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«I dati sono i reagenti che possono essere usati per produrre informazione a supporto delle scelte personali di salute, delle decisioni di sistema per ottimizzare le strategie mediche e di politica sanitaria e le risoluzioni regolatorie. I dati forniscono i necessari ingredienti per l’innovazione». È con questa frase che Harlan M. Krumholz apre la sua Viewpoint sul JAMA del 25 ottobre 2016: l’attenzione sempre maggiore per i dati è consolante, perché è un segnale che fa ritenere che la clinica e la politica sanitaria ripongano sempre maggiore fiducia nelle evidenze. Di contro, però, preoccupa perché i dati di cui disponiamo sono ancora frammentari, imperfetti, spesso distorti. Oppure, non sufficienti a favorire un’assistenza appropriata, come dimostrano la lettera di Ugo Indraccolo e l’editoriale di Marina Davoli, Paola Colais e Danilo Fusco (pag. 559).

Altro problema: come sottolineano Rita Banzi et al. (582), le prove sono tante e in molti casi contrastanti, «lasciando il professionista con una risposta vaga, o poco specifica per il proprio paziente». L’informatica sta dando un supporto ogni giorno più intelligente al lavoro clinico, trasformando la complessità del lavoro del medico in opportunità, grazie all’archiviazione di casi e di esperienze che da innumerevoli diverse provenienze vengono processati, filtrati e resi utilizzabili “al letto del paziente “ (Capobussi et al., 589).

Dalla qualità dei dati dipende la cura del malato: nel processo di produzione e validazione un ruolo centrale è svolto dai professionisti della comunicazione. Sono loro i veri gatekeeper: dai curatori dei più diffusi point-of-care tool ai direttori delle riviste scientifiche e dei database bibliografici (De Castro et al. 567). Commissionano e scelgono i contenuti, selezionano autori, filtrano e giudicano documenti. Persone con storie ed esperienze diverse, accomunati dalla qualifica di editor. Un ruolo delicatissimo e essenziale per il quale non esiste uno specifico percorso di formazione. «Un giorno sei professore di cardiologia – scriveva Richard Smith nel libro The trouble with medical journals – e il giorno dopo dirigi una rivista con un giro d’affari di 5 milioni di sterline l’anno». Non c’è job description per chi svolge una funzione così complessa, al crocevia di interessi economici e accademici. Forse proprio per questo la selezione degli editor manca di percorsi stabiliti: per lasciare a università, società scientifiche e industrie la libertà di decidere senza alcuna accountability.

Quella di decidere l’editor di una rivista, ammetteva Smith, «è una scelta meno trasparente di quella di un Papa». E appena meno importante.

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