Medicina e letteratura: un’antologia

Da: La frontiera

di Alessandro Leogrande

Milano: Feltrinelli, 2015; pp. 180-184

Il dottor Giuseppe Sacco

[…] Poco dopo essere tornato da Lampedusa ho conosciuto Giuseppe Sacco. Abitualmente lavora al Celio, è il caposala del reparto di ortopedia del policlinico militare di Roma. Durante Mare nostrum è stato impegnato a bordo della San Giusto e della San Giorgio, dove si è trovato a coordinare le operazioni di un ospedale da campo in movimento. Per mesi ha lavorato da mattina a sera, e dormito poche ore a notte, almeno quelle in cui la nave non aveva a bordo tre o quattrocento profughi.

Solo la San Giorgio, mi dice appena ci incontriamo, ha salvato diciassettemila persone dalla metà di marzo alla fine di giugno 2014, dopo che nei mesi invernali, a causa del maltempo, l’esodo era rallentato. In primavera, invece, è successo di tutto.

“Abbiamo avuto casi di ogni genere, non ci siamo fatti mancare nulla: fratturati, lussati, feriti da colpi d’arma da fuoco, e poi scabbia, morbillo, rosolia, ex malarici, intossicati... A un certo punto è arrivata perfino una donna con un catetere attaccato, era senza un rene. Era partita con le buste di ricambio e una scatola di antibiotici: si era presa una pallottola per proteggere i figli durante una sparatoria in Siria. L’avevano operata lì, ma lei aveva deciso di partire ugualmente. Sempre dalla Siria sono partiti due ragazzini paraplegici. Ti lascio immaginare in che condizioni abbiano fatto il viaggio. Erano portati in braccio, a turno, dalla gente che viaggiava con loro.”

Ascolto Sacco, osservo la faccia paffuta, larga come le lenti degli occhiali schiacciate sul naso, lo sguardo mite sotto i capelli brizzolati tagliati corti, e penso che sembri più un volontario di un gruppo cattolico che un militare di carriera. Mentre parla, mi fa vedere le foto che ha accumulato sullo smartphone. Si sofferma su quella di una bambina, i capelli a caschetto nerissimi. Indossa una tuta grigia più grande di una taglia e fissa ipnotizzata il biscotto che ha in mano. Sullo sfondo, dietro di lei, si intravedono delle persone stese sul pavimento e avvolte nelle coperte termiche, giallo oro di fuori e argentate all’interno. Sono decine, formano un tappeto fluorescente.

Sul ponte garage hanno installato l’ospedale da campo: una sala con un lettino per il pronto intervento, uno spogliatoio e due aree destinate ai ricoveri, una per gli uomini e una per le donne.

“Tutto questo è stato realizzato con l’aiuto di personale esterno alla Marina. La Fondazione Rava di Milano ha fornito medici e infermieri. Poi sono saliti a bordo anche i cardiologi del San Raffaele di Milano e un’ostetrica di Ravenna.”

Fa scorrere altre foto. Due uomini in camice bianco visitano una persona di spalle. La piccola sala è organizzata nel modo più razionale possibile.

Mi dice che hanno riscontrato presunti casi di scabbia. Non potendo fare diagnosi accurate, si sono limitati a segnalare i casi sospetti. “È inutile creare allarmismi. Spesso sono gli indumenti bagnati di acqua salata a provocare delle irritazioni. Non è detto che sia per forza scabbia. Un’azienda di abbigliamento sportivo ci ha fornito tute e ciabatte. Quando erano zuppi, li facevamo cambiare, davamo loro una pomata, e poi li segnalavamo al medico di confine, al porto, in modo che venissero trattati. Ci sono stati molti diabetici, tanti africani arrivati con la pennetta per farsi l’insulina. Mi ricordo un ragazzino di quindici anni che sapeva misurarsi da solo il livello di glicemia nel sangue.”

Il caso più grave è accaduto sulla San Giusto.

Era notte. Avevano appena recuperato un’imbarcazione con cinquecento persone a bordo. “C’erano tre moribondi. Erano quasi morti, ma i corpi erano ancora caldi: si erano ustionati e intossicati con gli idrocarburi.”

Sui barconi più organizzati ci sono sempre taniche di carburante per evitare di rimanere a secco in alto mare. Se la stiva è piena di gente, qualcuno è costretto a sedervisi sopra. A volte la nafta si rovescia e cola nella sentina dello scafo. A contatto con l’acqua salata, libera nell’aria una puzza tremenda. Capita così che qualcuno svenga per il mal di mare, la mancanza d’aria o le stesse esalazioni che provengono dalle scorte.




