Medicina e letteratura

Da: Quando il respiro si fa aria

di Paul Kalanithi

Milano: Mondadori, 2016; pp. 126-129

La cognizione del tempo

Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, Cady sta sbocciando: la sua manina stretta a pugno, il primo sorriso, la prima risata. Il pediatra registra regolarmente la sua crescita nelle tabelle, indicando con una spunta i progressi nel tempo. È circondata da novità entusiasmanti. Mentre mi siede in braccio sorridendo, estasiata dal mio canto stonato, un’incandescenza illumina la stanza.

Il tempo, per me, è ormai un’arma a doppio taglio: ogni giorno mi allontana dal baratro dell’ultima recidiva ma mi avvicina alla prossima ricaduta, e infine alla morte. Forse più tardi di quanto pensi, ma sicuramente prima di quanto vorrei. Immagino vi siano due reazioni possibili a questa presa di coscienza. La più ovvia potrebbe essere l’impulso di gettarsi in un’attività frenetica, di «vivere la vita appieno», viaggiando, pranzando, realizzando una lunga serie di ambizioni trascurate. Tuttavia, uno degli aspetti crudeli del cancro è che non limita solo il tuo tempo ma anche le tue energie, riducendo drasticamente la quantità di cose che puoi fare in un giorno. È come se una lepre stanca si mettesse a correre. E anche se ne avessi le energie, preferirei comunque adottare un approccio da tartaruga. Arranco, medito. Certi giorni, semplicemente, tengo duro.

Se il tempo si dilata quando ci si muove a gran velocità, è possibile che si contragga quando ci si muove a malapena? Dev’essere così: le giornate si sono accorciate di molto.

Avendo pochi elementi per distinguere un giorno dall’altro, il tempo ha cominciato a sembrarmi statico. In inglese usiamo la parola time (tempo) in due accezioni diverse: «The time is two forty-five (Sono le tre meno un quarto)» oppure «I’m going through a tough time (Sto passando un periodo difficile)». In questi giorni il tempo, più che al ticchettio dell’orologio, rimanda a uno stato di cose. Il languore dilaga. C’è un senso di apertura. Da chirurgo, mentre mi concentravo su un paziente in sala operatoria avevo la sensazione che le lancette dell’orologio fossero messe lì a casaccio, ma non mi sono mai parse insignificanti. Adesso, invece, l’orario non significa proprio nulla, il giorno della settimana poco di più. La formazione medica è orientata implacabilmente al futuro, a una gratificazione posticipata; pensi sempre a cosa starai facendo da qui a cinque anni. Ma ora non so cosa starò facendo da qui a cinque anni. Potrei essere morto. Potrei non esserlo. Potrei essere in salute. Potrei scrivere. Non lo so. Dunque, non ha molto senso perdere tempo pensando al futuro… al di là del pranzo, intendo.

Anche la coniugazione dei verbi si è fatta confusa. Qual è la forma corretta tra: «Sono un neurochirurgo», «Ero un neurochirurgo», «Sono stato un neurochirurgo in passato e lo sarò di nuovo»? Una volta Graham Greene disse che viviamo la vita solo nei primi vent’anni, il resto non è altro che riflessione. Quindi, in quale tempo verbale sto vivendo? Sono andato oltre il presente per entrare nel trapassato prossimo? Il tempo futuro sembra vuoto, e stride sulle labbra degli altri. Qualche mese fa ho celebrato la rimpatriata del quindicesimo anno con i compagni di Stanford, e me ne sono stato in cortile a bere whisky mentre un sole rosa scendeva sotto l’orizzonte. Al momento dei saluti, quando i vecchi amici si sono lanciati in promesse – «Ci rivediamo al venticinquesimo!» – mi è sembrato scortese rispondere con: «Be’… probabilmente no».

Tutti noi soccombiamo alla finitezza. Sospetto che non sarò l’unico a raggiungere questo stato piuccheperfetto. Quasi tutte le ambizioni sono state realizzate o abbandonate; in ogni caso, appartengono al passato. Il futuro cessa di essere una scala verso gli obiettivi della vita, e si appiattisce in un presente perpetuo. Il denaro, lo status, tutte le vanità descritte dal predicatore dell’Ecclesiaste perdono ogni fascino: in pratica, sono un rincorrere il vento.




C’è una cosa, però, che non può essere privata del suo futuro: nostra figlia Cady. Spero di vivere abbastanza perché serbi un ricordo di me. Le parole hanno una longevità che a me manca. Avevo pensato di lasciarle una serie di lettere, ma cosa potrebbero dirle? Non so come sarà questa ragazza a quindici anni; non so neanche se terrà il soprannome che le abbiamo dato. Forse c’è una sola cosa da dire a questa bambina che è tutta futuro, la cui vita si è brevemente sovrapposta alla mia ed è – escludendo l’improbabile – tutto fuorché passato.

Il messaggio è semplice.

Nella tua vita, quando ti ritroverai in uno dei tanti momenti in cui dovrai dare una descrizione di te, presentando un resoconto di tutto ciò che sei stata, hai realizzato e hai significato per il mondo, ti prego, non tralasciare il fatto di aver riempito le giornate di un moribondo con una gioia appagata, una gioia che non avevo mai conosciuto prima, una gioia che non è perennemente insaziabile ma si riposa, soddisfatta. Ora, in questo preciso istante, è qualcosa di immenso.