Spin doctored. How drug companies keep tabs on physicians. Slate 2005; 31 maggio. Ultimo accesso 24 febbraio 2016.

2. Morozov E. Silicon Valley: i signori del silicio. Torino: Codice edizioni, 2016.




Industrie farmaceutiche ed elezioni presidenziali negli Stati Uniti

La campagna elettorale presidenziale statunitense si sta radicalizzando. I risultati delle prime votazioni mettono in evidenza una contrapposizione tra un candidato per il quale è stato inaugurato (negli USA) il termine fascista e un altro che non ha problemi nell’auto definirsi socialista-democratico. In un confronto sempre più aspro, una delle questioni più discusse è la sanità: da una parte, la copertura garantita ai cittadini e dall’altra il comportamento delle industrie che non perdono occasione per inimicarsi l’opinione pubblica. I candidati repubblicani sono più o meno allineati nella determinazione ad abolire l’Affordable Care Act. Hillary Clinton e Bernie Sanders sono invece ovviamente schierati per una conferma della legislazione o, se possibile, per un ampliamento delle garanzie per i cittadini statunitensi. “My view is simple: health care is a right, not a privilege”, ha dichiarato Sanders, il cui programma è illustrato in dettaglio in una sezione del sito elettorale.1 “We spend far more than any other country on health care, but 29 million Americans remain uninsured and millions more are under-insured. That is unacceptable. The time has come for a Medicare-for-all universal health care system that provides every American with affordable, quality care.”

Anche la posizione della Clinton è netta: “Prescription drug spending accelerated from 2.5 percent in 2013 to 12.6 percent in 2014. It’s no wonder that almost three-quarters of Americans believe prescription drug costs are unreasonable.” Ma Hillary è certamente più prudente di Sanders, nonostante la larga vittoria nel New Hampshire sembri consigliarle una maggiore apertura. “Non siamo la Francia né la Gran Bretagna”, ha dichiarato la Clinton (prudentemente non ha citato l’Italia...) e il sistema sanitario non può rispondere a criteri che non siano l’espressione della storia degli Stati Uniti. Non ha dubbi, invece, Sanders, convinto che il proprio piano possa avere successo “if we have the courage to take on drug companies, insurance companies and medical equipment suppliers”. Più tasse per i cittadini molto ricchi e meno vantaggi per le industrie e le assicurazioni.

Clinton più cauta. Come può esserlo il candidato che ha percepito i maggiori finanziamenti dall’industria farmaceutica tra tutti coloro che stanno concorrendo alle Primarie. Nel solo 2015, ha ricevuto donazioni da Big Pharma per 332.000 dollari contro i 43.000 di Sanders.2 “Non troverai mai una volta in cui io abbia cambiato idea o abbia votato per una donazione che mi sia stata fatta”, ha avvertito Hillary.3 “Ci sarà un motivo per cui questa gente mette dei soldi nel nostro sistema politico”, ha risposto Bernie. Tra un anno avremo la risposta nel comportamento del nuovo Presidente.

Non si può non osservare che, relativamente all’insieme delle donazioni delle industrie ai candidati, quanto versato dall’industria farmaceutica non raggiunge cifre ragguardevoli. Quale sarà il motivo? Forse proprio la sostanziale omogeneità di vedute dei diversi candidati?

Bibliografia

1. https://berniesanders.com/

2. https://www.opensecrets.org/pres16/select-industries.php?ind=H04

3. Nather D. Clinton, Sanders trade barbs over money from drug companies. Stat News 2016; 4 febbraio. Ultimo accesso 24 febbraio 2016.

Trasparenza e responsabilità della ricerca

Tutto il mondo è paese, verrebbe da concludere leggendo l’intervista a John P. Ioannidis sulla newsletter del Lown Institute, in previsione della quarta conferenza annuale dell’istituto che si svolgerà in aprile a Chicago.1 Il ricercatore della Stanford University sollecita a cambiare radicalmente il modo col quale funziona oggi l’attività di ricerca. “I pazienti sono in una posizione difficile, e anche i medici” – sostiene Ioannidis. “Sono circondati da prove che si contraddicono l’una con l’altra. In alcune discipline, fino al 90 per cento della ricerca può essere condizionata. È un grosso problema.” Tutto il mondo è paese perché quelli che pensavamo fossero problemi prevalentemente italiani colpiscono invece anche i contesti ritenuti un tempo più prestigiosi.

