Ricerca clinica, tra presunti sprechi e governance dell’innovazione

il punto di vista di francesco perrone1, antonio addis2, gianfranco sinagra3 e paolo bruzzi4

1Direttore della Unità Sperimentazioni Cliniche, Istituto Nazionale Tumori di Napoli.

2Dipartimento di Epidemiologia, Servizio Sanitario Regionale del Lazio.

3Professore di Malattie dell’Apparato Cardiovascolare all’Università di Trieste. Dirige il Dipartimento Cardiovascolare e la Scuola di specializzazione in Malattie dell’Apparato Cardiovascolare agli Ospedali Riuniti di Trieste, Polo Cardiologico-Ospedale di Cattinara.

4Unità di Epidemiologia Clinica, IRCSS AUO San Martino IST di Genova.

La letteratura medica di qualità e le banche dati bibliografiche più affidabili − dalla Cochrane library a Clinical evidence − sono accessibili dai medici italiani “a macchia di leopardo”, con molte disomogeneità a livello nazionale. Ritiene che questo possa costituire un problema volendo garantire un’assistenza sanitaria coerente su tutto il territorio?

franco perrone: Sì, ritengo che possa costituire un problema, ma non l’unico e non necessariamente il più importante. L’omogeneità e la coerenza dell’assistenza sanitaria sul territorio italiano soffrono prima di tutto delle diseguaglianze di sistema. Ad esempio, le regioni in piano di rientro, costrette da vari anni al blocco del turn-over del personale, pagano lo scotto di una classe medica progressivamente invecchiata, che ha sempre meno capacità e voglia di aggiornarsi. Ovviamente, la scarsa accessibilità alle migliori fonti bibliografiche peggiora la situazione ed espone ancor più al rischio che l’informazione presentata porta a porta dalle aziende farmaceutiche diventi la forma predominante di aggiornamento.




antonio addis: È molto tempo che da parte del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) non vi sono più investimenti importanti nello sviluppo di strumenti di informazione e formazione per gli operatori sanitari. Al di là delle dichiarazioni di intenti o delle norme o direttive delle varie istituzioni, tutte le iniziative che cercavano di mettere a disposizione della pratica clinica la sintesi delle evidenze (Clinical evidence, Progetto ECCE, ecc.) sono state cancellate e mai sostituite. Ora siamo in un’altra era e occorrerebbe fare i conti con strumentazioni e opportunità completamente differenti (internet e i social network). Rimane comunque il tema di quanto vogliamo adoperare l’informazione pubblica all’interno della governance dell’innovazione. Non mi sembra di vedere al momento iniziative nazionali che provino a sostenere l’assistenza sanitaria facilitando l’accesso alle prove di efficacia e di sicurezza degli interventi. Quindi la mia risposta è: sì, questo è un problema e aggiungo che per il pubblico sarà sempre più difficile gestire le nuove proposte terapeutiche senza un senso critico che poggi le sue valutazioni su delle fonti di informazione moderne e disponibili a tutti gli operatori.

gianfranco sinagra: La buona medicina non è fatta di solo progresso della tecnologia e di applicazione di conoscenze avanzate ma anche di buona organizzazione e di educazione continua. Di certo una disomogeneità nell’accesso alle banche dati e alle riviste internazionali recensite con peer review può contribuire a una disomogeneità culturale nell’aggiornamento. Tuttavia, a mio avviso, non si colgono macroscopiche differenze in termini di qualità di cura e impiego dei device e di reale capacità di aggiornamento fra macroaree geografiche: i canali di aggiornamento sono tanti e gli strumenti disponibili per valutare l’omogeneità e la disomogeneità potrebbero non essere accurati. Sono comunque dell’idea che tutti gli ospedali dovrebbero darsi l’impegno e l’obbligo di rendere facilmente accessibili queste fonti affinché i professionisti siano naturalmente invogliati all’aggiornamento costante. Anche l’università dovrebbe formare i giovani medici all’approfondimento continuo, attraverso l’accesso sistematico alle riviste recensite e alle banche dati qualificate e parallelamente fornire loro gli strumenti culturali per svolgere ricerche bibliografiche approfondite, per un’adeguata selezione dei contributi di valore e soprattutto per una lettura critica di essi, sapendone interpretare ogni passaggio e sapendone individuare i punti di debolezza.

