Dalla letteratura

L’influenza dell’industria sulla ricerca alimentare

Quando tre anni fa qualcuno diceva che i principi del MacDonald stavano sempre più caratterizzando la medicina, ci si riferiva ai quattro elementi del business della catena di fast food: efficienza, misurabilità, prevedibilità e controllo1. Non era una buona notizia, come non lo è che la dietologia statunitense stia invece venendo progressivamente influenzata da Burger King, ma non per aver scelto di sposare la filosofia dei rivali del MacDonald: perché qualcuno ha preso dei soldi.

Uno dei medici più noti di Harvard, pediatra nutrizionista di fama, tra i curatori delle policy nutrizionali della American Academy of Pediatrics, membro del panel dei redattori delle linee-guida dietetiche degli Stati Uniti, è legato all’industria del fast food e alle aziende produttrici di latte artificiale. Come racconta Rebecca Gale su Women’s eNews, «nel marzo 2018, l’Office for Academic and Research Integrity dell’università di Harvard ha concluso senza clamore un’indagine in seguito a una denuncia contro uno dei suoi medici più importanti, il dottor Ronald Kleinman, per la crescente preoccupazione che legami finanziari stessero influenzando la sua ricerca e le dichiarazioni pubbliche come esperto nella produzione di linee-guida nutrizionali per l’alimentazione dei bambini americani»2. Fin qui, nessuna novità: che la pediatria e la dietoterapia siano terreno di caccia delle grandi industrie non è una notizia.

Il report prosegue elencando le cariche di Kleinman: Charles Wilder Professor di Pediatria presso la Harvard Medical School, dirigente medico del Massachusetts General Hospital for Children, direttore dei Partner Pediatrics di Boston (Partners è il più grande sistema sanitario del Massachusetts). Già presidente del comitato per l’alimentazione dell’American Academy of Pediatrics (AAP), editor-in-chief di quattro edizioni del manuale nutrizionale dell’AAP e del comitato per le linee-guida dietetiche degli Stati Uniti, che elaborano raccomandazioni nutrizionali per milioni di americani. Di nuovo, poco da stupirsi: c’è ancora chi pensa che le linee-guida siano preparate da esperti indipendenti? Davvero qualcuno può credere che le istituzioni universitarie più acclamate siano al di sopra di ogni sospetto?

Kleinman ha ricevuto compensi da Burger King e da molte altre aziende, dai produttori di succhi di frutta a quelli di cereali. Altre relazioni economiche non sono sempre state puntualmente dichiarate. Non trasparenti, per esempio, in occasione di un articolo a sua firma uscito su JAMA Pediatrics nel 20163 che metteva in relazione l’allattamento al seno con delle “conseguenze non volute”, evidenziando come la pratica del rooming-in potesse mettere in pericolo la salute del neonato, soffocato dalla mamma durante la poppata. Dal 2006 al 2014 Kleinman è stato consulente della Mead Johnson, oltre ad aver presieduto due Nestlé Nutrition symposia. Legami, questi, non dichiarati neanche in altri lavori pubblicati su riviste indicizzate: “omissioni involontarie”, ha garantito Kleinman alla redazione di Women’s eNews. Anche questo è un classico: non dichiarare consulenze e compensi ricevuti è una dimenticanza, una trascuratezza, in fin dei conti una banalità. C’è ancora qualcuno che fa caso alla dichiarazione di conflitto d’interessi? Come se non bastasse tutto il resto della burocrazia insita nel pubblicare?

Ancora Kleinman: solo molto di recente, in un articolo uscito nel novembre 2018 sempre su JAMA Pediatrics, sono saltate fuori altre collaborazioni con imprese. Di nuovo Mead Johnson e poi General Mills, Ocean Spray e Alliance for Potato Research and Education. Ancora: presenza nel consiglio di amministrazione dell’International Life Sciences Research Foundation, longa manus di Coca-Cola, Dow Agrosciences/Dow Chemical, General Mills, Hershey Foods, Kraft, McDonald’s, Merck & Co., Monsanto, Nestlé, PepsiCo, Pfizer e Procter & Gamble. Non sono finite: anche di Kellogg.




