Cinema e medicina

a cura di Luciano De Fiore

Difetti di vista? Napoli (s)velata.
L’ultimo film di Ferzan Özpetek

La dodicesima notte di Ferzan Özpetek. Il suo dodicesimo film, Napoli protagonista. Meglio riuscito dei precedenti, nei quali Istanbul e Lecce fungevano più che altro da proscenio. Qui la città vela e disvela, occulta e scopre, dà la vita e la toglie. «A Napoli, tutto si mescola, l’attualità e i ricordi antichi. La miseria accanto alla nobiltà dei palazzi storici. Il maschile e il femminile», dice il regista. «Napoli moderna e i riti antichissimi, come quello della “Figliata” dei femminielli al quale ho potuto assistere e nel quale è racchiuso, in parte, il senso del film: durante la messinscena, si alza un telo semitrasparente, perché la verità non va guardata in faccia nuda e cruda ma la devi sentire, intuire. Come il Cristo velato: il velo accentua le forme, in realtà. Il velo non occulta, ma svela».




Una borghese quarantenne, medico legale (Adriana, interpretata da Giovanna Mezzogiorno) dapprima viene trascinata dall’attrazione improvvisa per uno sconosciuto − uno scultoreo Andrea (Alessandro Borghi) tanto bello quanto poco fascinoso −, e poi sconvolta dal delitto che dopo una sola notte di sesso glielo toglie, restituendoglielo sul tavolo anatomico. La notte di passione e morte la gettano in pasto ai propri incubi. Fin quasi a smarrire la ragione. L’ultimo delitto le presentifica un primo, originario e rimosso omicidio al quale da bambina aveva assistito impietrita, quando la madre aveva sparato al marito che la tradiva con la sorella di lei, zia della piccola Adriana. Il film è teso tra queste due morti, la seconda delle quali sembra infine contribuire a sollevare il velo che occultava la coscienza della prima.




Ma anche se la realtà è scoperta – e spesso a Napoli non lo è, sepolta nei suoi strati, nelle pieghe barocche, nelle sovrapposizioni di mito e storia – occorre saperla vedere. Il regista turco “sfrutta” le bellezze sulfuree della città: una vertiginosa, ellittica tromba delle scale sembra dar forma ad un occhio gigantesco, il chiostro del Museo di San Martino dove si gioca alla tombola vajassa, la scalinata della Farmacia degli Incurabili e soprattutto la Cappella del Principe di San Severo, dove il Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino si dà solo attraverso le pieghe del marmo che insieme lo nascondono e lo svelano e dove le donne del film appaiono ora come un coro amico, ora come streghe mitiche.

Non c’è bellezza se non si hanno occhi per vederla. Due ciechi che attraversano piazza del Gesù Nuovo annunciano fin dalle prime scene che uno dei temi cardine del film è proprio la visione mancata, lo sguardo che tradisce sé stesso. Occhio non vede, cuore… E no, il cuore sente invece, eccome: ogni inquadratura smentisce l’ideologia consolatrice del detto popolare. Se la rimozione ottunde, il senso di morte non per questo si flette. Resta il sogno, la fantasia, il potere dell’immaginazione.

Non c’è peggior occhio di quello che non vuol vedere, dice un altro proverbio. E infatti Adriana non vuol, o non può, “vedere” che il fantasma del fratello di Andrea, che sa morto avendolo lei stessa sezionato, non può essere vivo. Che sia altro dall’“originale” vivente, le è chiaro non foss’altro per quel non-so-che per cui – anche al suo sguardo di amante che vuole autoingannarsi − il corpo nudo del fantasma appare in qualcosa diverso: un dettaglio, come l’assenza del tatuaggio di un tritone (e qui, francamente, la superfetazione del simbolico è eccessiva, alludendo senza mediazioni all’essere anfibio, qui tra la vita e la morte).

I ciechi si riaffacciano anche nelle ultime scene, poco prima che un occhio-feticcio transiti dall’immaginazione alla realtà: un amuleto a forma di occhio parrebbe perso proprio dal gemello-fantasma. Adriana ne rientra in possesso, segno fin troppo scoperto di una ritrovata sintonia tra lo sguardo del cuore e gli occhi della veglia.




I fantasmi non girano per Napoli: piuttosto, sono “voci di dentro”. Per restare ad Eduardo: «I fantasmi non esistono… li creiamo noi, siamo noi i fantasmi!», faceva dire il grande commediografo a Pasquale Lojacono in Questi fantasmi!