paolo bruzzi: Credo che sia pericoloso fare discorsi generici, senza distinguere tra le varie situazioni. Nel contesto che conosco meglio, l’oncologia, l’evoluzione delle conoscenze è così rapida da farmi pensare che strumenti come la Cochrane library e Clinical evidence siano di utilità modesta. Per assurdo, linee guida specialistiche di qualità molto inferiore ma sicuramente più aggiornate e più vicine alle esigenze dello specialista sono molto più utili. Per confermare questo mio pregiudizio, ho consultato BMJ Clinical evidence sul carcinoma polmonare metastatico: non ho trovato nessuna informazione minimamente pertinente rispetto alle problematiche più attuali con cui si deve confrontare oggi l’oncologo, come ad esempio la collocazione e l’utilizzo dell’immunoterapia che sta rivoluzionando tutte le prospettive ma ha implicazioni enormi sul piano economico. Vorrei aggiungere che, confrontandomi molto con oncologi di varie età e afferenze, non ho l’impressione di una carenza di accesso alle informazioni; il rischio semmai è quello di un bombardamento di informazioni parziali da parte dell’industria farmaceutica, che però la maggioranza degli oncologi mi sembra in grado di filtrare e integrare con sempre maggiore intelligenza e capacità critica. D’altra parte, con la crescente specializzazione per apparato o organo, gli studi rilevanti per il singolo oncologo sono relativamente pochi, sono di solito pubblicati su riviste di prima o seconda fascia e i risultati sono continuamente discussi − spesso criticamente − in varie occasioni, anche da relatori indipendenti. C’è infine da aggiungere che i vincoli prescrittivi sui nuovi farmaci sono tali da costruire una gabbia all’interno della quale i pochi gradi di libertà per l’oncologo medico sono rappresentati spesso dalla scelta tra regimi basati su farmaci tradizionali, di efficacia confrontabile.

Piuttosto l’oncologo si trova ad affrontare problemi di grande complessità nel trasferire le conoscenze alla decisione sul percorso clinico nei casi individuali, dove si deve scontrare anche con i veri determinanti della disomogeneità dell’assistenza oncologica su tutto il territorio. Tale disomogeneità esiste, ma personalmente non la vedo legata a carenze di cultura o a difficoltà di accesso alle informazioni: sono molto più importanti altri problemi, come le difficoltà organizzative, la disponibilità di risorse multidisciplinari, la possibilità di un accesso tempestivo a tecnologie diagnostiche o terapeutiche o al supporto di super-specialisti (ad esempio, patologi o chirurghi specializzati). La risposta che le Regioni stanno dando a questi problemi è la rete oncologica regionale che, pur con modelli organizzativi molto eterogenei e in certi casi criticabili, può rappresentare la migliore risposta anche per le necessità di formazione e aggiornamento degli operatori. Non mi esprimo sulle altre realtà specialistiche o su quella generalista perché non le conosco a sufficienza.

La pubblicazione di una serie di approfondimenti sullo spreco nel settore della ricerca clinica da parte del Lancet ha fatto molto discutere. A suo giudizio e “at a glance“, può esser vero che due terzi delle risorse investite in ricerca clinica siano sprecate?

franco perrone: Credo di non avere elementi conoscitivi sufficienti a giudicare nel merito. Ma sono convinto che la materia vada trattata con molta cautela. Il tema prevalente, a mio avviso, è lo scarso finanziamento alla ricerca − soprattutto da parte dei sistemi pubblici che da un lato hanno limitate disponibilità economiche e dall’altro tendono a sottostimare il valore intrinseco della ricerca, volano di formazione e progresso, che parzialmente prescinde dall’ottenimento dei singoli risultati. Voglio dire che da un punto di vista culturale il percorso del “ricercare” è importante quanto, se non di più, del punto di arrivo del “trovare”. L’eccessiva enfasi sulla necessità di una finalizzazione positiva è tipica delle aziende private, che ovviamente e giustamente ragionano in termini di ritorno economico degli investimenti. Ma una società che finanziasse solo ed esclusivamente ricerche “sicure” in termini di risultato e di profitto forse risparmierebbe un po’ di denaro nel breve termine, ma temo si impoverirebbe in un’ottica più ampia e nel lungo termine.