Il primo passo per cercare una soluzione – sostiene Ioannidis – dovrebbe essere quello di coinvolgere maggiormente la popolazione. “Bisognerebbe insegnare ai pazienti a diventare alfabetizzati dal punto di vista della salute, così che possano valutare le evidenze scientifiche e sapere come porsi le domande giuste.” Ioannidis ricorre all’espressione evidence-literate: è difficile da rendere in italiano, forse anche perché nel nostro paese è un’attività poco praticata. D’altra parte, pure i clinici dovrebbero «alfabetizzarsi» riguardo l’incertezza che ancora permane su quello che crediamo di conoscere. “I pazienti devono essere informati di queste incertezze, perché è molto importante che la popolazione ne sia consapevole: in questo modo verrebbe sollecitata dal basso una nuova agenda della ricerca, invece di ritenerci soddisfatti di quello che già abbiamo. Abbiamo bisogno di una ricerca che si basi sui valori in cui crediamo.”

Valore continua a essere una parola chiave molto usata: Ioannidis si richiama a due qualità fondamentali che dovrebbero caratterizzare la ricerca scientifica. Quali? Trasparenza e responsabilità. “Abbiamo bisogno di allineare gli incentivi che oggi sollecitano a fare ricerca con il conseguimento di risultati migliori. Oggi questo manca. Ci sono enormi problemi nell’attività di ricerca. Vengono portati avanti un sacco di studi piccoli, mal progettati, manipolati, viziati da enormi conflitti di interesse e non trasparenti.” Proprio questa crescita esponenziale della ricerca ha motivato la nascita di una sorta di nuova disciplina, la meta-ricerca. In questo ambito Ioannidis ha ricevuto l’incarico di coordinare un centro dedicato a questi problemi nell’università di Palo Alto. “The massive growth of science allows for a massive number of results, and a massive number of errors and biases to study. So there’s good reason to hope we can find better ways to deal with these problems.”2 Nessun dubbio, dunque, che abbia parecchio da fare.

Una conferma del relativo valore di molta ricerca viene da uno studio pubblicato il 17 febbraio 2016 su The BMJ.3 Un terzo degli studi completati dalle istituzioni accademiche mediche statunitensi non viene pubblicato. Solo il 36% dei trial è pubblicato a distanza di due anni dalla conclusione. C’è una grande variabilità di efficienza tra le diverse istituzioni: alcuni medical center pubblicano entro 24 mesi i risultati di un solo studio ogni 10 condotti.




In linea con la visione del Lown Institute – molto rispettosa del principio del less is more – Ioannidis non si limita a sollecitare ciò che dovremmo fare. Piuttosto, indica anche ciò che abbiamo in eccesso: “Abbiamo bisogno di meno opinioni di «esperti» che spesso sono dettate da pregiudizi e distorsioni. Abbiamo bisogno di un minor numero di comitati (tipo quelli che sviluppano le linee-guida) che definiscono l’ordine del giorno della ricerca mentre invece abbiamo bisogno di più evidenze. Le linee-guida delle società specialistiche hanno raggiunto il punto più basso e possono fare più male che bene. Molte linee-guida non sono basate su evidenze o vengono costruite sulla base di «una» interpretazione delle prove disponibili. Abbiamo troppa fiducia nelle linee-guida, quando invece dovremmo fare affidamento sui dati reali. I conflitti di interesse sono pervasivi e molti riguardano l’influenza delle industrie. Quello che ci serve sono le prove che possono scaturire da studi controllati randomizzati, che dovrebbero informare le nostre policy.”

Bibliografia

1. Coloian M. Doctors and patients need to be evidence-literate. Lown Institute. 9 febbraio 2016. http://lowninstitute.org/uncategorized/doctors-and-patients-need-to-be-evidence-literate/ Ultimo accesso 21 febbraio 2016.

2. Nuzzo R. How scientists fool themselves. And how they can stop. Nature News 2015; 5 ottobre. http://www.nature.com/news/how-scientists-fool-themselves-and-how-they-can-stop-1.18517 Ultimo accesso 23 febbraio 2016.

3. Chen R, Desai NR, Ross JS, et al. Publication and reporting of clinical trial results: cross sectional analysis across academic medical centers. BMJ ٢٠١٦; ٣٥٢: i٦٣٧.