Kleinman si è difeso sostenendo che la sua posizione è certamente favorevole all’allattamento materno, con le dovute precauzioni. Tuttavia, il titolo dello studio, il paragrafo introduttivo e l’uso della frase «pratiche potenzialmente pericolose» hanno ovviamente attirato l’attenzione di molti giornalisti portando a una copertura mediatica che ha allarmato molti genitori, anche perché «la pubblicazione su una rivista autorevole conferisce più credibilità di quanto sia giustificato dai contenuti dell’articolo», ha sottolineato Women’s eNews. La discussione che si è innescata ha di nuovo tirato in ballo l’utilità dei finanziamenti privati alla ricerca: servono, perché sono «importanti strumenti per far progredire la conoscenza e la scienza e i risultati non sono influenzati da chi finanzia gli studi», ha dichiarato Kleinman. Beato lui che è così sicuro. «Esistono “firewall appropriati” come dimostrano esempi di collaborazioni di alto profilo», ha precisato per tranquillizzare tutti. «Gli studi finanziati dal settore e i compensi come quelli che riceve Kleinman probabilmente continueranno, finché le industrie continueranno a ottenere i risultati che cercano», avverte però Marion Nestle, studiosa che da tempo si interroga sui conflitti di interesse in ambito nutrizionale e alimentare.







Tutto secondo copione. L’esperto che fa il consulente per molte industrie dimenticandosi di dichiararlo, le riviste che pubblicano articoli senza controllare che la disclosure sia esauriente, le inchieste di siti indipendenti che svelano a pochi aficionados cosa accade davvero dietro alle quinte. Se tutto questo lo abbiamo già visto tantissime volte, perché ancora parlarne? Perché l’inchiesta pubblicata da Women’s eNews è parte di una serie del Maternal & Child Health Communication Collective. Finanziato dalla W. K. Kellogg Foundation, un ente benefico di straordinaria ricchezza che supporta in primo luogo progetti finalizzati alla riduzione delle disuguaglianze sociali, economiche e soprattutto razziali. Al punto di essere accusata di essere una fondazione “sovversiva”. La fondazione della Kellogg, per chi non l’avesse capito. Una delle industrie che finanzia l’eroe bostoniano al centro di questa nota.

Bisogna dunque ammettere che almeno su una cosa Kleinman ha ragione. Senza soldi privati, tutto crolla; niente più corrotti ma neanche chi cerca di scoprirli...

Bibliografia

1. Dorsey ER, Ritzer G. The McDonaldization of medicine. JAMA Neurology 2016; 73: 15-6.

2. Gale R. Exclusive investigative report: Harvard’s pediatric nutrition star comes under scrutiny for conflicts of interest. Women’s eNews 2018; published December 18th.

3. Bass JL, Gartley T, Kleinman R. Unintended consequences of current breastfeeding initiatives. JAMA Pediatrics 2016; 170: 923-4.

Nulla da dichiarare

Il presidente eletto dell’American Society of Clinical Oncology, Howard A. “Skip” Burris III, ha dichiarato di non avere conflitti di interesse in 50 articoli pubblicati negli ultimi anni, compresi alcuni lavori usciti sul New England Journal of Medicine. Eppure la consultazione della banca dati statunitense che registra i compensi avuti dai medici rivela che ha personalmente ricevuto 114 mila dollari da industrie per consulenze e conferenze e che 8 milioni di dollari sono stati versati all’istituto da lui diretto.

Robert J. Alpern, preside della facoltà di medicina dell’università di Yale, era nel comitato di direzione della Tricida, azienda che lavora al prodotto sperimentale per la terapia delle malattie renali croniche, quando il Clinical Journal of the American Society of Nephrology ha pubblicato i risultati di un trial a firma di Alpern con una dichiarazione di conflitti di interesse molto lacunosa: «Pensavo fosse sufficiente quello che ho scritto», ha detto.