antonio addis: Mi ha molto colpito vedere come la discussione sollevata dagli articoli sul Lancet dedicati agli sprechi della ricerca è stata recepita nel nostro paese. Paradossalmente, questi dati sono stati utilizzati per prendersela con le poche iniziative di finanziamento della ricerca a cui le strutture del SSN potevano accedere per studi “indipendenti”. In particolare i bandi AIFA. Il tema dell’efficienza del risultato nella ricerca non può essere applicato con un approccio da azienda privata. Le tempistiche per raccogliere i risultati di quanto investito in uno studio devono avere un orizzonte adeguato e naturalmente non possono essere misurate solo in termini di risultati “positivi”. Detto ciò, è vero che occorre riflettere sulla capacità dei nostri istituti di ricerca pubblica di rispondere alle domande che si pone lo stesso SSN finanziatore. A mio avviso, nel settore pubblico del nostro paese manca soprattutto una cultura manageriale della ricerca e tutto viene ancora risolto dall’associazione ricercatore-finanziamento. Una ricerca efficiente ha bisogno di molto di più di questo. La governance della ricerca non ha a che fare semplicemente con la disponibilità delle risorse economiche e di buoni ricercatori.




gianfranco sinagra: Non ho dati per dire che due terzi delle risorse siano sprecate. Però aprirei una riflessione sul quel 50 per cento (soltanto) di contributi scientifici presentati come abstract che giunge a una pubblicazione su paper definitivi. Questo indica la necessità di una maggiore selettività nell’identificazione del quesito e dell’ipotesi da testare e di maggiore attenzione al disegno di uno studio scientifico che dovrebbe in generale produrre dati trasferibili all’agire clinico quotidiano. Solo in questo modo potremmo rendere accettabile l’impiego di risorse nella ricerca biomedica rispetto al ritorno di conoscenze da tradurre in azioni o non azioni a seconda dei risultati positivi o negativi ottenuti. Sono dell’idea che le migliori premesse per far sì che uno studio abbia una sua utilità e quindi non sia fonte di spreco rientrino nella concezione dello studio, nella selezione dei pazienti, nella pubblicazione su riviste peer reviewed e non da ultimo nel confronto aperto e confutazione da parte della comunità scientifica internazionale. Non dimentichiamo che in epoca di big data gli studi controllati non saranno il solo strumento per progredire in conoscenza. Ma il raccogliere insieme e incrociare il maggiore numero possibile di informazioni: da quelle più cliniche e generali a quelle più complesse, specifiche e accurate, delle quali conosciamo solo in parte l’impatto, come quelle della genetica. Tutto ciò potrà contribuire ad inquadrare meglio le malattie, a curarle in maniera più specifica, precisa, personalizzata, a conoscere l’evoluzione e a stratificare prognosticamente i malati. L’assoluta necessità che vivono i ricercatori, soprattutto in ambiti di estrema competizione come gli USA o il Regno Unito, di arrivare a tutti i costi ad una pubblicazione, può distogliere dal reale obiettivo dell’attività scientifica in ambito biomedico che non deve ridursi alla pubblicazione in sé, ma fornire risposte a quesiti clinici rilevanti ed appunto a rappresentare il substrato su cui modificare le azioni in clinica.