“Molti hanno addosso questo odore. Ti bagni, ti gratti e senza accorgertene ti provochi delle ustioni. Ma i tre della San Giusto erano caduti proprio dentro la nafta. Li abbiamo dovuti rianimare. Ogni volta che buttavamo dentro l’aria, loro buttavano fuori del liquido verde. Ne abbiamo salvati due, ma il terzo non riuscivamo a rianimarlo. Era gravemente ustionato, la pelle si era escoriata e i polmoni erano zeppi di carburante. L’abbiamo portato con l’elicottero a Catania, dove c’è un centro grandi ustionati, e là l’hanno salvato.”

Il suo team comprendeva una decina di persone. Oltre a lui, c’erano un infermiere del pronto soccorso di Taranto, il medico di bordo, un tecnico di radiologia, gli anestesisti, gli infermieri della Fondazione Rava e quelli dell’Ordine di Malta, più due infermieri addetti al volo. E soprattutto c’era un tecnico di telemedicina, grazie al quale è stato possibile mandare direttamente a Roma, a centinaia di miglia di distanza, lastre ed elettrocardiogrammi per ottenere un referto in pochi minuti.

“Mare nostrum è stato anche questo,” dice Sacco. Ma poi ci tiene subito a precisare, e vuole che non me ne dimentichi, che loro non hanno fatto i traghettatori dei disperati, incentivando così i viaggi verso l’Italia, come recita l’accusa principe mossa contro la missione.

“Durante questa traghettata non stanno certo in prima classe. Mentre la polizia comincia le pratiche per il riconoscimento, c’è chi fa domanda d’asilo e chi collabora per individuare lo scafista. Insomma, c’è anche un’attività di controllo.”

Vedo altre foto. Alcune donne con il velo sulla testa, strette nei loro cappotti neri, azzurri, rossi, parlano ai loro figli. Sono seduti su un telo steso sul ponte garage. Una beve da una bottiglietta d’acqua.

“I siriani si riconoscono subito,” dice Sacco. “Quando vedi gli africani pensi subito povera gente, ma i siriani no. Non hanno facce da contadini, hanno i soldi, i cellulari, perfino i tablet. Scappano dalla guerra, non dalla fame. Senza la guerra non avrebbero mai abbandonato le loro case.”

Non esiste una sola tipologia di salvataggio in alto mare. Non solo perché sono diversi i tipi di imbarcazione che solcano il Mediterraneo, ma anche perché molto diversi sono tra loro i punti di partenza e i modi in cui il viaggio viene organizzato.

Mare nostrum ha spostato la frontiera meridionale dell’Europa molto più a sud di Lampedusa. Di fatto il primo contatto con un paese europeo, l’Italia, non è avvenuto più lungo le coste siciliane e sull’isola dal forte odore di timo. Il primo contatto è avvenuto sui ponti delle navi militari. Il primo incontro è avvenuto con il personale civile e militare impegnato nell’azione di soccorso.

“Di solito, quando ci avviciniamo a un barcone, buttiamo dei sacconi che contengono salvagenti di tutte le misure.”

Molti dei pescherecci e dei gommoni intercettati dalla Marina erano stati lasciati in mare aperto, senza alcuna possibilità di continuare la propria corsa verso l’Italia. A volte gli scafisti trasbordano il carico umano da una barca all’altra e se ne tornano indietro, verso sud. Altre volte lasciano in acque internazionali le imbarcazioni in avaria, cariche di profughi. Quando ciò accade, il motore è sempre freddo, dice Sacco. “C’è la chiara consapevolezza che non arriveranno da soli dall’altra parte e che solo l’intervento di un altro mezzo potrà salvarli.”

Gli scafisti si sono comportati così, contando sull’intervento di Mare nostrum. Da qui nasce l’accusa che una missione del genere ha incentivato le partenze. Ma è un’accusa che ancora una volta Sacco respinge: “Il punto è che gli scafisti se ne fregano. Quei barconi sarebbero affondati nello stesso identico modo del barcone davanti all’Isola dei Conigli. E poi, per come la vedo io, i siriani partirebbero comunque. Con o senza Mare nostrum”.

Già, i siriani partirebbero comunque, come hanno fatto molto prima della missione varata dal governo italiano, e come hanno continuato a fare in seguito.