«Non ho nulla da dichiarare», ha detto Carlos L. Arteaga, direttore dell’Harold C. Simmons Comprehensive Cancer Center di Dallas firmando un articolo – di nuovo sul NEJM – su un prodotto Novartis: in tre anni, Arteaga ha percepito 50 mila dollari da diverse industrie, compresi 14 mila dollari dall’azienda svizzera. «Una distrazione imperdonabile», si è scusato successivamente.

Leggere le dichiarazioni riportate nel documento di ProPublica sui conflitti di interesse della medicina accademica statunitense è illuminante1. La trasparenza sui finanziamenti della ricerca (e sui meccanismi della comunicazione scientifica) non è una priorità per nessuno: non per i clinici che presiedono le società scientifiche, non per i ricercatori che – se non fosse per l’industria – non avrebbero denaro per fare ricerca, non per le case editrici – il cui business si regge sugli investimenti industriali – e per gli editor delle riviste – che altrimenti perderebbero il lavoro o non potrebbero contare su uno staff così numeroso. Gli interessi in gioco sono troppo alti, la sanità è un piatto straordinariamente ricco e nessuno si sente di dichiarare che gran parte di ciò che appare è finto, costruito, gonfiato oppure – tout court – basato sul nulla.

La spesa farmaceutica, i costi della diagnostica, gli screening che producono malati, i robot che operano aumentando la mortalità, la terapia protonica senza prove di efficacia che le Regioni vendono ai cittadini come una conquista: al tavolo della medicina industriale siedono la politica e l’economia.

Dov’è il conflitto?

Bibliografia

1. Ornstein C, Thomas K. Prominent doctors aren’t disclosing their industry ties in medical journal studies. And journals are doing little to enforce their rules. ProPublica and The New York Times 2018; published December 8th.




Cambiare le regole a partita in corso

Quando nella ricerca medica si testa un intervento o un farmaco bisogna essere rigorosi. Se nel condurre uno studio clinico i ricercatori cambiano in corsa le misure che decideranno se l’intervento è efficace o no, è come cambiare la misura di una delle due porte durante una partita di calcio.

C’era molta attesa sullo studio ISCHEMIA, che doveva chiarire se nell’angina stabile l’angioplastica coronarica (PTCA) dava veramente risultati superiori a una terapia farmacologica ottimale. La forza di questo studio era basata proprio sul fatto che era progettato per misurare dei risultati “forti” in termini di esito clinico, cioè il decesso per causa cardiovascolare o l’infarto miocardico. Solo degli esiti “forti” infatti permettono di trarre conclusioni da uno studio non in cieco come ISCHEMIA.

Ma proprio nel gennaio 2018, a reclutamento quasi finito, i ricercatori di ISCHEMIA hanno sparigliato le carte, con una disinvolta marcia indietro: agli esiti “forti” di decesso e di infarto hanno aggiunto l’arresto cardiaco rianimato con successo e il ricovero per angina instabile o scompenso cardiaco.

In uno studio non in cieco questi ultimi esiti, soprattutto i ricoveri, sono esposti a un alto rischio di errore sistematico (bias), come dimostrato dagli studi DEFER, FAME 2, per l’effetto confondente dei fenomeni psicologici della “guarigione per rassicurazione” (molti pazienti stanno meglio alla sola comunicazione dell’esito tranquillizzante di un esame) e della “ansietà da astensione” (medico e paziente, se sanno di non aver ricevuto l’intervento in quanto appartenenti al gruppo di controllo, sono presi da ansia che spesso porta il paziente a stare peggio, e il medico a intensificare la sorveglianza, magari con un ricovero o una rivascolarizzazione).

Non ci si potrà fidare dei risultati di uno studio così esposto a bias. È un’altra grande occasione persa per aumentare le conoscenze importanti in medicina.

Bibliografia

1. Rajkumar CA, Nijjer SS, Cole GD, Al-Lamee R, Francis DP. Moving the Goalposts Into Unblinded Territory: The Larger Lessons of DEFER and FAME 2 and Their Implications for Shifting End Points in ISCHEMIA. Circ Cardiovasc Qual Outcomes 2018; 11: e004665.

Federico Barbani