paolo bruzzi: Definire cos’è lo spreco nella ricerca clinica è un’impresa quasi disperata. Ad esempio, gli studi ministeriali sulla terapia Di Bella di quasi vent’anni fa potrebbero essere considerati uno spreco, dal momento che i risultati erano facilmente prevedibili, mentre a mio avviso sono stati molto importanti perché hanno rappresentato uno spartiacque nella storia dell’oncologia italiana (dove già avevamo avuto il siero di Bonifacio, il vaccino BCG, l’UK101, ecc.), fermando una pericolosa deriva culturale e favorendo la crescita nella comunità oncologica di nuove consapevolezze, sia nei confronti dei pazienti sia in termini di rigore scientifico e metodologico. In realtà, credo che la ricerca clinica sia molto più importante per la formazione dei clinici coinvolti che per i suoi risultati: la ricerca clinica nasce dai quesiti che ci dobbiamo porre sull’utilità e adeguatezza di quello che facciamo con i pazienti, ci insegna a valutare criticamente le varie teorie e opinioni (incluse le nostre) e i dati che ci vengono presentati, ci costringe a confrontare i nostri comportamenti con i migliori standard di qualità nazionali e internazionali. Di conseguenza le uniche discriminanti dovrebbero essere la trasparenza degli obiettivi, l’onestà intellettuale e materiale di quelli che la progettano e la conducono, e il confronto coi pari in un ambito più ampio possibile (se possibile internazionale). Queste condizioni sono il fattore necessario e sufficiente per combattere l’autoreferenzialità, prevenire la ricerca futile e migliorare progressivamente, proprio attraverso l’impegno nella ricerca, la qualità e la rilevanza degli studi che si promuovono: perfino studi di scarsa rilevanza o qualità possono essere utili per avvicinare un clinico o un gruppo alla vera ricerca di qualità, se le motivazioni sono quelle giuste. Ovviamente, queste condizioni si realizzano molto più efficacemente in un contesto di ricerca spontanea (non mi piace il termine accademica) che in quella sponsorizzata (che ha comunque molti effetti positivi, di cui un giorno sarebbe utile discutere senza pregiudizi), ed è per questo che si ritorna sempre ai due problemi, indipendenti ma collegati: il finanziamento della ricerca clinica e l’agenda della ricerca clinica nazionale e internazionale (chi la decide? chi la controlla?).

Secondo alcune voci particolarmente severe, se uno studio non porta risultati l’investimento è stato sprecato. Davvero giungere a risultati negativi equivale sempre a uno spreco di risorse?

franco perrone: Non sono di questa idea. Portare a termine uno studio con risultati negativi non rappresenta nella maniera più assoluta uno spreco di risorse. I risultati negativi hanno peso e rilevanza tanto quanto quelli positivi, anche se chiaramente sono meno appetibili sul piano mediatico. Un buon ricercatore, che generi ipotesi basate su premesse scientificamente solide e le verifichi con un disegno sperimentale onesto, è destinato a produrre risultati negativi nella maggior parte dei suoi studi; che avranno, però, molte volte il pregio di generare nuove ipotesi di ricerca. Il problema dello spreco delle risorse si pone, semmai, quando uno studio non porta ad alcun risultato, né positivo né negativo. In questo caso bisogna avere la capacità di analizzare le cause del fallimento e cercare di trasformare una esperienza negativa in una occasione di crescita.

antonio addis: Negativi per chi? Ad esempio un clinical trial che dimostra la non superiorità tra due farmaci è un dato negativo? Ad oggi non lo è per l’azienda che vuole registrare quel farmaco, ma forse potrebbe non esserlo anche per il prescrittore che capisce con quel dato che il nuovo medicinale non porta con sé nessun valore aggiunto. Se poi guardiamo a tutta la discussione in atto sulla necessità di maggiore trasparenza sui dati, per esempio, portata avanti da iniziative come www.alltrials.net capiamo l’enorme valore del dato negativo. Le decisioni cliniche sono necessariamente frutto di molte sperimentazioni che hanno prodotto dati chiari di efficacia e sicurezza ma di innumerevoli tentativi negativi in cui si sono tentate altre strade. Gli enti regolatori, le società scientifiche e anche le aziende private si stanno muovendo in un’ottica di maggiore trasparenza e ciò, sperabilmente, in futuro ci permetterà di avere a disposizione molti più dati negativi di quanti ne abbiamo ora ma che saranno comunque utili.

