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Di soldi per la sanità ce ne sono molto pochi. Molti sostengono ne vengano stanziati sempre di meno, qualcuno risponde che non è così e che la spesa (o gli investimenti) sono stabili. Già il fatto che non ci sia accordo e forse neanche chiarezza sulle cifre non è una buona cosa. Ma la notizia peggiore è che non è affatto chiaro come sarebbero spesi i soldi destinati alla sanità qualora la disponibilità fosse maggiore. Una buona programmazione accompagnata da un piano organico e dettagliato di investimenti dovrebbe essere la premessa di qualsiasi decisione in merito all’entità dei finanziamenti. Invece non sempre è così. Prendiamo il caso dei fondi destinati a sostenere l’introduzione dei farmaci innovativi e delle terapie oncologiche: è stata stanziata una cifra “a prescindere” al punto che non è stato neanche possibile impegnarla completamente, con l’inevitabile seguito di critiche e polemiche.

Uno dei problemi maggiori della sanità di oggi è l’incapacità – o la non volontà – di programmare l’allocazione delle risorse basando le decisioni su prove che derivino da confronti tra opzioni diverse. Il mantra della rapidità – sostanziato nella sollecitazione a una sempre maggiore contrazione dei tempi di sperimentazione degli interventi sanitari – determina l’approvazione e l’utilizzo di medicinali di cui si sa sempre meno nonostante costino sempre di più. La comparative effectiveness research ha avuto poca fortuna nonostante fosse una strada tanto augurabile quanto ovvia. Paradossalmente, i tempi della valutazione si spostano a valle dell’introduzione delle terapie e le sintesi che dovrebbero guidare se non le decisioni regolatorie, almeno le scelte dei clinici giungono quando le pratiche assistenziali sono talmente radicate da poter essere messe difficilmente in discussione. Il caso dell’uso dei farmaci antipsicotici, approfondito dalla revisione sistematica, è davvero esemplare.

Di soldi per la sanità ce ne sono molto pochi e, ciononostante, l’impressione è che possano essere utilizzati diversamente: forse, con migliori risultati, almeno in termini di soddisfazione delle persone sofferenti. La rassegna di Paolo Cornaglia Ferraris sulla terapia dell’avventura potrebbe suscitare perplessità in qualche lettore che avesse da obiettare sulla fondatezza di percorsi di presa in carico fondati su evidenze dalla ricerca non sempre “robuste”. A questo riguardo, vale la pena tenere sempre a mente il dato di Clinical evidence per cui solo il 35% delle terapie comunemente praticate è sicuramente (11%) o probabilmente efficace (24%). Proprio la finitezza delle risorse dovrebbe suggerire una comparative effectiveness research che metta a confronto – per esempio – farmacoterapia e risposte di tipo diverso ai bisogni del malato: può essere la terapia esperienziale descritta da Cornaglia come la terapia della dignità pensata da Harvey Chochinov per l’ultimo tratto di strada del malato per il quale le pagine dell’Harrison non danno risposte. La salute o perlomeno il sollievo dalla sofferenza si possono anche costruire lontano da ambulatori e ospedali: nei boschi o nelle scuole, come leggiamo nella “piccola” ricerca di Greco. E non è detto che gli esiti siano meno confortanti.

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a cura di Cristina Da Rold (freelance health & data journalist)