gianfranco sinagra: Assolutamente no. La medicina può progredire anche grazie agli studi negativi. L’epistemologia e la metodologia clinica rigorosa dimostrano l’utilità della revisione critica degli errori come strumento per progredire in conoscenze e nel caso del lavoro del medico per la miglior cura dei malati. L’epistemologo Karl Popper diceva che «evitare gli errori è un ideale meschino: se non sappiamo affrontare problemi così difficili da rendere l’errore inevitabile, non si sarà sviluppo della conoscenza […], l’importante è apprendere da essi». Quindi gli esiti negativi di uno studio ben disegnato andrebbero prontamente comunicati alla comunità scientifica. Viviamo in un’epoca nella quale la sola pianificazione dello studio e il suo avvio qualche volta diventano una ragione sufficiente per considerare quella strategia terapeutica d’interesse. Pertanto se una terapia o un intervento chirurgico non risultano avere avuto l’impatto ipotizzato sugli endpoint, la comunità scientifica deve esserne subito informata perché questa dimostrazione sperimentale può cambiare radicalmente gli approcci e correggere radicalmente prassi che non sono validate dalla medicina basata sulle prove di efficacia. Abbiamo diversi esempi nella medicina contemporanea, anche relativa all’impiego di farmaci per lo scompenso cardiaco, del potenziale impatto degli studi negativi pubblicati su riviste biomediche importanti in termini di selettività nelle prescrizioni e di maggiore rigore nella selezione dei malati in alcuni scenari clinici dove non vi è evidenza di efficacia. D’altro canto in un senso e nell’altro ciò che va evitato è la generalizzazione dei dati e dei risultati degli studi. Spesso i trial randomizzati vengono etichettati come “successi” o “fallimenti”, quando invece solo una lettura attenta, colta ed estremamente approfondita ci consente di valorizzare importanti sfumature così da interpretarne correttamente i risultati e da generare nuove ipotesi.




paolo bruzzi: Distinguiamo tra uno studio che non ha portato risultati (per insufficiente arruolamento, per scadente qualità clinica, per eccessivo numero di persi al follow-up, ecc.) e quindi come tale è un fallimento, e uno studio che ha dato il risultato atteso, cioè la risposta a un quesito clinico, e che quindi deve essere considerato un successo, qualunque sia questa risposta. A questo proposito, vorrei aggiungere un’annotazione relativa a una stupidaggine che si sente ripetere − anche in ambienti qualificati − relativa alla necessità che i risultati degli studi clinici siano tradotti in prodotti (protocolli, linee guida) utilizzabili nel sistema sanitario che li ha generati e che questo rappresenti l’indicatore del loro successo: con pochissime eccezioni (ad es. studi di appropriatezza comportamentale o prescrittiva, alcune sperimentazioni organizzative), il destinatario di uno studio clinico dovrebbe essere la comunità scientifica internazionale, affinché ne inglobi i risultati nel patrimonio conoscitivo collettivo per renderli fruibili a tutti i suoi membri, in forma grezza (articoli scientifici, database), elaborata (revisioni sistematiche, meta-analisi) o critica (linea guida). Questa è la sostanza dell’evidence based medicine.

Un’ultima osservazione: il fondamento etico di ogni studio randomizzato è l’equipoise, cioè l’eguale probabilità di beneficio e di danno nelle due braccia. Se risultati degli studi randomizzati fossero positivi con una frequenza elevata, questo implicherebbe che − in media − i pazienti assegnati al braccio di controllo sono sfavoriti e che quindi, nel loro complesso, gli studi randomizzati non sono etici.




Le analisi di Sir Chalmers e di Paul Glasziou sul Lancet puntano il dito anche sulla mancata pubblicazione dei risultati di numerose ricerche. Crede che “tutto” vada comunque pubblicato o, in certi casi, sia accettabile che alcuni studi di importanza secondaria possano anche essere solo resi disponibili in forma diversa dalla classica pubblicazione accademica?

franco perrone: Il buon senso ovviamente porta a ritenere che quello che conta è che tutto sia reso pubblico, e che la modalità non sia fondamentale. Ma il dato di fatto è che oggi è ancora vero che una pubblicazione su un’importante rivista scientifica garantisce visibilità e diffusione dei risultati di una ricerca di gran lunga superiori a quanto possibile se, ad esempio, si rendono noti i risultati attraverso le banche dati dei trial clinici. In quest’ultimo caso, pur essendo i dati accessibili a tutti, la circolazione dei risultati è scarsa, e diventa rilevante solo quando una qualche forma di meta-ricerca porta alla luce quello che è (o il più delle volte non è) contenuto nelle banche dati. Quindi penso che nell’immediato si debba continuare a combattere contro il publication bias che sfavorisce la pubblicazione dei risultati negativi – non dimenticando che si tratta di una malattia che affligge non solo i direttori delle riviste ma anche gli autori. Non sarebbe un buon risultato un sistema in cui i risultati positivi si pubblicano nei giornali accademici e i risultati negativi vengono relegati nelle banche dati pubbliche. In ogni caso, è giusto lavorare per migliorare la funzionalità di queste ultime e la loro fruibilità in termini di diffusione dei risultati, anche affrontando le problematiche che derivano dalla assenza di peer review e dalla non premialità, che a tutt’oggi caratterizza queste forme alternative di pubblicizzazione dei risultati.

antonio addis: L’idea di pubblicare tutto sembra essere l’approccio più sensato. Tuttavia il rischio è di essere sommersi ancora più di oggi da così tanta informazione e dati in cui è difficile districarsi. A me quello che preoccupa in questo senso è soprattutto non aver la possibilità di accesso ai dati di una ricerca nelle sue diverse fasi: il protocollo; i dati del dossier dei nuovi medicinali registrati nel mercato; le valutazioni degli enti regolatori anche quando negative, ecc. Anche in questo campo il settore pubblico dovrebbe saper fare la sua parte. Per esempio, offrendo degli spazi dove veder pubblicate le ricerche finanziate con fondi pubblici senza costringere l’operatore a pagare per l’accesso alla rivista.

gianfranco sinagra: Gli unici modi per progredire in conoscenze e migliorare le organizzazioni sanitarie e la qualità di cura dei malati sono gli studi metodologicamente ben concepiti, con criteri di selezione chiari che testino ipotesi i cui risultati possano essere trasferiti nella pratica clinica. Il punto essenziale è produrre risultati che vengano aperti al confronto con la comunità scientifica internazionale. Penso che le riviste con processi di revisioni indipendenti seri siano l’unica strada per aprire le osservazioni e i risultati scientifici al commento critico esterno, alle confutazioni e verifiche nell’ambito di nuovi studi. Tutto ciò che passa unilateralmente attraverso la riaffermazione della propria esperienza, personale, monocentrica, è intrinsecamente fragile, autoreferenziale, non necessariamente verificabile. Ciò che non si apre alle revisioni esterne indipendenti, ai processi di discussione e di condivisione in ambito nazionale e internazionale, poggerà su un’intrinseca debolezza che – a mio giudizio – ne fa una “evidenza” troppo debole per condizionare significativamente l’assistenza.

paolo bruzzi: Anche in questo caso, credo che il problema sia molto diverso se si parla di sperimentazioni cliniche di nuovi farmaci o di dispositivi medici, oppure di studi clinici di tipo diagnostico o anche chirurgico. Per i nuovi farmaci le sperimentazioni cliniche sono in genere tracciabili perché passano dai comitati etici e dovrebbero essere registrate negli appositi archivi. Tra l’altro, modernamente ogni nuovo farmaco viene sperimentato in una specifica condizione clinica in pochi studi internazionali, uno o due, o raramente tre, tutti conosciuti dagli addetti ai lavori. Poi succede che uno studio non venga pubblicato per anni dopo la sua conclusione, ma questo fatto è quasi sempre noto e valutato con sospetto. Per le sperimentazioni su dispositivi medici la situazione è più fluida, anche se dovrebbe esserci lo stesso vincolo del passaggio in comitato etico, perché in Europa la mancanza di un filtro registrativo da parte dell’EMA rende meno stringenti i requisiti di tracciabilità. La situazione è ancora meno regolata per gli studi non terapeutici o chirurgici, dove spesso è molto labile il confine tra studio pilota, sperimentazione di efficacia e studio osservazionale.

Resto però convinto che, riciclando una frase di Giuseppe Traversa, “non esista un tesoro nascosto”: la maggior parte degli studi clinici non pubblicati è di qualità metodologica e clinica così scadente da renderli irrilevanti, mentre gli studi di qualità − negativi e positivi − arrivano quasi sempre alla pubblicazione su una rivista almeno di medio livello. C’è poi da dire che con la proliferazione di giornali scientifici a pagamento, qualsiasi studio può essere pubblicato (basta qualche centinaio di euro), per cui più che per il publication bias ci si dovrebbe preoccupare di evitare che i molti studi e “meta-analisi” di bassa qualità che affollano le nostre ricerche bibliografiche influenzino le valutazioni complessive.